Il presidente egiziano ad interim Adly Mansour ha oggi incaricato l'economista Hazem Beblawi di formare un nuovo governo, mentre Mohammed El Baradei, esponente laico di spicco per i prestigiosi incarichi e riconoscimenti inernazionali, è stato nominato vicepresidente della Repubblica con delega alle relazioni con l'estero.
Beblawi, 77 anni, è un navigato politico, rappresentante di quella nomenclatura del potere egiziano che è passata indenne attraverso il cambiamento dei rapporti di forza all'interno dell'establishment sempre più piegati dalle lobbies legate all'esercito, è stato ministro delle finanze e vice premier nel primo governo di transizione dopo la deposizione del presidente Mohammad Hosni Mubarak nel 2011, dimessosi in seguito ai gravi incidenti contro i cristiani copti, è stato mantenuto in carica su pressione dell'esercito, fin dalla metà degli anni '70 ha ricoperto incarichi come consigliere economico in Egitto, in altri Paesi arabi e all'Onu.
Il suo compito, mentre continuano le manifestazioni del fronte mussulmano e di quello laicista nelle metropoli egiziane, è quello di formare un governo di transizione che sia il più possibile inclusivo di tutte le forze politiche egiziane: già circolano alcuni nomi che fanno rispettivamente capo al partito dei Fratelli Mussulmani, a quelloo dei salafiti e alla coalizione laica, un manuale Cencelli in salsa araba.
Riportiamo qui di seguito l'interessante articolo di Marco Bascetta dal Manifesto di ieri:
Lo spettro della democrazia
L'Egitto è in pieno caos. Innumerevoli incognite incombono sull'immediato futuro del paese. Le nubi della guerra civile volano basse e minacciose. Bande armate scorazzano nel Sinai. I soldati sparano sulla folla e uccidono, le carceri si riempiono, l'esercito è l'arbitro e il centravanti della partita. Una infinità di incredibili paradossi si dispiegano sotto gli occhi del mondo. E tutti i nodi delle cosiddette primavere arabe sembrano venire al pettine nella forma più aspra e sanguinosa. Esattamente venti anni prima di questi eventi Bahgat Elnadi e Adel Rifaat , due sociologi di origine egiziana trapiantati in Francia dove pubblicano con lo pseudonimo comune di Mahmoud Hussein, scrivevano: "Nelle grandi capitali dell'emisfero sud, da qualche anno a questa parte la parola d'ordine della libertà mobilita folle numerose come quelle che, nel passato, solo la parola d'ordine dell'indipendenza aveva potuto radunare. E'in atto un cambio di priorità". Per aggiungere subito dopo: "E nondimeno, la democrazia resta, il più delle volte, tanto desiderata quanto irraggiungibile; tanto necessaria quanto fuori portata"( Versante sud della libertà, manifestolibri 1994).
Non vi è
dubbio che da Tunisi al Cairo (ma anche in Libia e Siria dove tuttavia
il dispositivo della guerra civile è stato attivo fin dall'origine) la
domanda di libertà, (che non è sovrapponibile a quella di democrazia),
sfociata poi nell'esercizio di un potere destituente, è stata il
carburante della rivolta che ha portato alla cacciata di Ben Ali e di
Mubarak. Libertà dall' arbitrio di uno stato-nazione che, persa da un
pezzo la legittimità derivata dalla stagione delle indipendenze,
soprattutto di fronte a una sterminata popolazione giovanile che non ne è
stata partecipe e se ne sente infinitamente distante, si risolveva in
un sistema di intollerabili privilegi e soprusi tanto ramificati da
insidiare ogni aspetto della vita quotidiana di tutti e di ciascuno.
Questo scontro frontale e per molti versi viscerale contro l'apparato
disciplinare dello stato schierato in difesa dei privilegiati e
sistematicamente dedito alla corruzione, presenta, a partire dalle sue
forme spontanee, caotiche, perfino improvvisate, molti tratti di quello
che potremmo definire un movimento antiautoritario, tanto più vigoroso,
quanto più spessa e duratura era stata la cappa che soffocava la libertà
dei singoli e soprattutto delle singole. E' la stessa caratteristica
che ha segnato, in forma ancora più pura e accentuata, la ribellione
turca contro lo "stato etico" in via di edificazione per mano di
Erdogan, a colpi di leggi liberticide e precetti morali, seppure in un
contesto di soddisfacente crescita economica.
