Agire nella crisi - Confederare autonomie

Assemblea nazionale di movimento il 21 e 22 novembre a Napoli

24 / 10 / 2015

Premessa

Partiamo da qui, dal luogo e dal tempo della nostra enunciazione. Proviamo a porci alcune semplici domande. Chi siamo. Dove siamo. Chi sono e dove sono i “nostri”. Qual è il campo di battaglia.

Attraversiamo una fase politica, economica e sociale difficilissima. Una congiuntura specifica che nella temporalità allargata della crisi vede una ridefinizione geo-localizzata della ripresa e della stagnazione, dalla quale emerge una nuova “mappa della subalternità” e della accumulazione, una mappa che di fatto penalizza con ancora più cinica sistematicità le povertà e tutte le forme di marginalità.

Potremmo dire semplicemente che la crisi, consacrata definitivamente a forma del governo degli uomini e delle donne, oggi ha rotto la macro-narrazione generale della paura e delle possibili apocalissi finanziarie e ha assunto prepotentemente l’ordine del discorso delle velocità differenziali.

Non siamo più tutti in crisi. I poveri, sia che si tratti di soggetti collettivi che di individui, sono sempre colpevoli di insolvenza o di una qualche forma di resistenza ai dogmi della nuova accumulazione del capitale. Per questo devono pagare. 

Di contro le cosiddette “locomotive d’Europa”, mascherando i costi sociali degli indicatori economici, si avvalgono del differenziale di potere derivante da una ripresa, che già mostra segnali di crisi, per imporre, con ancora maggiore arroganza, le loro infauste intromissioni nelle vicende singolari di alcuni stati nazione e nelle legislazioni comunitarie in materia di diritti sociali e di libertà di movimento.

Noi, qui, nel nostro paese comunque estremamente disomogeneo dal punto di vista delle condizioni materiali e del benessere delle persone, ci troviamo ancora complessivamente tra quelli che affannano. Non esiste ripresa a fronte della macelleria sociale imposta dal governo Renzi. Non esiste nuovo welfare. Non esiste incremento dell’occupazione. Se si guarda poi ai dati relativi al meridione la stagnazione diventa drammaticamente sinonimo di desertificazione economica e sociale.

Sulla base di queste coordinate spazio-temporali e senza dimenticare quel prezioso bagaglio composto da tutte le esperienze che in questi anni  hanno provato a rispondere dal basso all’aggressione della crisi, sentiamo il bisogno di riorganizzarci, di ridefinire nel mezzo di queste nuove cartografie del presente, quali sono i nostri itinerari, quali  gli strumenti e soprattutto quali le strategie più efficaci per dichiarare guerra alla povertà, alla subalternità imposta e alla dittatura della crisi e del debito.

La vita contro il capitale

Il capitalismo e la vita sono incompatibili. La vita nel capitalismo del terzo millennio degrada inesorabilmente: perde i diritti con i quali si è difesa, perde gli spazi nei quali si è ritrovata e organizzata, perde la sua intimità genetica, con la quale ha preservato gli ultimi margini di autonomia. Le stesse condizioni naturali necessarie alla sua riproduzione vengono progressivamente demolite sotto il peso del saccheggio capitalistico. La forma biopolitica del comando conosce, sempre più spesso, una drammatica torsione necropolitica.

 Il capitalismo è nemico della vita, la vita non può che essere nemica del capitalismo. L'essenzialità di tale condizione è il fondamento del nostro agire, l'irriducibilità del conflitto che essa porta con sè è la matrice etica, politica, teorica e pratica che alimenta ed oltrepassa le nostre lotte.

Il capitalismo non è qualcosa di astratto e la vita non è un'entità informe. Coercizione, sfruttamento ed estrazione di valore, anche quando assumono la forma virtuale, sono dispositivi materiali che aggrediscono i territori e le nostre esistenze. La vita è messa a valore in ogni suo aspetto all'interno di una cooperazione sociale espropriata  ai suoi attori e trasformata in una miniera da cui un capitalismo sempre più parassitario estrae le risorse e se ne appropria. Nel nostro tempo storico le mediazioni in termini di diritti e garanzie sociali sono sempre più rarefatte, lo sfruttamento è sempre più diretto, violento e ricondotto alla centralità dei rapporti di forza. 

