Navigare nella catastrofe climatica, rifiutare il tempo dell’attesa, continuare a mappare le isole ribelli, salpare le ancore per l’arrembaggio collettivo al capitalismo fossile

Una narrazione pirata nella pandemia, tra fase 0,1,2 e l’incendio di Marghera.

16 / 5 / 2020

15 Maggio 2020, Porto Marghera, la fase 2 della distruzione ambientale.

Brucia l’impianto di stoccaggio dell’acetone, della 3 V Sigma, industria chimica presente nell'area del polo industriale di Marghera (VE). Uno dei serbatoi di metatoluidina è esploso con il suo carico di oltre mille metri cubi di sostanze chimiche. Esplosione che ha fatto saltare l’intero impianto.

La nube tossica in pochissimo tempo si è presa Venezia intera, il Comune si è affrettato a chiedere agli abitanti di restare in casa, chiudere le finestre e possibilmente metterci contro degli stracci bagnati.

Le mascherine, quelle c'erano già.

Nei mesi precedenti le proteste degli operai avevano posto il problema della sicurezza dell’impianto, proprio sul sistema antincendio, come molte altre volte nel sistema veneto dell’inquinamento di terra, aria e acqua siamo quindi in presenza di un disastro annunciato.

Porto Marghera: il petrolchimico, l’inceneritore di Veritas, una lunga striscia di nocività ambientali compresse in una stretta e lunga striscia di terra, dove verso la fine si trova la centrale a carbone Palladio dell’Enel a Fusina. Una storia, questa, di ambiente messo a valore per profitto e trasformato in una discarica tossica, ma anche una storia fatta da decenni di lotte per l’ambiente e di resistenza, come qualche mese fa, nel vecchio mondo prima della pandemia…

Centrale a carbone di Fusina, febbraio 2020, entrare nel mostro, divenire sabbia negli ingranaggi.

 

Quando, con il sole negli occhi, la mattina del 20 febbraio siamo entrati nella Centrale Palladio di Fusina, a pochi passi da Porto Marghera, la prima cosa che ci ha sorpreso è stata l’immensitàdella macchina di acciaio, ferro e rame nella quale ci stavamo addentrando: i sopralluoghi all’esterno, le mappe e i disegni discussi durante le riunioni clandestine delle settimane precedenti non rendevano infatti giustizia delle proporzioni.  

Gli enormi striscioni che fino al giorno prima erano in preparazione nelle sale grandi dei nostri centri sociali salivano dalle corde che “arrampichin*” avevano gettato dopo aver scalato l’altezza delle cisterne e delle torri, ma parevano perdersi nell’inferno di tubi, raccordi e valvole del “mostro”. Dalla cima delle ciminiere ne osservavamo per la prima volta l’estensione e la complessità.

Il “mostro”, appunto; capace di bruciare 7000 tonnellate al giorno di carbone sprigionando nell’atmosfera milioni di tonnellate di CO2 che si sommano a quelle immesse da una serie di esseri suoi simili sparsi nella nostra penisola come nell’intero pianeta. La rappresentazione fisica del complesso del carbon fossile, la lunga propaggine del capitalismo estrattivo che, minuto dopo minuto, scava il tempo che ci rimane per invertire la rotta della catastrofe climatica.

Ma la sua complessità, le sue dimensioni si sono scontrate per la prima volta, almeno nel nostro paese, con i nostri corpi, con i corpi ribelli di centinaia di attivist* arrivat* da quel dedalo di quartieri che compongono la metropoli diffusa che chiamiamo “nord-est”. 

Abbiamo imparato in quelle ore che centinaia di minuscoli esseri umani che si arrampicavano nel suo corpo d’acciaio potevano determinarne lo spegnimento. Non il rallentamento, ma proprio lo spegnimento.

Il mega/mostro abdicava quindi la sua forza distruttrice davanti a carne, cuore e sogni. 

Mentre scalavamo le montagne di carbone dei depositi a Fusina nel febbraio del vecchio mondo tenevamo ben stretta nelle nostre mani, per orientarci, la mappa della rivolta climatica, che, a partire dal Climate Meeting di Venezia in programma lo scorso aprile, ci avrebbe fatto fare il salto verso Shell Must Fall, la sfida collettiva ai colossi del capitalismo fossile che il 18/19 Maggio si sarebbero dovuti riunire in Olanda.

