Venice Climate Camp 2023: Crisi climatica e modelli di sviluppo

Il report del dibattito con Gianfranco Bettin (Sociologo) e Alice Dal Gobbo (ricercatrice presso l’Università di Trento); ha moderato Stella Faye Na Haby (Fridays for Future Venezia-Mestre).

16 / 9 / 2023

La prima giornata del Venice Climate Camp si è conclusa con il dibattito Crisi climatica e modelli di sviluppo Ristrutturazioni e contraddizioni della governance del limite ambientale, al quale hanno preso parte Gianfranco Bettin (Sociologo) e Alice Dal Gobbo (ricercatrice presso l’Università di Trento). Il dibattito è stato moderato da Stella Faye Na Haby (Fridays for Future Venezia-Mestre), che nella parte iniziale pone la questione sul significato profondo della crisi climatica. Il fatto che la crisi climatica sia un tema più che attuale è evidente dai nubifragi nelle regioni del Nord italia, dall’alluvione in Emilia; nei territori di tutto il Paese si susseguono eventi straordinari che non si possono chiamare maltempo. La crisi climatica non è un futuro apocalittico e indefinito ma ne abbiamo testimonianza oggi, per cui sono necessari strumenti per affrontarla, come singoli e collettività, fuori da una visione catastrofista. 

È necessario poi rifiutare le false soluzioni o le non soluzioni come le grandi opere, che perpetrano gli stessi meccanismi di devastazione che hanno portato a questo punto. Per questo occorre costruire un quadro complessivo per capire a che punto è la crisi ecologica, come stanno rispondendo le istituzioni, le grandi multinazionali, chi è al potere, senza ridurci al negazionismo nè a soluzioni green di facciata. 

Alice Dal Gobbo prova a definire questo quadro. L’ipcc, che fa monitoraggio sul climate change, nell’ultimo report parla di innalzamento di 1.1 gradi entro il 2100. Cosa significa l’impatto umano in questo contesto? 1,5 gradi è stato ritenuto il limite da non superare, ma l’aumento della temperatura non è un processo lineare, ad un certo punto sorpassa delle soglie per cui non è prevedibile cosa può accadere. Sono soglie di irreversibilità da cui non è più possibile tornare indietro. 

«Ci stiamo avvicinando a quel punto, alle nostre latitudini abbiamo sempre più percezione del cambiamento climatico, che si manifesta in maniera sempre più prepotente, soprattutto tra i meno responsabili, ad esempio gli abitanti del sud globale.” 

L’immaginario che si è stabilito per quanto riguarda la crisi climatica è apocalittico e di distopia. La temporalità della crisi climatica, spostata fuori dal presente, ha generato paradossalmente uno schiacciamento della crisi climatica sul presente stesso, ovvero questo immaginario è costruito su ciò che conosciamo oggi. Infatti le distopie parlano di violenze, e accaparramento delle risorse, che sono le dinamiche capitaliste del mondo odierno.

Anche Gianfranco Bettin prova a rispondere a questa domanda. Nei primi giorni di settembre è uscito il rapporto preparatorio alla prossima Cop che si terrà nei Paesi arabi: conferma l’aumento dei gas serra, l’aumento della temperatura, la riduzione della biodiversità, cominciata ancora prima dell’aumento della temperatura (ad esempio in laguna era cominciata già prima a causa degli interventi e del dissesto umano). Si parla di aumento di temperatura media, che in realtà è un criterio assunto per avere idea della tendenza; ma non è lineare, in alcuni luoghi aumenta molto di più. Il territorio stesso italiano è uno di queste bolle, poiché è confine di un’area molto calda, il Mediterraneo ne è già assolutamente coinvolto. Il Mediterraneo è una fabbrica degli eventi estremi di cui leggiamo in questi mesi e anni (la tempesta Vaia, l’alluvione in Emilia, etc).