 La consapevolezza della devastazione sociale, economica ed ambientale prodotta dal capitalismo è diffusa, forse più che in ogni altra epoca. Eppure tale consapevolezza stenta a tradursi in una nuova narrazione capace di sedimentarsi e di diffondere non speranze messianiche, ma credibili prospettive di trasformazione rivoluzionaria dell'esistente. E' una criticità con la quale dobbiamo fare i conti in un contesto storico in cui nuove visioni generali e dispositivi culturali, radicati nell'integralismo religioso o nell'ideologica intangibilità degli assetti finanziari globali, accampano diritti sull'immaginario collettivo e ne occupano gli spazi.

Agire la crisi, narrare l’azione

Ovviamente nuove narrazioni non nascono a tavolino. Ma non nascono neppure dall'attesa fatalistica di qualche evento catartico. Partiamo, intanto, da ciò che è nella nostra disponibilità, dagli interrogativi sul nostro agire che riusciamo a porci e dalle risposte, se ci sono, a cui possiamo dare un corpo ed una storia, piccola o grande che sia. Per questo vogliamo riaprire la riflessione collettiva su come noi narriamo ciò che siamo e ciò che facciamo, come comunichiamo la visione all'interno della quale i contenuti specifici delle nostre lotte si collocano e assumono continuità. Quando parliamo di narrazione non intendiamo semplicemente il racconto di ciò che è già accaduto: la narrazione è già parte dell'evento nel momento stesso in cui questo si determina, componente inscindibile del processo attraverso cui l'azione si materializza e produce un fatto. 

Narrazione e comunicazione sono elementi costituenti dell'azione esattamente come l'azione è elemento costituente della narrazione: sono fattori inscindibili. Per questo nello spazio-tempo in cui ci troviamo ad agire non ha più alcun senso distinguere i contenuti di una lotta dalle forme in cui essa si determina: forma e contenuto sono in realtà un tutt'uno attraverso cui nasce, vive, si afferma e muore la medesima vicenda. Porsi il problema di come e cosa narriamo equivale a  porsi il problema di come agiamo e di come stiamo nei conflitti che concorriamo a produrre o che si producono a prescindere da noi. Non esistono narrazioni valide per tutte le epoche: ogni narrazione è figlia del  suo tempo.

Il nostro tempo è il tempo della crisi, una crisi che va ben oltre il piano strettamente economico, per investire complessivamente gli assetti politici, istituzionali, culturali ed ideologici che hanno infrastrutturato (con sempre maggiore difficoltà) le fasi precedenti. Una crisi che dal punto di vista capitalistico è attiva e passiva: attiva perchè abilmente utilizzata per sferrare un attacco di gigantesche proporzioni ai diritti, al reddito, alle garanzie sociali e persino a dispositivi istituzionali oramai troppo vincolanti ed obsoleti rispetto alle attuali dinamiche di valorizzazione; ma anche passiva perchè attraversata da variabili e contraddizioni che neppure i tentativi di riorganizzazione capitalistica riescono a catturare e razionalizzare dentro nuovi modelli gestionari: le migliaia di profughi e migranti che in poche settimane hanno raggiunto i confini europei e li hanno posti sotto assedio ne sono una chiara espressione. Il tempo della crisi, di questa crisi, è un tempo brutale che rende del tutto inefficaci i modelli comunicativi che abbiamo utilizzato fino a poco tempo fa: alcuni linguaggi e micro-narrazioni sedimentati nel corso degli ultimi anni risultano completamente sfasati, se non addirittura amene leziosità, nel costante rullo dei tamburi di guerra che satura oggi la comunicazione ed attraverso cui si accreditano narrazioni a noi lontane e nemiche.

Contro lo sfruttamento: fare comune

In un contesto in cui l'aggressione capitalistica alla vita assume livelli e proporzioni inediti, in cui truffe di proporzioni globali, come quella della Wolkswagen e delle grandi operazioni finanziarie e bancarie, destituiscono sempre di più la retorica della legalità, dove l'integralismo religioso (e armato) si propone come l'alternativa “anti-sistema”, abbiamo bisogno di rilanciare una narrazione diretta, semplice e facilmente divulgabile, all'interno della quale, bypassando le mediazioni terminologiche e concettuali, affermiamo il nostro essere contro il capitalismo come condizione necessaria ed ineludibile a difesa della vita e della libertà. Un contro-capitalismo liberato sia dalle ragnatele ideologiche, sia da mimetizzazioni che diventano sempre più controproducenti. 