Nemici antichi, questi…

Individuavamo quello come un possibile punto di svolta verso la COP sul clima di novembre, un momento costituente, un momento sul quale spingevamo per segnare da una parte la caduta della Shell, dall’altra il sollevarsi di generazioni ribelli in marcia per un mondo nuovo.

Ma non ci sarebbe stata quella mappa se non fossimo arrivati di volata da un anno particolare.

 

Il 2019, un anno che spingeva, forte, verso il cambiamento radicale nel manifestarsi della crisi climatica.

 

Un anno alle spalle come pochi altri nell’ultimo decennio di “palude” di movimento, quantomeno in Italia. Un anno che ci aveva fatto annusare il sapore del movimento globale che muoveva i primi passi, un anno vissuto tutto d’un fiato. A motivare e validare le nostre scelte, né il caso né la fortuna. Abbiamo imparato da tempo che i processi sociali non si danno per congiunzioni astrali o colpi di culo, ma come si diceva una volta, dietro si nasconde una buona dose di “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria. 

Quando, l’8 dicembre del 2018, si riunirono 10.000 persone per la Climate March a Padova, prima dell’esplosione di Fridays for Future, ci dicemmo che sì era  una sorpresa, ma una sorpresa che avevamo discusso e organizzato dentro quei luoghi di ribelli indisponibili che sono i centri sociali. 

Poi l’esplosione di FFF, l’altra sorpresa “organizzata” del 23 Marzo a Roma, questa nata e cresciuta grazie a soggettività pirata della Laguna,  a partigian* della Val Clarea e ad altre decine di resistenze territoriali. 

Nei tracciati delle resistenze ambientali degli ultimi anni trovavamo il nesso tra la difesa del territorio e la capacità di inserirsi dentro la narrazione globale delle lotte per la giustizia climatica. 

L’assaggio del movimento climatico che stavamo per avere ovunque non poteva d’altronde andare di pari passo con la comparsa delle avvisaglie della catastrofe climatica. La Climate March dell’8 Dicembre 2019 a Padova fu infatti una risposta collettiva a Vaia, quel fenomeno atmosferico estremo sull’altopiano di Asiago chiamato con questo nome mitologico proprio perché non vi era traccia di eventi simili nella storia del nostro territorio, neppure quella fossile.

La crisi climatica ha cominciato a toccarci da vicino manifestandosi in atti che definimmo gravi, pur coscienti che sono come il vento forte che prepara il terreno al tifone, un pugno che sbatte contro la nostra porta in attesa del colpo che la travolgerà.

Abbiamo quindi cominciato a convivere con i segni di una natura piegata da cento anni di sviluppo insostenibile, prodotto dal capitalismo estrattivo, prodotto non dal nostro nemico, ma dal nemico dell’umanità, della natura e delle specie. 

 

Il capitalismo è il virus, noi siamo l’antidoto. Tra Marx e Matrix, mentre l’orologio segna il tempo della catastrofe.

 

Torniamo a Fusina, a quel 29 febbraio. Lo striscione era di quelli semplici, tela bianca, vernice nera e rossa, a pennello la scritta, una cosa tipo da 20 metri. Ma la mano che aveva tracciato la scritta era ferma: parole giuste, nessuna esitazione, una stella rossa a firmarla, i cinque continenti, il vecchio sogno di un internazionalismo che ora torna sempre più attuale per una battaglia globale che non ci possiamo permettere di perdere. 

A 30 metri di altezza, tra il trasformatore della corrente e la camera di combustione, un condotto a congiunzione tra i nastri trasportatori. Non lo avevamo scelto quel posto, era semplicemente uno dei primi che avevamo preso nella corsa nel dedalo di camminamenti della centrale. Postazione raggiunta, compagn* sopra alla passerella, striscione attaccato, si attende l’arrivo degli uomini blu, mentre intorno in centinaia dilaghiamo tra le sue viscere d’acciaio.

“Siamo l’antidoto al capitalismo!”: dalle montagne di carbone di Fusina alle pianure recuperate dai Mapuche, alle miniere di Hambach fino alle piazze cilene. Fili rossi che si congiungono, resistenze che comunicano tramite immagini, simboli che vengono colpiti. A difesa del modello di sviluppo imperante, le stesse facce da maiali con divise che cambiano solo di colore, ma che rimangono quelle dei servi di un sistema capace di mettere a repentaglio la stessa riproduzione della vita in questo pianeta.

Stesse battaglie quindi, storie e provenienze diverse, stesso nemico e stesso morbo distruttore.