Era inevitabile che
questa specifica domanda di libertà entrasse rapidamente in rotta di
collisione con la componente islamista delle ribellioni arabe la cui
idea di libertà consisteva invece esclusivamente nella possibilità di
organizzarsi politicamente alla luce del sole e nel rifiuto degli schemi
politici e culturali di derivazione occidentale a cui contrapporre una
morale pubblica e privata di stampo tradizionalista e comunitario. Ecco,
dunque, il primo paradosso: sull'onda di un movimento antiautoritario
viaggiano correnti e formazioni politiche ispirate da una visione
autoritaria della politica e della società. E, democraticamente, vincono
facendo leva sul disorientamento e su quel tessuto di solidarietà
comunitarie e di consuetudini tradizionali che, se non lasciano spazio
alcuno alle libertà individuali, consentono tuttavia alla massa degli
esclusi dai circuiti economici e culturali della modernità di tirare a
campare. Vincono, ma governare con l'ideologia e per l'ideologia non
intacca i privilegi e non migliora le condizioni di vita. Gli islamisti
non riescono a fare i conti con una società che si è fatta complessa
anche negli strati più bassi, né a incarnare una presunta "anima
proletaria" contro la presunta "anima borghese" della laicità. Il Corano
non prevede la lotta di classe e la passione antimperialista è in
evidente declino dopo aver fatto lungamente da alibi a governi corrotti e
dittatoriali. Il trucco c'era e tutti lo hanno visto. Il fatto è che il
contrasto tra il legame con la tradizione e l'aspirazione a un
rinnovamento radicale non attraversa solo la società ma anche gli stessi
individui che la compongono. E l'islam politico, anche il più accorto e
moderato, non riesce a rinunciare a quel manicheismo che è nei suoi
geni, accecato da una pretesa di coerenza fuori dalla storia e dalla
vita reale degli individui. Così Erdogan e Morsi si ritrovano in piazza
milioni di persone inferocite contro quella che considerano una
"dittatura della maggioranza" uscita dalle urne. Impossibile imputare un
simile movimento alla manipolazione eterodiretta o alla borghesia
occidentalizzata. Lo schema dello scontro di civiltà frana
rovinosamente.
E qui, almeno in Egitto, entra in scena il secondo
paradosso. Il "movimento antiautoritario", la diffusa domanda di
libertà, ricevono la protezione e l'appoggio della più autoritaria delle
istituzioni: l'esercito, il quale la mette in atto nel modo che gli è
più consono: sparando. Sulla natura dell'istituzione militare nei paesi
postcoloniali, sui fattori che ne hanno determinato la superfetazione e
l'invadenza nella vita politica ed economica e nelle relazioni
internazionali si possono produrre diverse spiegazioni storiche.
Certamente in alcuni paesi ha svolto una sua parte nel processo di
modernizzazione accentuandone però i tratti tecnocratici e autoritari.
Quel che è certo è che la domanda di libertà, nonché quella di una più
equa distribuzione della ricchezza non possono che scontrarsi presto o
tardi con il principio d'ordine, la struttura gerarchica e le strategie
geopolitiche proprie dell'istituzione militare. Essendone schiacciate o
spaccando l'unità dell'esercito con il rischio di scatenare la guerra
civile. Vent'anni fa Elnadi e Rifaat la mettevano così: di fronte al
fallimento dello stato-nazione postcoloniale, tra promesse disattese e
politiche di "sviluppo" fallimentari e conservatrici, i movimenti
"giungono a una alternativa fondamentale, a una scelta tra due possibili
principi di coerenza: o il ritorno indietro o il salto in avanti, o il
ristabilimento di un ordine fondato sui valori prenazionali della
religione e del costume comunitario, o la ricerca di una modernità più
radicale, di una democrazia più laica". Ma è esattamente su questa
alternativa che si innestano tutti i paradossi, le contraddizioni, i
vicoli ciechi, che gli eventi in corso mettono in luce. La domanda di
libertà non riuscirà ad imporsi se non combinata con un elemento di
classe, decisamente rivolto contro il potere e la ricchezza dei ceti
dominanti nonché contro i diktat del Fondo monetario internazionale e
degli altri creditori, e dunque capace di includere la vasta area della
povertà. Altrimenti saranno la reazione sanfedista e il potere
paternalista e autocratico che la governa ad avere la meglio, con la
benedizione delle cancellerie e delle banche di tutto il mondo. E' una
lezione antica, quella impartitaci da Vincenzo Cuoco nel suo amaro ma
lucidissimo Saggio storico sulla rivoluzione partenopea del 1799.
La
laicità può essere garantita da un esercito, perfino da un esercito
straniero, la libertà, fatta eccezione per quella dei capitali, non può
esserlo. Non è una differenza da poco. Ed è una partita che non si gioca
necessariamente nel campo della democrazia parlamentare. I democratici
(governi occidentali compresi) che festeggiano un golpe e i
comunitaristi che agitano il feticcio della democrazia e del risultato
elettorale sono l'esempio evidente della natura spettrale in cui lo
schema democratico si dissolve e dell'attrito tra le sue regole formali e
la realtà sociale cui pretende di applicarsi. Lo scontro di civiltà è
stato inventato, alimentato e agito contro la lotta di classe. Sarebbe
ora che quest'ultima, o le forme di conflitto sociale che ne raccolgono
l'eredità, si prendessero la loro rivincita.