Perché lo sport non fa sempre bene alla salute mentale

Il talk a Sherwood Festival 2023, con Maurizio Fava e Irene Leo

20 / 6 / 2023

Venerdì 16 giugno si è tenuto il talk “Sport e salute mentale", che ha avuto come ospiti Maurizio Fava (Direttore del Dipartimento di psichiatria del Massachusetts General Hospital) e Irene Leo (Docente di Psicologia dello sviluppo e Psicologia dello sport e del benessere all’Università di Padova). Ha moderato la discussione Francesca Masserdotti, della Polisportiva Sanprecario.

Quando parliamo di sport abbiamo la tendenza a percepirlo in maniera positiva, associandolo al benessere psicofisico, come ci dimostrano molti studi, per esempio sul rilascio di endorfine durante l’attività fisica. Ma lo sport fa sempre bene? Dipende da come si fa sport. Soprattutto negli ultimi anni si è finalmente iniziato a parlare anche di tutte quelle situazioni in cui lo sport e la competizione, per come ci viene proposta, portano o a situazioni di disagio profondo, da episodi depressivi ad attacchi d’ansia, per non parlare di tutte le sintomatologie legate ai disturbi del sonno e dell’alimentazione.

Andando ad analizzare qual è lo stato della salute mentale della popolazione vediamo come la pandemia SARS COV-19 abbia avuto degli effetti devastanti sia per il percorso sportivo, comportando il blocco di tutti gli sport di squadra, con una proliferazione di sport individuali, sia per il percorso psicologico, che ci ha restituito un quadro drammatico di ulteriore isolamento delle persone. Come ha detto Maurizio Fava, sia negli Stati Uniti che in Italia si è riscontrata una richiesta enorme di supporto psicologico e psichiatrico, causando uno stress notevole anche ai sanitari che non riuscivano a coprire e a soddisfare la crescente domanda di cure.

Parlando dei fattori di rischio e beneficio dello sport, scopriamo che tra sport individuali e sport di squadra ci sono delle grandi differenze, la cooperazione da una parte e l’autonomia/l’autogestione/l’autostima dall’altra, ma su entrambi questi tipi di sport agiscono fattori ambientali che influiscono notevolmente su diverse categorie psicologiche. Uno dei più importanti è sicuramente l’apporto dato dalle figure tecniche: entrambi gli ospiti hanno riportato che gli allenatori e le allenatrici, così come tutto il personale tecnico che li affianca hanno ricevuto una formazione tecnico sportiva ineccepibile, ma quasi sempre mancano di una formazione psicologica/umanistica/educativa che gli permetta di formare al meglio i nuovi atleti e le nuove atlete, non solo come sportivi ma anche come persone.

Anche qui i dati ci riportano una fotografia drammatica di un movimento in cui il tasso di abbandono è altissimo e il benessere psicofisico è entrato a far parte degli obbiettivi tecnico sportivi solo nelle grandi squadre nel mondo americano, quando in Italia lo stigma è ancora fortissimo ed il supporto psicologico viene gestito privatamente da qualche atleta ma sicuramente non dalle federazioni o dalle società. A livello giovanile e scolastico c’è ancora una mancanza totale di professionisti che si occupino di questi temi e sfortunatamente capita ancora troppo spesso di trovare allenatori e allenatrici con comportamenti discriminatori e lesivi della fragile stabilità emotiva che un adolescente o un bambino può avere. La figura dello psicologo dello sport, in Italia ancora poco utilizzata, viene richieste principalmente solo per il miglioramento della performance sportiva e non per il supporto psicologico individuale o di squadra.

In questo periodo storico sentiamo sempre più parlare di competizione, a scuola, all’università, nel mondo lavorativo. Nello sport la competizione è inevitabile, abbiamo un punteggio, dei risultati, una classifica. Ma come possiamo vivere la competizione in maniera sana?

Il rischio, nello sport e nella vita, è di trovarsi all’interno di una realtà prestazionale che tralascia la parte umana e psicologica delle persone, degli atleti e delle atlete; sarebbe importante decostruire questa logica del risultato e della prestazione cercando di valutare maggiormente il benessere individuale e collettivo nella pratica sportiva, ma questo è un cambio culturale che dev’essere fatto da tutti nella società, poiché a volte sono le stesse famiglie le prime fautrici di stress e ansia prestazionale per gli atleti e le atlete, quindi continuare un percorso di formazione culturale per cambiare questi comportamenti, spesso anche aggressivi o offensivi, sarà fondamentale.

Per i professionistə dello sport un problema fondamentale è quello della brevità della carriera: in molti casi tra i 35 e i 40 anni la carriera di un atleta professionista arriva al termine e spesso gli atleti e le atlete faticano a reinserirsi nella società al di fuori del loro mondo sportivo. Da questo punto di vista è importante il ruolo assunto da alcune leghe americane che richiedono un titolo di studio per poter poi accedere al monto professionistico. In questo modo gli atleti che studiano all’università riescono ad unire studio e sport, riescono ad allargare il loro orizzonte e la loro professionalità al di fuori della pratica sportiva. Diversi sono gli esempi di atletə che hanno conseguito un dottorato o hanno avviato delle attività economiche o sociali dopo la carriera agonistica. In Italia invece la doppia carriera è poco supportata e spesso riservata ad atletɘ d’elitè. Tuttɘ gli altri si trovano spesso a dover scegliere tra lo sport e lo studio.

In Italia si fa ancora molto fatica a parlare di salute mentale, è ancora un tabu dire che si va dallə psicologə o addirittura dallo psichiatrə, ma questa resistenza si vede anche nella componente etnica degli italoamericani negli USA, che statisticamente sono il gruppo che fa più fatica ad accettare e a curare questo tipo di disturbi.

Sicuramente il fatto che alcuni atleti e atlete di rilevo abbiano incominciato a raccontare il loro disagio e facciano da testimonial per rompere queste barriere è uno dei modi più importanti per promuovere, lo ha fatto Kevin Love, campione NBA e oro olimpico a Londra 2012, lo ha fatto Bruno, uno dei più forti palleggiatori al mondo, cosi come lo hanno fatto alcuni atletə che giocano in Italia e che non hanno aspettato la fine della loro carriera per liberarsi da questo fardello. Grazie a queste testimonianze gli appassionati di sport possono capire a loro volta che questi disturbi possono colpire chiunque ed è fondamentale normalizzarne la discussione.

Il primo passo è parlarne e speriamo che grazie ad eventi come questo sia sempre più facile per tuttɘ condividere e poter chiedere aiuto.

Immagine di copertina: Sherwood Foto.