Essere o non essere contro il capitalismo fa la differenza, oggi più che mai. Su questo piano la scelta di campo non può più restare sullo sfondo, avere le caratteristiche deboli di un'allusione o, peggio ancora, di un non detto. Il problema non è quello di costruire un differenziale ideologico o nuovi aggregati identitari, ma quello di tornare a dare un senso generale alle scelte particolari, di costruire opzioni. Non è l'identità che ci interessa, ma l'individuabilità di una prospettiva che non si esaurisce nel dato contingente. 

Abbiamo bisogno di una storia che parla del nostro futuro e che vive nel nostro presente, un presente di cui dobbiamo cogliere il repentino riaprirsi a visioni generali che, tra nazionalismi, neo-millenarismi e guerre sante, tentano di colonizzare l'aspettativa di un futuro diverso, piegandola a nuovi dispositivi di oppressione. 

Abbiamo bisogno di tornare a parlare il linguaggio della speranza contro il pessimismo dell'irreversibile e le follie integraliste che si coagulano anche dove, fino a poco tempo fa, non avremmo immaginato. 

Abbiamo bisogno di ricostruire legame sociale perchè è solo all'interno dei legami sociali che le narrazioni si traducono in prospettive concrete ed i conflitti assumono cittadinanza, diventando reali motori di trasformazione, pratiche costituenti che vivono nella cooperazione sociale. Una cooperazione sociale che è nel contempo luogo di massima valorizzazione dello sfruttamento capitalistico e luogo di massima valorizzazione dei processi di soggettivazione politica di classe. Perchè è proprio dentro le maglie della cooperazione sociale che possiamo costruire i nostri insediamenti costituenti, quei “luoghi” del comune nei quali il sociale si riprende il potere che gli spetta e si riappropria fino in fondo del suo essere politico, ovvero potere costituente di una vera alternativa di sistema. 

 Conflitto e legame sociale sono componenti del medesimo processo: se vengono separate è il processo stesso che viene meno. Il legame sociale c'è o si produce nel momento in cui il conflitto riesce ad interpretare un bisogno che attraversa le articolazioni sociali, ad esprimere un potenziale inespresso che si riconosce nel conflitto anche quando ha scelto di non farne parte. In questo senso il conflitto è nel contempo costituente e destituente. Lo scontro che si estranea dalla problematica del legame sociale non ha nulla a che vedere con il conflitto: è solo una variabile funzionale della crisi, istituzionalizzata all'interno dei modelli di gestione dell'ordine pubblico e della repressione giudiziaria. Nella governance che opera all'interno della crisi le dinamiche di istituzionalizzazione non ricalcano i confini istituzionali: non è il rapporto/non rapporto con il campo istituzionale a demarcare ciò che si istituzionalizza e ciò che non si istituzionalizza, ma i processi sociali all'interno dei quali si collocano le scelte. Un evento che invece di allargare le contraddizioni e gli spazi di agibilità, ne determina la contrazione, è un evento istituzionalizzante, a prescindere dalla sua relazione con la sfera istituzionale.

“Confederare” le autonomie. Organizzare il conflitto.

I contesti cambiano velocemente. Oggi più che mai si può essere attori di cambiamenti reali solo se si accetta fino in fondo l'idea di essere noi stessi un processo in costante trasformazione. Nuovo e vecchio si intercambiano in un tempo storico breve e denso. Durante il tempo che impegniamo per affezionarci alle nostre nuove fisionomie, esse invecchiano e ci proiettano in un passato che noi ci ostiniamo a chiamare presente. Pensieri burocratici, morali ideologiche, tatticismi per improbabili ed inconsistenti egemonie ci rendono inefficaci, quando non addirittura parte di quello stesso ménage quotidiano che ci opprime. Per essere efficaci abbiamo bisogno di libertà: libertà di azione e di pensiero, libertà di analisi senza conclusioni precostituite, libertà anche dalle burocrazie di movimento che si fissano intorno a tematiche specifiche per poi vivere di vita propria in un tempo interminabile, addirittura paradossale se rapportato alla velocità con la quale gli scenari cambiano e le condizioni si trasformano: d'altra parte non c'è peggiore degenerazione identitaria di quella che si nasconde a se stessa e agli altri.

Domenica 22 novembre sarà proprio dentro questa libertà che cercheremo di riflettere insieme sui nodi che abbiamo provato a delineare, certamente con approssimazione, in questo documento.

