Chiloé, l’arcipelago colonizzato dall’industria “salmonera”

2 / 3 / 2024

Una petizione dei popoli originari dell’arcipelago di Chiloé, che chiedeva la creazione del “Espacio Costero Marino de Pueblos Originarios” (ECMPO) con cui poteva essere riconosciuta l’amministrazione indigena su 621 mila ettari di territorio costiero, è stato rigettata lo scorso giovedì dalla Comisión Regional de Uso del Bosque Costero (CRUBC, una commissione composta da rappresentanti regionali e statali): vengono così salvaguardati i “diritti” al profitto ad ogni costo, allo sfruttamento del territorio e all’inquinamento dell’industria “salmonera” a discapito dei diritti ancestrali dei popoli originari dell’arcipelago.

Chiloé è un arcipelago situato nel sud del Cile che da almeno quarant’anni anni è costretto a convivere con l’ingombrante e pericolosa presenza dell’industria multinazionale del salmone. Nel 2016 il conflitto tra la popolazione indigena e locale e le industrie del salmone era esploso prepotentemente con una protesta radicale degli abitanti dell’arcipelago durata per ben venti giorni e che aveva costretto l’allora presidente Michelle Bachelet prima a ricorrere alle forze armate per cercare di sedare la rivolta e in seguito, stante la determinazione dei manifestanti, a scendere a compromessi.

Il conflitto era ripreso nel 2020 durante la pandemia da coronavirus quando le industrie del salmone non avevano smesso di produrre nemmeno un giorno nonostante le misure restrittive. Dopo numerose richieste al Governo rimaste inascoltate, la popolazione decise di scendere in strada e di costruire una barriera sanitaria autogestita bloccando le vie d’accesso all’arcipelago fermando finalmente i trasporti e la produzione per diversi giorni.

Nelle ultime settimane il conflitto è riesploso quando le comunità indigene della Reserva Nacional Las Guaitecas e di Islas Huichas, nella regione di Aysen, dopo otto anni di iter burocratico (a fronte dei tre anni massimi previsti per legge), hanno presentato la richiesta di creazione di due ECMPO su un territorio costiero e marittimo di 621 mila ettari. La petizione è stata fatta sotto l’egida della cosiddetta Ley Lafkenche promulgata 14 anni fa con la quale i popoli originari possono ottenere il riconoscimento dei propri diritti sul bordo costiero dimostrando l’uso ancestrale su di esso.

Di fronte a questa petizione, l’industria del salmone ha reagito iniziando una campagna di disinformazione e menzogne, divulgata con forza dalle principali testate giornalistiche del Paese, attorno alla Ley Lafkenche che sta alla base del ECMPO, insinuando che la creazione dei due spazi ad amministrazione indigena avrebbe voluto dire mettere a rischio 323 fabbriche di produzione del salmone e cinque mila posti di lavoro e privatizzare un territorio pubblico consegnandolo nelle mani di poche persone.

Tuttavia, come hanno però spiegato i promotori della richiesta, e come è anche consultabile nella stessa Ley Lafkenche, la creazione di un ECMPO non colpisce le concessioni già assegnate né la pesca artigianale e ne consegna la gestione nelle mani di comunità indigene che hanno il compito di tutelare gli usi e costumi tradizionali, come la pesca artigianale, e di difendere la zona interessata dagli abusi e dalle violazioni.

Le accuse di pericolo per il futuro delle concessioni e di privatizzazione del territorio appaiono addirittura ridicole se rapportate con la situazione oggettiva nell’arcipelago: sono infatti oltre 700 le concessioni attive di cui ben 300 in aree protette. I dati diventano spaventosi se si conta tutto il sud cileno dove sono state assegnate oltre 1300 concessioni senza nessuna consultazione popolare, come sottolinea Defendamos Chiloé. Una vera e propria “colonizzazione” del territorio dei privati ai quali lo Stato ha regalato enormi porzioni del territorio costiero marittimo per i propri profitti lasciando alle comunità solo i rifiuti inquinanti derivanti dell’attività industriale.

