Beppe Caccia ha incontrato i nostri compagni in carcere

Max e Benjiamin sereni e incazzati

11 / 7 / 2009

Ieri mattina – accompagnando il consigliere regionale del Veneto Gianfranco Bettin – ho visitato la casa circondariale “Due Palazzi” di Padova, dove sono detenuti due dei ventuno arrestati dell’inchiesta denominata “Rewind”, sulla manifestazione contro il summit G.8 Università del 19 maggio scorso a Torino.
Il contesto è quello di ciò che il carcere in Italia, pressoché ogni carcere italiano, è diventato nell’era dei “pacchetti sicurezza”. Come e più di altre galere venete che in questi ultimi mesi abbiamo visitato, anche il “Due Palazzi” è drammaticamente sovraffollato: là dove sarebbe prevista una capienza massima di centodieci-centoventi detenuti ne sono stipati oltre duecentotrenta; in celle previste per ospitare al massimo quattro letti, sono stati ricavati spazi in verticale per otto-nove detenuti. Con quali problemi di promiscuità e con quali rischi dal punto di vista igienico-sanitario è facile immaginare. Con quali difficoltà di gestione per il personale di custodia è abbastanza evidente. Il sessanta-settanta per cento dei detenuti è di origine straniera, altissimo è il turn-over ed è quest’ultimo un effetto delle misure legislative che, nell’ultimo anno vanificando gli effetti dell’indulto, hanno incentivato il ricorso alla detenzione per piccoli reati, di lieve e lievissima entità, per la maggior parte legati al consumo e allo spaccio di droghe. Poco importa se poi gran parte degli arrestati rimangono in carcere solo per pochi giorni e, magari, vi rientrano sempre più spesso. L’importante sembra essere unicamente il messaggio, statistico e mediatico, che si lancia nelle ricorrenti e persistenti campagne sulla “sicurezza”. Nel frattempo, però, il carcere conferma il suo ruolo di “discarica sociale”, una discarica sempre più compressa, dove si sta sempre peggio, una discarica potenzialmente esplosiva.
Lì dentro, dentro uno di questi “piccoli inferni” securitari, sono rinchiusi da lunedì scorso Max Gallob e Benjamin Bandeau, attivisti l’uno del centro sociale Pedro di Padova, l’altro del centro sociale Rivolta di Marghera. Li abbiamo trovati tranquilli, sereni, ma anche carichi di sacrosanta indignazione. Indignati perché privati della libertà sulla base di accuse fragilissime e di motivazioni giuridiche inconsistenti: uno è accusato di aver (forse) spostato un cassonetto per difendere il corteo dell’Onda dalle cariche della polizia, l’altro è accusato di aver (forse) lanciato un oggetto all’indirizzo delle stesse forze dell’ordine. Di più e di altro a loro carico, nei dvd preparati dalla Digos di Torino e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale, non c’è. E, a un mese e mezzo di distanza dai fatti contestati, sono detenuti perché “potrebbero reiterare i reati in vista del G.8 de L’Aquila”. Il che significa due cose: primo, che la Procura di Torino ha reintrodotto nel nostro paese la prassi dell’ “arresto preventivo”, non prevista dal nostro ordinamento ma in voga in regimi che di democratico non hanno proprio niente; secondo, che la stessa Procura potrebbe, ora che il G.8 si è concluso non concludendo nulla, richiedere di propria iniziativa la scarcerazione degli arrestati.
Succederà questo? Temo purtroppo di no. Anche perché significherebbe ammettere che la “grande operazione”, che avrebbe dovuto colpire i “cattivi” dentro i movimenti e definire i “limiti” del conflitto sociale in vista del prossimo autunno di crisi, si è sgonfiata di fronte all’imprevista risposta che l’Onda è stata capace di mettere in campo, diffusa e determinata, capillare e nuova nelle forme e nei contenuti come questo movimento è stato, è e ha dimostrato di essere.

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