La strage del Vajont e il capitalismo idroelettrico

Presentazione del libro di Marco Armiero “La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro”.

15 / 11 / 2023

Il 9 ottobre 1963 quasi duemila persone morirono travolte dall'onda di acqua e fango sollevata da una gigantesca frana precipitata nel bacino del Vajont. Si tratta di uno dei più grandi disastri ambientali dell’era capitalista che, a 60 anni di distanza, è stato oggetto di studio per Marco Armiero, autore del libro “La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro”, edito di da Einaudi. Il libro è stato presentato nella sede di Radio Sherwood a Padova lo scorso 8 ottobre 2023.

Marco Armiero è uno storico ambientale di fama internazionale e tra i più importanti studiosi di ecologia politica a livello italiano e non solo. Il suo libro non mira solo a ricostruire i fatti che portarono alla drammatica notte del 9 ottobre 1963, ma interseca tre grandi questioni storiografiche: il rapporto tra scienza e potere; i costi nascosti della modernizzazione; la costruzione della memoria collettiva. 

«Nella mia versione la storia ambientale non serve a separare l’ambiente dal sociale ma a vedere le relazioni socio-ecologiche di cui è fatto il nostro mondo». L’esigenza è quella di ripercorre i fatti del Vajont e raccontare questa storia ambientale non limitatamente alla sua accezione puramente “naturale” ma considerando le relazioni socio-ecologiche. La storia ambientale infatti deve indagare quanto il potere conti nelle dinamiche ecologiche. 

Il 9 ottobre 1963 crollarono 3 milioni di metri cubi di roccia nel bacino artificiale formato dalla diga del Vajont, provocando uno tsunami di potenza tale che distrusse i paesi immediatamente intorno e causò la morte di quasi 2000 persone. La storia di una delle più gravi tragedie ambientali del nostro paese è conosciuta soprattutto grazie allo spettacolo di Marco Paolini e Gabriele Vacis. Nel 1997 con un’orazione civile riuscirono a raccontare la tragedia del Vajont come nessuno storico era riuscito. Nella prima messa in onda, in diretta dalla Diga, si raggiunsero 3 milioni di telespettatori. Questo è il chiaro segnale di quanto sia potente il racconto di una storia: «la memoria ribelle e gli archivi insorgenti sono una barricata contro le narrative tossiche che silenziano le ingiustizie».

Il disastro del Vajont è stata una tragedia annunciata e di conseguenza evitabile. Già nel 1959 Tina Merlin, ex partigiana e giornalista dell’Unità, iniziò a denunciare i rischi della diga e per questo finì a processo per la diffusione di notizie false e tendenziose volte a turbare l’ordine pubblico da cui venne assolta. Fu Tina Merlin a definire la tragedia del Vajont come un “monumento eterno alla corruzione dell’accademia italiana” corrotta al potere economico e politico. La stessa Università di Padova fu coinvolta nella vicenda del Vajont. All’epoca della costruzione della diga, il dipartimento di Idraulica fece degli esperimenti, su di un plastico, per verificare cosa sarebbe successo se una frana fosse caduta nel bacino. I risultati di questi test rimasero segreti anche dopo la tragedia e vennero “rubati” da Lorenzo Rizzato, tecnico dell'Università di Padova, che li consegnò ad un deputato del Partito Comunista. Quest’ultimo riuscì a farli pervenire al Pubblico Ministero di Belluno che seguiva l’inchiesta sul Vajont. 

Concentrandoci sulle relazioni socio-ecologiche, ovvero come la natura non possa essere vista in maniera distaccata dall’economia e dalla politica, nel disastro del Vajont è palese l'appropriazione del capitalismo sulla natura. È stato, nello specifico, il capitalismo idroelettrico ad espropriare la valle e a mettere a profitto la vita e la morte degli abitanti dei paesi limitrofi. «Sarebbe sbagliato utilizzare la tragedia del Vajont come prova che siamo all’interno dell’Antropocene, una nuova era geologica in cui gli umani condizionano l’intero pianeta in quanto forza geologica. Invece è più corretto rubricare la tragedia del Vajont nella cosiddetta Wasteocene, (si legga la recensione del libro di Armiero sull’“era degli scarti”), ovvero un’era in cui le relazioni socio-ecologiche di scarto producono comunità di umani che non valgono nulla. Sono comunità fatte per il profitto e il benessere di qualcun altro. Gli umani non sono una forza ecologica, non hanno sposato le montagne. E’ stato il sistema economico che produce e crea relazioni socio-economiche,il capitalismo, che ha avuto la possibilità di muovere le montagne per far trarre profitto ai capitani d'industria idroelettrica dell’epoca e all'agenzia di controllo del Governo»

Chi invece non ne ha tratto nulla, se non morire in modo violento e ritrovarsi le proprie case in macerie, sono stati gli abitanti dei paesi accanto le montagne. Citando, la scrittrice indiana, Arundhati Roy, l’interesse allo sviluppo della nazione, il cosiddetto Greater Common Good, va sempre a discapito di chi è più povero e non riesce a beneficiarne. C’è sempre qualcuno che paga il prezzo per il benessere comune, e nel caso della Diga del Vajont sono state le comunità della Valle. Significativa la testimonianza di una donna intervistata da un giornalista della Rai l’indomani della tragedia. Le venne chiesto come mai nonostante fossero consapevoli del pericolo non se ne fossero andati, e lei rispose “Noi pensavamo che loro ne sapessero più di noi”. Quel loro stava ad indicare scienziati, ingegneri, governanti che li avevano sempre rassicurati sulla sicurezza della Diga.