Proprio per questi motivi la richiesta di ECMPO da parte delle comunità indigene locali ha trovato il sostegno di numerose oeganizzazioni sociali e indigene del territorio che si sono espresse in un lungo comunicato nel quale dichiarano il «profondo rifiuto del modo in cui, dal settore imprenditoriale ed economico, è stata affrontata la discussione sulla richiesta di Spazi Costieri Marini dei Popoli Originari», ribadendo che la Ley Lafkenche, pesantemente attaccata e addirittura messa in discussione da tutto il settore imprenditoriale e da parte di quello politico, stabilisce «che gli ECMPO sono uno strumento di conservazione marina e non escludono altri usi del territorio costiero che hanno per oggetto il loro uso in modo rispettoso degli ecosistemi».

Il lungo dibattito tenutosi giovedì 29 febbraio, al quale hanno partecipato complessivamente 34 rappresentanti dello Stato, del governo, delle imprese, dei sindacati, del turismo e due rappresentanti del mondo indigeno si è concluso con il respingimento della richiesta con 29 voti contrari, 2 a favore, 2 favorevoli con modifiche e un astenuto. Di più, il governo di Gabriel Boric che in campagna elettorale aveva promesso l’espulsione delle imprese del salmone dalle aree protette, si è presentato proponendo la concessione di ulteriori 200 mila ettari per le industrie e 40 mila ettari per i popoli originari ma i rappresentanti delle industrie hanno respinto la proposta di concedere loro qualsiasi tipo di spazio costiero.

Le reazioni delle organizzazioni indigene e ambientaliste sono state dure, in particolare nei confronti del Governo centrale. Per la campagna “Areas Protegidas Sin Salmoneras” «il Fronte Largo tradisce il popolo, i popoli indigeni, la Patagonia e il Cile. Il governo si è arreso al ricatto del salmone». Anche per il movimento ambientalista Defendamos Chiloé è chiara la responsabilità del governo di Boric: «Molte cose risultano chiare nel voto della CRUBC sul ECMPO. Il più notevole, con assoluta certezza, è stata la mancanza di capacità del governo e delle sue istituzioni di portare avanti il processo e risolvere lo storico conflitto quarantennale con gli allevamenti di salmone. Soprattutto all'interno delle aree protette. Qui le istituzioni dello Stato e del governo hanno fallito. La cosa strana è che “falliscono” sempre dal lato del salmone […]. Ancora una volta una tremenda delusione nei confronti di Gabriel Boric e di tutto il suo governo».

Daniel Caniullán, lonko della comunità Lafkenche Pu Wapi e uno dei due rappresentanti indigeni presenti tra i votanti, intervistato da Radio Futuro ha ricordato che la decisione di presentare la domanda di ECMPO è avvenuta nel 2016 dopo che «il governo ha autorizzato lo scarico di novemila tonnellate di salmone decomposto, con sostanze chimiche, a 75 miglia a ovest di Ancud», provocando «un effetto negativo sull’ecosistema».

Caniullán ha poi denunciato l’abbandono da parte dello Stato che in otto anni non ha voluto dialogare con le comunità indigene, che erano disposte a modificare le dimensioni del territorio richiesto: «c’è una negligenza da parte dello Stato nel garantire i diritti dei popoli indigeni. Quando si tratta di difendere l’industria del salmone, tutti corrono per conoscere i problemi del settore. Ma quando si tratta di un problema dei popoli indigeni, non c’è tempo o loro non sono interessati. Si ricordano dei popoli indigeni solo quando vogliono voti».

Nonostante il respingimento della richiesta, le comunità indigene non mollano: lo stesso lonko Caniullán ha annunciato il ricorso a tutti i gradi di giudizio della giustizia cilena contro la decisione del CRUBC e la difesa del territorio con ogni mezzo. Dopo la continua repressione contro gli studenti, dopo il fallimento del processo costituente, dopo l’emanazione della legge “grilletto facile” e la militarizzazione del Wallmapu, ora Boric gira le spalle alle popolazioni indigene per sostenere i profitti dell’industria “salmonera”. Resta, ancora una volta, la delusione per un governo che sta tradendo tutte le promesse e le speranze.