Il virus, per l’appunto. Prima di prenderci le ciminiere di Fusina avevamo annusato una parte del problema: un altro virus si prendeva invece corpi e strade mentre noi entravamo dentro alla centrale nella prime fase del “Lockdown dolce”. 

Il mondo sembrava spegnersi per resistere alla pandemia, noi invece sentivamo il bisogno di accelerare. Le narrazioni ancora embrionali che mettevano l’accento sul salto di specie di questo virus e di quelli precedenti a di lui, la distruzione di quella che è una parte del nostro sistema immunitario, le foreste, ne favoriva la diffusione; coglievamo il nesso, ne vedevamo la congiunzione con la crisi climatica, scriverlo sulla centrale era il modo di comunicarlo.

Che il sistema di sviluppo non funzionasse non l’abbiamo scoperto ieri; il nostro è un tempo in cui anche le narrazioni mainstream del capitale finanziario sono costrette a dare ragione al vecchio Carlo Marx e rendergli giustizia di quelle stesse analisi che hanno smosso milioni di persone, muovendole nell’assalto a palazzi d’inverno e a scontrarsi per assalti al cielo. Ma per alcun* di noi, che sono di qualche generazione dopo, c’era stato pure l’agente Smith a difesa di Matrix che ci aveva chiarito come funziona l’essere umano: “Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura.”

Sostituiamo alla narrazione, capitalismo ad esseri umani, sostituiamo la cura con la rivolta oppure se volete parliamo di prenderci cura di questo vecchio mondo con una rivolta globale. 

Nella prima fase della pandemia il mondo chiudeva per salvare centinaia di migliaia di vite, ma lo stesso intreccio di Stati e poteri finanziari non aveva fino a quel momento accettato di fermarsi per preservare l’intero pianeta dalla crisi climatica.

 

Il virus è il presagio, il clima l’apocalisse.

 

Ma abbandoniamo l’agente Smith, scendiamo dalla Nabucodonosor che lancia il segnale pirata dentro Matrix e torniamo a un’analisi materialista della realtà. Avevamo e abbiamo assunto la lettura del tempo della crisi climatica, di un tempo quindi che non lavora per l’organizzazione dei processi rivoluzionari, ma di un tempo nel quale la macchina del capitalismo estrattivo lavora contro il pianeta e le specie che lo abitano. 

Il tempo lavora contro di noi, è bene dirselo, con buona pace dell’equazione lotte/sviluppo, con buona pace di sogni che abitano anche nelle periferie del perimetro della sinistra radicale come quello di dolci transizioni verso modelli societari meno distruttivi. 

E’ meglio essere chiari, abbandonare le illusioni riformiste e riformatrici e ri-cominciare a maneggiare il termine rivoluzione. Riprendere coscienza che darlo come prospettiva significa cambiare il nostro atteggiamento nell’agire il campo politico. Non si tratta più “solamente” di modellare un sistema diverso per istanze di liberazione antiche come le montagne, o per il nostro insaziabile desiderio di libertà: si tratta di agire la trasformazione per permettere agli esseri umani e alle specie animali di poter vivere in questo pianeta. Il farlo passa per noi, attraverso la capacità di costruire un modo di vita che elimini il concetto di sfruttamento dell’umano sull’umano, dove si superi il binarismo di genere, ma dove, rompiamo qua si un tabù dentro la sinistra “classica”, vengano stravolti anche i rapporti di dominazione degli umani verso le altre specie. 

Se assumiamo fino in fondo di guardare la realtà attraverso la lente della prospettiva ecologica non possiamo sottrarci da un dibattito che cambi questo paradigma.

La contraddizione principale del nostro agire politico è la contraddizione umano/natura/specie, dentro questa contraddizione leggiamo le altre che ne compongono il prisma.

Il salto di specie del Covid19 è il presagio, lo shock, la crisi climatica invece è l’apocalisse e non ci sarà confinamento o vaccino che tenga, dilagherà nel pianeta e coloro che deteranno la ricchezza lotteranno con le unghie e con i denti per preservare il “loro” in una guerra di classe alla rovescia che stiamo già intravvedendo nella crisi sanitaria ed economica in atto. 

Il problema del rovesciamento del rapporto di forza è uno dei temi dell’agenda rivoluzionaria, ne rappresenta la diversità con i tanti movimenti d’opinione che attraversano il pianeta. Ci parla della costruzione di coalizioni di ribelli che, con tutti i mezzi necessari, costruiscano la potenza di un contropotere. Ed è per questo che bisogna porci, ora come non mai, il problema della costruzione collettiva del conflitto, dell’invenzione di forme nuove e della ripresa di forme antiche che recuperiamo dalla nostra famosa cassetta degli attrezzi. Il tempo è ora, il tempo dell’attesa va rifiutato.