La vicenda del Vajont non è la “mela marcia” o un progetto sbagliato, ma fa parte di un sistema estrattivista che ha devastato il territorio. Il problema è il capitalismo idroelettrico che prospera grazie alla complicità degli apparati. Si pensi che furono questi ultimi ad approvare tutte le modifiche della Diga. In particolare il cambio della grandezza, da 140 metri a 740 metri, venne concesso nonostante non vi fosse ancora la relazione geologica che assicurasse la sicurezza della modifica.

La questione del potere fu posta anche dagli avvocati dell’accusa durante il processo del Vajont per omicidio colposo. L’avvocato Sandro Canestrini, pubblicò la sua arringa finale del processo in un libro dal titolo “Vajont Genocidio dei Poveri”. In un passaggio molto significativo critica duramente l’impostazione del processo per delitto colposo e non doloso, e l’utilizzo di una legge che in tutti modi salvaguardava i colpevoli della tragedia del Vajont.

“Abbiamo già detto come questo sia un processo politico: i crimini commessi dagli imputati sono crimini politici e sociali sotto la maschera del diritto comune: anche voi, signori giudici, come uomini, dovete ribellarvi all’ipocrisia e condannando togliere la maschera. Voi sentite benissimo che questi omicidi colposi non hanno nulla a che vedere (anche se truccati dalla tecnica giuridica in modo da sembrare gli omicidi colposi che tutti i giorni si discutono nei tribunali della Repubblica) con il reato di chi, in un attimo di disattenzione, investe e uccide con la sua automobile un pedone. No. La fattispecie del Vajont e dell’incidente stradale potranno essere riunite sotto un medesimo articolo del diritto positivo, ma sono l’una lontana dall’altra come la terra dal sole, sia nella coscienza pubblica come nella nostra stessa coscienza di uomini di legge. (...) Spetta a noi di fronte a questa melma riscoprire la verità dei visi macellati di questi 2000 morti, di ripulire la realtà dallo sterco delle malizie, delle parole, delle carte burocratiche. Di queste 2000 morti violente che ora vengono “pagate” con soldi pubblici, e cioè ancora da noi, e non da chi ha causato il danno.”

Non bisogna dimenticare poi che per questo processo venne concessa la legittima suspicione, infatti il dibattito del procedimento fu sposato da Belluno a l'Aquila perché il clima era troppo teso. Ciò a discapito dei sopravvissuti che dovettero spostarsi, con ingenti spese economiche, da Belluno a l'Aquila per seguire il processo.

Nel capitolo “Le resistenze” del libro di Armiero, viene affrontato il concetto del paradigma vittimario, cioè ritenere che le vittime non abbiano capacità di agire. è necessario scardinare tale paradigma, perché ci si concentra sulla vittima e non sul carnefice. «Giustamente bisogna celebrare la sofferenza, ma accanto bisogna lottare contro il sistema che ha provocato le vittime. Vi è un’idea limitante di vittime: da una parte quelle che soffrono e muovono al pianto e dall’altro quelle che urlano giustizia e lottano per averla. Invece può coesistere nella stessa persona la sofferenza per le atrocità subite e la voglia di combattere contro le ingiustizie. Solo accettando questa complessità si può sovvertire il paradigma vittimario. Di sicuro un ruolo fondamentale nell’eliminare il paradigma vittimario ce l’hanno avuto, negli ultimi anni, i movimenti femministi e ambientalisti che sono riusciti a non rimuovere la questione del carnefice nelle loro battaglie».

La montagna apre un problema culturale ancora irrisolto perché viene vista come un luogo da preservare e contemplare in netto contrasto con il turismo di massa e l’estrattivismo. Ma bisognerebbe andare oltre a questa bipartizione e cercare di inserire la montagna in una dinamica socio ecologica positiva. Attualmente la montagna è un argomento molto sentito nel nostro territorio in vista delle Olimpiadi del 2026, che avranno luogo in gran parte dell’arco Alpino. Durante il Climate Camp 23 a Venezia, si è iniziato a costruire un ragionamento che vede il contrasto a queste Olimpiadi come un paradigma di difesa della natura e di attacco ad un modello economico e di sviluppo. 

«Marx diceva che gli umani conoscono la natura attraverso il lavoro e nel processo di cambiare la natura attraverso il lavoro cambiano se stessi, perché l’uomo è natura. Si pensa che esiste uno spazio del lavoro, sporco e inquinato, e poi vi è uno spazio naturale dove rigenerarsi. È importante rivendicare che la Natura debba essere conosciuta, non solo in un’ottica di turismo e contemplazione, ma anche attraverso il lavoro. Quest’ultimo può mettere in relazione metabolica la nostra natura interna, il nostro corpo, e la natura esterna. Solo così si possono immaginare relazioni socio-ecologiche diverse che non riproducono la separazione dicotomica natura da una parte e lavoro dall’altra; ma che permettano di conoscere la natura anche attraverso il nostro stesso corpo. Chi abita gli spazi naturali deve avere una voce e poter rivendicare la protezione della natura che sia legata alla protezione della propria comunità».

Immagine di copertina: Fotografia dell'Archivio dell'istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea.