Dentro gli “arcani” di (bio)lavoro e riproduzione: dialogo con Leopoldina Fortunati e Alessandra Mezzadri

7 / 6 / 2023

Il 30 maggio 2023 si è tenuto al Cs Django di Treviso il dibattito “Il (bio)lavoro si paga!”, organizzato da Non Una di Meno Treviso, con Leopoldina Fortunati e Alessandra Mezzadri. Leopoldina Fortunati, docente dell’Università di Udine, ha cominciato la sua militanza nel contesto delle lotte operaie degli anni ’60 e ’70 nel Nord Est ed è poi diventata un’importante attivista della Campagna internazionale per il salario al lavoro domestico. In seguito, ha pubblicato il classico testo teorico L’arcano della riproduzione: Casalinghe, prostitute, operai e capitale (1981) e – con Silvia Federici –  Il Grande Calibano: Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984). Alessandra Mezzadri è docente presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra e autrice – tra gli altri lavori – del libro The Sweatshop Regime: Labouring Bodies, Exploitation, and Garments Made in India (2016). 

Ha introdotto il dibattito Cinzia Brunati di Non Una di Meno Treviso, chiedendo alle due autrici che cosa intendono per “riproduzione sociale”.

Secondo Alessandra Mezzadri, la riproduzione può essere intesa in due modi. Il primo si riferisce alla cura, ovvero tutte le attività che svolgiamo per prenderci cura della vita. Il secondo si riferisce alla “riproduzione societaria”, cioè la rigenerazione delle strutture sociali e delle disuguaglianze che queste veicolano.

«La definizione di riproduzione sociale che trovo più utile si colloca tra queste due ma le supera anche: tutte le attività che noi svolgiamo per rigenerare la vita e il capitalismo al contempo. Proprio questa commistione rende difficile separare ciò che serve a riprodurre la vita e ciò che serve a riprodurre il capitalismo, perché la vita stessa è messa al servizio del capitale. Partendo dal lavoro domestico, questa definizione ci consente di guardare al lavoro nel sistema capitalistico in relazione a tutti gli altri aspetti della nostra vita. Io mi occupo di filiere produttive globali, tutte le attività dentro e fuori la fabbrica che portano al prodotto finale, come le magliette che indossiamo, soprattutto in India e Pakistan. Per me il concetto di riproduzione sociale è stato fondamentale per capire la produzione stessa, ciò che sta all’esterno del posto di lavoro è necessario per analizzare lo sfruttamento sia dentro che oltre il processo produttivo».

La messa a valore del lavoro riproduttivo è diventata oggi estremamente endemica, come vediamo per esempio nella prossimità tra spazi riproduttivi e spazi produttivi in certi regimi lavorativi, come i dormitori a fianco delle fabbriche in Asia o le baraccopoli vicino ai campi anche nel Sud Italia. «L’analisi delle connessioni tra riproduzione e produzione ha permesso a molti sindacati, per esempio in Asia, di rafforzarsi organizzando la forza lavoro anche al punto di riproduzione, facendo leva sul potere sovversivo della comunità, per tornare ai testi classici di Mariarosa Dalla Costa e Selma James»

Leopoldina Fortunati ha cominciato invece dalla distinzione tra riproduzione domestica ed extra-domestica, ovvero i servizi di welfare e il lavoro domestico retribuito, di cui una parte significativa è svolto spesso da lavoratrici migranti. Queste trasformazioni permettono di leggere i movimenti del capitale negli ultimi decenni. «Negli anni ‘70, quando organizzavamo momenti di lotta comune coi compagni delle varie formazioni sindacali e della sinistra extraparlamentare, dicevamo che non si poteva lasciare il lavoro riproduttivo in uno stato di debolezza - non pagato, non contrattato - perché tale debolezza si sarebbe riverberata su tutto l’arco dei rapporti di forza di classe. Siamo state parzialmente credute, un po’ come delle Cassandre, anche se nella fase successiva molto lavoro produttivo ha assunto tratti simili a quelli del lavoro riproduttivo. Le nostre lotte - come dice Ferruccio Gambino - hanno costretto il capitale a migrare, imponendo livelli salariali individuali e sociali elevati e una ribellione al regime di fabbrica. Quest’ultima è stata così in buona parte frammentata e delocalizzata, cosa che ha permesso un deterioramento dei diritti nel mondo della produzione. Secondo me la riproduzione è oggi la sfera più importante del capitalismo, sia nella sua forma classica che in quella digitalizzata. Il lavoro riproduttivo ha infatti incorporato le tecnologie digitali».

Cinzia Brunati ha poi posto la questione del “biolavoro, cioè l’intensificazione dello sfruttamento incentrato sul corpo (con la mercificazione di tessuti, ovuli e sperma, sangue, ecc.), soprattutto delle donne.

Leopoldina Fortunati ha sottolineato le relazioni di asimmetria in cui avviene oggi la surrogacy, ovvero l’“esternalizzazione” della gravidanza a una donna non facente parte del gruppo genitoriale. «Se ne avvalgono soprattutto coppie bianche e abbienti, quindi ecco che le relazioni di classe riemergono sempre. C’è sempre una dinamica tra lotte contro lo sfruttamento e lotte per i diritti civili. Noi dobbiamo sempre tenere presente lo sfruttamento, mentre ci sono lotte per i diritti civili che non ne fanno un’analisi solida. Il corpo femminile è per il capitale una macchina che produce forza lavoro. Tuttavia, in un contesto familiare c’è un rapporto capitalistico mediato dal partner e definito come lavoro non pagato, mentre nel caso della surrogacy lo sfruttamento è esterno alla famiglia e per questo retribuito. Inoltre, si ripropone un imperativo alla maternità contro cui noi abbiamo lottato. Non è vero che si è donne solo se si hanno figli. Le lotte delle donne degli anni ‘70 hanno scardinato la famiglia tradizionale, oggi c’è una grande diversità di forme riproduttive».

Alessandra Mezzadri ha aggiunto che la surrogacy così come esiste oggi sfrutta corpi non bianchi per la produzione di esseri umani per i bianchi, all’interno di strutture neocoloniali. «Tuttavia, le posizioni che sottolineano solo questo aspetto rischiano di andare a braccetto con i movimenti religiosi ultraconservatori. Bisogna guardare alle tensioni in gioco. Molte operaie tessili di Bangalore con cui ho lavorato, esauste dopo anni di lavoro in fabbrica, hanno poi deciso di diventare surrogates. Alcune oggi si vorrebbero anche organizzare in cooperative e vedere questo lavoro riconosciuto. Cosa vuol dire essere solidali con queste donne? I governi che in Asia hanno messo fuori legge la surrogacy erano di destra. Ci sono qui molti parallelismi con il lavoro sessuale. In sostanza, la surrogacy così com’è oggi non va bene, ma bisogna capire le motivazioni di tutte le persone coinvolte».

Dopo essersi detta d’accordo, Leopoldina Fortunati ha concluso sottolineando che anche il lavoro politico è lavoro riproduttivo. «Il lavoro riproduttivo ha permesso di costruire civiltà. Nelle case, il controllo del capitale è molto più indiretto e questo è stato spesso usato dalla classe lavoratrice per garantire un modo migliore di vivere, orientato al benessere e non al malessere tipico dei luoghi di lavoro capitalisti».