 

La battaglia climatica non può permettersi il confinamento. Rifiutare il tempo dell’attesa per entrare in quello dell’azione. 

 

Non nascondiamoci che nella bolla dell’#andàtuttobene avevano trovato casa anche parte di coloro che avevano partecipato ai momenti di massa del movimento climatico. Una narrazione dolce, per non dire debole, che immaginava la nascita nella pandemia di una nuova coscienza ecologica, di uno shock positivo che avrebbe cambiato il nostro rapporto con la natura e le specie.

Intanto, mentre le immagini di delfini che nuotavano nella laguna o file di papere che attraversavano i centri storici di qualche città acchiappavano migliaia di like nella fabbrica sociale di Zuckemberg, il sistema di raffreddamento delle Servers Farms andava in tilt per le troppe connessioni. Il sistema stesso che permetteva nella quarantena la possibilità di vivere nel virtuale reclamava migliaia di mq di nuovi server, senza che la quantificazione dell’energia che serve per mantenere aperto questo spazio di comunicazione ci tangesse minimamente. D’altronde quello che ormai è una nostra ormai propaggine, un collegamento ad un arto chiamato smartphone, è prodotto sulla base dello sfruttamento delle miniere di Coltan in paesi come il Congo.

Diciamocelo chiaramente, in parte ci hanno confinato, ma in una altrettanto importante parte ci siamo auto-confinat*, chi con rabbia, chi con disillusione, ma con il medesimo risultato che la questione climatica è rimasta sullo sfondo e per molti non è stata il paradigma attraverso il quale leggere la pandemia.

Anzi, quante volte è stato ripetuto nella stampa mainstream che era il tempo in cui affrontare “insieme” l’emergenza sanitaria, finita quella si sarebbe riparlato di tutto il resto.

Finita l’emergenza sanitaria, che poi è destinata a continuare nel tempo, forse per essere sostituita da un’altra emergenza appunto. Siamo sulla stessa barca ci è stato ripetuto, come se lo fossimo davvero, come se invece non fossimo altro che nella stessa tempesta. Tempesta nella quale abbiamo fatto immediatamente della cura (pirata) e del mutuo soccorso un’arma verso chi rischiava di naufragare mantenendo come sempre l’attenzione a chi sta in basso.

Ma se fossimo sulla stesso vascello in preda a una tempesta terribile e nell’equipaggio si fosse propagato un virus avremmo forse rinunciato a manovrare la nave per richiudersi nella stiva?

Ma se nella stessa nave durante la tempesta una parte, quella che vive nel castello di poppa, avesse scelto di far annegare quella della stiva per prolungare la propria sopravvivenza, avremmo rinunciato ad agire?

Immagini, appunto, come quella in questi giorni di lockdown edulcorato, o fine lockdown, chiamatelo come volete, dell’assemblea degli azionisti di Eni rigorosamente a porte chiuse, nel tempo della sospensione appunto. 

Basterebbe questa quadro a spiegare la situazione, mentre di fatto esiste ancora un divieto a manifestare, come se non fosse possibile farlo in sicurezza (e che fortunatamente violiamo spesso in tant*), le lobby del capitalismo fossile non possono rinunciare a trovarsi, le stesse lobby per cui il processo di Milano per la mega tangente da 1 miliardo di dollari per lo sfruttamento del petrolio della Nigeria, è interrotto a causa della chiusura dei tribunali.

Si può decidere di rimandare la Cop sul clima di Glasgow del prossimo novembre e la pre Cop di settembre a Milano al 2021 e così si sacrifica un altro anno dopo il fallimento di Madrid. Un anno in cui, come vari articoli hanno sottolineato, anche in questo portale, nell’avanzare della crisi economica tutta l’energia degli stati e della finanza sarà protesa al profitto per colmare le perdite e non all’impatto ecologico delle proprie politiche economiche.

Il tempo del confinamento deve quindi finire, il compito della sollevazione climatica parla del destino del mondo, ha il mandato dell’umano, delle specie e della natura, non si potrà fermare se prima non verrà posta in sicurezza la vita e la sua riproduzione. La quarantena ha lavorato contro di essa, non nascondiamocelo: il movimento è sopito ma non spento, come il fuoco sotto la brace che cova nell’attesa di ri-prendersi la scena.