Una discussione in cui la centralità non è data alle scadenze che ci vedranno impegnati nei prossimi mesi, ma all'analisi della fase che stiamo attraversando ed alle suggestioni che ne ricaviamo. Questo non per fare un po' di esercizio teorico, ma, al contrario, per riportare l'analisi dentro la materialità di una discussione che attiene direttamente all'agire ed alla sua narrazione.

Vorremmo provare a mettere alcuni temi all’interno della discussione, non come scaletta retorica dell’assemblea, ma perché riteniamo sia utile centrare alcuni punti, e individuarne il loro intreccio, per interrogarci collettivamente sul nostro agire presente e futuro.

· Una riflessione che vuole interrogarsi sulla possibilità di concorrere all'apertura di un nuovo capitolo nel molteplice vissuto dei movimenti, all'interno del quale indagare modalità organizzative capaci di tenere insieme autonomia e condivisione, passati diversi e comune presente.

· Una riflessione che punta a fare innanzitutto nostre le lezioni che vengono da luoghi più o meno lontani e che stanno attraversando momenti che non stentiamo a definire rivoluzionari e di assoluto protagonismo storico. In questo senso vogliamo “confederare” le autonomie recuperando la preziosa lezione che viene dal Rojava e da quella straordinaria esperienza di autogoverno che si sta sperimentando nei tre cantoni siriani. In questo senso vogliamo che il patrimonio esperienziale dei compagni e della compagne che hanno osservato da vicino la materialità di quei processi diventi patrimonio collettivo delle nostre organizzazioni, soprattutto in questa fase di “riscrittura” e di analisi delle modalità organizzative, del nostro “stare insieme”.

· Una riflessione sugli effetti, sempre più tangibili nei nostri territori e nelle nostre città, sull’aumento della capacità estrattiva del capitale, di cui il dispositivo legislativo Sblocca Italia è espressione governamentale nel nostro Paese, deve correre di pari passo con la capacità di sviluppare forme concrete di resistenza ai processi di estrazione e cattura del comune. La campagna nazionale contro lo Sblocca Italia, promossa da diversi comitati territoriali dopo l’assemblea tenutasi ad Ancona lo scorso 4 ottobre, è senza dubbio uno spazio di soggettività sociale diffusa che può determinare momenti di rottura importanti. La cornice di questo discorso non può che essere l’opposizione dal basso al climate change, che si afferma sempre più come paradigma contemporaneo all’interno del quale il triplice rapporto capitale-oikos-bios  determina la totalità delle relazioni ambientali, ecologiche, sociali ed economiche a livello globale.

Allo stesso modo le nuove forme di accumulazione del capitale hanno generato l’impoverimento sistemico di miliardi di persone in tutto il pianeta. Il nostro Paese, segnato da una situazione di stagnazione socio-economica epocale e da politiche sempre più restrittive in termini di Welfare e diritti, sta covando al proprio interno forme di “guerra tra poveri” completamente funzionali alle elites. L’ultima fase di questa accumulazione è la rendita capitalistica sul reddito personale e familiare degli individui attraverso un regime di tassazione regressiva (Legge di Stabilità, nuovo ISEE) e un ulteriore smantellamento degli istituti novecenteschi della previdenza sociale (Sanità, contratto nazionale). E’ l’apice della trasformazione neoliberale: la ricchezza singola si fa carico dei rischi d’impresa ed è responsabile della riproduzione della forza-lavoro. Per questa ragione è necessario confrontarci su come attivare forme collettive e solidali di liberazione dalla povertà, attraverso le lotte per il reddito di cittadinanza e la costruzione di reti territoriali di neo-mutualismo.

· La questione delle migrazioni, che abbiamo visto essere in grado di mettere in discussione gli assetti statici della fortezza Europa e dell’austerity, rappresenta un ulteriore nodo della discussione. Il tema dell’accoglienza degna, intrecciato con quello del diritto alla permanenza, aprono la possibilità di ridefinire ex novo una cittadinanza europea, che vada oltre i confini e le etnie.

· Infine abbiamo bisogno di interrogarci su come implementare la capacità dei movimenti di agire maggiormente nello spazio europeo, non solamente attraversando le scadenze più importanti, ma investendo la complessità del nostro agire politico. Questo perché l’Europa è l’unico spazio dove possiamo realmente giocare la partita di un’alternativa sistemica.