Per quanto riguarda la prossima COP, sicuramente lo spazio concesso ai negazionisti climatici sarà minore. Bisogna però considerare che il nuovo clima culturale in Italia lascia spazio a questi argomenti (ad esempio il libro di Vannacci), alcune facce e figure vengono rimesse in gioco, figure che una volta erano assolutamente marginali. È la situazione politico- culturale degli USA di Trump, di buona parte dell’Europa, in cui ovunque ci sono marginali minoranze che attendono di prendersi il loro spazio, ad esempio i negazionisti. 

Per questo il terreno è più arretrato rispetto a tempo fa, rispetto alle COP precedenti, poiché c’è una controffensiva culturale delle destre politiche. Soprattutto, è attuale e sempre più presente il tentativo di impadronirsi dell’opinione pubblica, così come da tempo avviene su temi securitari, anche su questi punti. Diventa quindi fondamentale rilanciare l’informazione, il racconto corretto della transizione, evitando l’approccio al catastrofismo. Bisogna raccontare che la transizione è la via di uscita, che le forze produttive non sono solo quelle dell’antropocene, ma ci sono nuovi e altri spazi che è necessario occupare. «Adesso è il pianeta che detta i ritmi, reagisce alla devastazione di cui è stato vittima, siamo noi che corriamo dietro ai disastri naturali. La grande alleata è la Terra, Gaia, lo strumento che abbiamo è quello scientifico».

La seconda parte dell’intervento spazia invece sulla reazione delle istituzioni, sulla risposta al sistema. Alice Dal Gobbo dice: «È una riflessione consolidata nelle visioni critiche rispetto alla crisi ecologica: la natura fino agli anni ’70 viene vista come un limite per l’accumulazione, oggi invece con la svolta neoliberale il limite naturale viene visto come un nuovo spazio di accumulazione. Pensiamo ai mercati di carbonio, alle assicurazioni contro il rischio climatico». Si aprono quindi nuovi spazi in cui il fattore di limite diventa spazio di rilancio.

Negli ultimi anni il green washing è un tema: si vende come transizione ecologica, ma la realtà parla di investimenti minimi alle energie green rispetto al fossile. All’interno del sistema capitalista le multinazionali si vendono ancora così alle persone, con questa facciata, accaparrandosi sempre più mercato. È rilevante nell’analisi di come il capitalismo risponde alla crisi ecologica comprendere la ristrutturazione con cui cerca di cavalcare la crisi, lì dove invece questi limiti naturali dovrebbero avere un limite negativo. 

Il problema è che l’innovazione tecnologica, nonostante tutte le sue promesse di benessere e di miglioramento degli stili di vita sta fallendo. La finanza invece permette un’estrazione di valore dalla crisi climatica, un profitto immediato, che tuttavia richiede intensificazione di processi estrattivi, ma che tradisce ancora una volta la promessa del benessere della popolazione. C’è quindi anche una crisi sociale sempre più estrema, soprattutto tra chi è più precarizzato dalla situazione.

Politicamente la risposta delle destre non è incoerente in questo quadro: la destra è negazionista ma mette in campo strumenti in linea con gli obbiettivi e le crisi che si delineano. Da un lato c’è crescente precarizzazione, ma aumenta la violenza sistemica e di controllo dello stato capitale che mantiene questo ordine: non promettendo uno stile di vita accettabile ma semplicemente per via della forza, mantenendo lo status quo. UE e altre istituzioni hanno la missione di portare politiche che hanno a che vedere con la transizione, ma il periodo post covid ha evidenziato chiaramente che è accettabile investire finché bisogna rilanciare processi di accumulazione, ma quando altre urgenze, come la guerra, emergono, la transizione ecologica non è più un tema dirimente. 

Gianfranco Bettin risponde: «Sul piano globale le risposte delle istituzioni hanno gli strumenti più forti nel piano statunitense di Biden, nel piano del Partito Comunista Cinese; la Cina è il Paese che inquina di più, ma è anche il Paese che investe di più sulle alternative energetiche; poi c’è il piano della EU. Sono tutti piani che provano a mitigare l’impatto economico e in termini di produttività della transizione ecologica, pur riconoscendola come necessaria».