 

Ri-disegnare la mappa della ribellione, lo spazio europeo come campo di battaglia.

 

Il fuoco cova ancora, sia quello dei movimenti in lotta sia quello dell’incendio del sito di stoccaggio dell’acetone a Marghera, la mappa è ancora in nostro possesso, l’avevamo scritta cospirando nelle gallerie di vecchi bunker, di qualche guerra di troppi anni fa, di fianco a lussuose mostre del cinema nel settembre scorso, scritta e tracciata per poi uscire tra la notte e il giorno e prenderci la scena sul red carpet davanti al mondo. 

Una mappa per orientarci in un conflitto che doveva diventare visibile, all’intero pianeta, appunto.

Sul tappeto rosso preparato per altri avevamo mescolato i linguaggi, le narrazioni, le provenienze e generi diversi, messo insieme pratiche imparate in luoghi distanti tra loro migliaia di km. 

Pirat* delle lagune, ribelli delle montagne, guerriglier* di battaglie mai combattute, abitantI di foreste ribelli, cittadin* stanch* del cemento e dello smog delle metropoli. 

Una cospirazione multiforme, un patto tra ribellI per salvare il pianeta dopo anni in cui ne eravamo stat* ai margini in fortini assediati. 

Da quel momento le bandiere che ci scambiammo in saluto comparvero nell’Europa in lotta, dai blocchi al salone internazionale dell’automobile a Colonia al Block Friday del novembre di FFF. 

Ora è tempo di rimettersi in cammino, decretando da subito la fine del tempo dell’attesa, dobbiamo assumere che lo spazio del cambiamento non può che essere nelle punte della stella rossa sullo striscione di prima, lo spazio globale appunto, senza il quale le istanze di rivoluzione resteranno illusorie, ma il campo di battaglia che dobbiamo praticare è quello Europeo, non certo quello di istituzioni incapaci anche di garantire benessere alla cittadinanza, un campo di battaglia appunto, di scontro radicale tra prospettive diverse.

Non aspettiamoci però che siano le istituzioni a darci l’agenda, non hanno intenzione di regalarci i luoghi dove prendere parola attraverso il conflitto, esse fuggono dalla discussione e dalla decisione sulla materia climatica, hanno prontamente cancellato la prossima Cop sul clima dopo aver fatto naufragare quella di Madrid.

Se in altre fasi storiche abbiamo fatto dei vertici il terreno dello scontro per parlare al mondo ora sappiamo che sarà il Capitalismo Estrattivo a nascondersi e noi abbiamo il compito di doverlo stanare prendendoci i luoghi della distruzione climatica.

Dovremo fare delle centrali a carbone i luoghi della discussione del movimento, dei condotti in costruzione del Tap luoghi di intreccio tra attivist* per il clima e comitati territoriali, delle sedi delle multinazionali del fossile i nostri accampamenti temporanei, delle foreste intorno alle produzioni di morte i luoghi dove darci appuntamento per poi comparire travisat* ed armati di cesoie e tronchesi.

Non sarà semplice, non ce lo permetteranno, dovremo imparare a farne nostro Diritto con occupazioni, blocchi, azioni dirette, una la narrazione collettiva per costringerli a proteggere le propaggini dell’estrattivismo mentre costruiamo le premesse per dilagare ovunque.

Ci saranno però alcuni luoghi ed alcuni eventi che le lobby finanziarie del capitalismo fossile non potranno rimandare, quelle giornate dove centinaia e centinaia di azionisti dovranno votare prospetti economici, dividendi, piani d’affari neri come il petrolio e il carbone e pericolosi come il gas…là ci dovremo far trovare pront*, non per contestarli con garbo e dialettica ma per impedirgli di deliberare, per provare fino in fondo a  sancire la loro caduta per decreto della dignità dei popoli, delle specie e la della natura.

A noi scegliere luoghi, tempi e pratiche, intrecciando rapporti distanti migliaia di km, parlando il linguaggio delle differenze, caminando per sentieri sconosciuti senza verità assolute in tasca sapendo che c’è un tempo per ogni cosa ed il nostro tempo è ora, il Covid19 e la quarantena ci hanno dato un assaggio di quello che ci aspetta.

Il tempo a disposizione per portare il vascello fuori dalla tempesta  è poco e mentre gli schiumogeni dei pompieri stanno lentamente domando l’incendio delle 3V Sigma di Marghera, nel maggio del nuovo mondo, è ora di dichiarare aperta la nostra fase 3, è ora di salpare le ancore! Apocalisse o Rivoluzione!