Sabato 21 novembre vorremmo, invece, dedicare un focus point tematico al costante e rapido aggravarsi della situazione sul versante delle azioni giudiziarie che si abbattono sui movimenti. L'incessante attività della magistratura “creativa” ha oramai rotto ogni argine, arrivando persino a riproporre l'utilizzo dell'esilio come strumento per sradicare gli attivisti dal loro contesto di azione. Molte delle condanne comminate nelle aule dei tribunali per reati connessi alle lotte sociali sono oramai abnormi: unitamente alle misure cautelari e di prevenzione, utilizzate come ordinari strumenti di intimidazione ed immobilizzazione, si collocano al di fuori del quadro minimo di garanzie e di proporzionalità dei moderni ordinamenti penali. A tutto ciò si devono aggiungere proposte di legge in fase di elaborazione che associano a condotte minimali pene detentive pluriannuali. 

Quello che sta accadendo nel nostro Paese sul piano della repressione giudiziaria dei movimenti ha assunto una dimensione tale da non essere più configurabile come una mera “stretta” repressiva: è una dinamica che oramai integra una vera e propria modificazione genetica dei dispositivi penali e amministrativi, specificatamente finalizzata alla repressione politica. Ma se questo è il quadro della situazione, ciò significa che nel nostro Paese torna a configurarsi un problema di “prigionia politica”, dove la prigionia non è data solo dal carcere, ma anche da tutte le altre misure che di fatto si traducono in una grave restrizione della libertà personale. 

Certo, il concetto di “prigionia politica” siamo abituati ad associarlo a fenomeni  con caratteristiche molto diverse: tuttavia, come abbiamo scritto sopra, ogni narrazione è figlia del suo tempo e nel nostro tempo il concetto di "prigionia politica" deve essere rideclinato alla luce delle caratteristiche e dei significati che assume nelle centinaia di procedimenti intentati contro i movimenti. Vista l'attenzione già suscitata nel contesto europeo dalle disastrose condizioni carcerarie presenti in Italia, tra le varie prospettive di contrasto su cui ragionare c'è sicuramente anche quella di portare la questione in ambito europeo, con modalità e forme tutte da studiare ma che, in ogni caso, non rimangano confinate esclusivamente in ambiti tecnici.    

Siamo convinti che nell'instabilità e nei disequilibri che connaturano la crisi,   esistano ampi spazi di azione dentro cui è necessario e possibile ripensare  ruolo e significato della soggettività, il suo rapporto con il diffuso bisogno di cambiamento, la sua capacità di insistere nello spazio europeo come spazio ineludibile di intervento e di analisi.

L'appuntamento che ci stiamo dando a Napoli per il 21 e 22 novembre è un pezzo di un ampio mosaico che dobbiamo ricostruire. Scegliamo Napoli perché in un certo senso crediamo sia un territorio che racchiude nel suo spazio metropolitano e meridionale molte delle contraddizioni a cui abbiamo fatto riferimento in questo testo.

Una città che prima di altre ha conosciuto i dispositivi che la crisi ha normalizzato in tutto il paese: la gestione emergenziale come deroga alle legislazioni ordinarie, il saccheggio a prezzo della messa in discussione delle condizioni di esistenza e riproduzione della vita. Una città che la povertà e il disastro sociale spesso trasformano in un teatro di insensata ed efferata violenza, (come infatti è accaduto e sta accadendo in questi mesi) ed in cui le contraddizioni della crisi assumono un volto crudo ed esasperato. Una città che di contro ha conosciuto e sta conoscendo interessanti processi di partecipazione e protagonismo politico dei cittadini e delle cittadine, che possono certamente rappresentare uno spunto di discussione e di analisi per tutta quella miriade di territori che pure si interrogano sulla annosa questione della decisionalità e della democrazia.

Come in tutti i mosaici, i pezzi sono tanti ed hanno mille forme, ma solo il loro assemblaggio consente all'immagine di emergere dai frammenti e diventare espressione.

NAPOLI PRESSO MEZZO CANNONE OCCUPATO

SABATO 21 NOVEMBRE ore 16.00

FOCUS POINT: "Devastazione delle garanzie e saccheggio dei diritti: prospettive di azione contro l'oppressione giudiziaria e amministrativa sui movimenti.

DOMENICA 22 NOVEMBRE ore 10.00 

ASSEMBLEA "Agire nella crisi, confederare le autonomie"