In questi tavoli tra i potenti della terra tutti i giorni si discute tra portatori di interessi vari, senza gli esponenti del sud del mondo e di chi la crisi climatica la vive davvero. Il grande business è quindi quello di finanziare la transizione per specularne. Lo spazio di iniziativa politica dei movimenti può quindi aprirsi qui, e c’è spazio per inserire delle variabili che muovano queste dinamiche e le modifichino. 

Oggi sarebbe perfettamente possibile passare ad un modello decentralizzato di distribuzione dell’energia; la chiave è utilizzare questi fondi sovranazionali, ad esempio il PNRR, per creare delle prime comunità energetiche. Invece questi fondi sono utilizzati per altro. Il tema è quindi che bisogna irrompere in questi ambiti, dall’interno, dall’esterno o attraversandoli. Il varco tra transizione possibile e ciò che si fa in maniera distorta è lo spazio in cui inserirsi. «Non abbiamo di fronte la conversione ecologica immediata, ma una conversione conflittuale. Il ruolo dei movimenti qui è fondamentale. Bisogna fare in modo che i tavoli tra lobby non siano tutto ciò che decide del destino del pianeta».

Gianfranco Bettin continua nella terza parte parlando degli strumenti di cui i movimenti possono dotarsi. La posta in gioco è così radicale che in questa partita vale tutto. Tutti gli strumenti di lotta sono legittimi di fronte alla portata della sfida di cui si parla, che mina le basi stesse della sopravvivenza e della convivenza. La sola cosa che bisogna tenere presente è l’opportunità, sono le condizioni in cui si svolge la lotta. «Siamo però nella situazione eccezionale che può far pensare che non c’è niente da fare. La determinazione è una componente decisiva della capacità di convincere le persone che se ne può uscire. Questo fornisce molte opportunità di azione: azione militante, organizzata dei movimenti».

Conclude poi Alice Dal Gobbo, parlando di rigenerazione. 

Pensando alla rigenerazione, sembra chiaro rispetto alla capacità del capitalismo di ristrutturarsi che sia una delle chiavi su cui ragionare anche a livello trasformato. Rigenerazione richiama ai concetti di cura, riproduzione, che sono intrinsecamente in contraddizione con il sistema, perché sono dei processi che hanno a che vedere con dei limiti sia fisici che su altre dimensioni. L’orizzonte ecotransfemminista è in contraddizione con le logiche che regolano le logiche di riproduzione attuali. Pensare ad un’alternativa nel contesto della crisi richiama la necessità di creare degli spazi capaci di cura e relazione. 

Vale la pena ragionare sull’idea della responsabilità individuale. Per la costruzione di pratiche quotidiane di movimento e collettive, costantemente viviamo in relazioni che hanno a che vedere con la cura e la riproduzione, e le conosciamo sui nostri corpi. Ci sono soggettività più in contatto con queste pratiche, ma valorizzare le relazioni non solo sociali, ma anche multispecie, è fondamentale, perchè andando a guardarle da vicino ci danno consapevolezza rispetto alla crisi ecologica. 

«Abbiamo bisogno di diversi livelli di lotta per portare avanti la logica di cura, di riproduzione, di rigenerazione. Negli anni, nei decenni i movimenti prefigurativi in parte hanno fatto questo lavoro, ovvero mettere in pratica nel presente un’alternativa. Ci sono pratiche che già esistono ma allo stesso tempo è evidente che c’è necessità del conflitto, di portare la critica al sistema e non soltanto portarne l’alternativa, anche alzando l’asticella del confronto. Prendersi degli spazi di liberazione nel sistema ma praticando il conflitto. Emerge l’idea dell’importanza dell’intersezionalità, anche se come tema bisognerebbe pensare alle lotte con una matrice comune, non separate e che si intrecciano».