Il grande sogno non finisce mai

Il film è pura verità ventiquattro volte al secondo - Jean Luc Godard

2 / 10 / 2009

Quando in un piccolo cinema del centro di Roma, che per i più preparati costituisce un sicuro riferimento al Nuovo Olimpia, all'epoca tempio cinefilo e luogo di marchette, un uomo posa delicatamente la sua mano sulla spalla del giovane agente di polizia Nicola, quest'ultimo gli mostra silenziosamente una pistola. Anzi: un pistolone. Nel '68 non ancora in fabbricazione. In questo caso i più preparati riconoscono una Beretta 92S, che solo dall'anno di grazia 1977 andò a sostituire la "gloriosa" e minuta Beretta 34, fino ad allora in dotazione a tutte le nostre forze dell'ordine.
In questi pochi fotogrammi, nell'esibizione di questo oggetto che nel percorso del Grande Sogno segna una decisiva stazione di attraversamento, in questo particolare simbolico fuori tempo e fuori luogo, si condensa il senso dell'approccio del regista Placido alla Storia. A quegli "anni formidabili" che fanno ancora una volta gongolare Mario Capanna in platea a Venezia mentre il regista dedica il suo film al direttore dell' "Avvenire", perché "i primi a capire quella grande esperienza giovanile furono proprio i cattolici". Anche lui fuori tempo e fuori luogo (da un pezzo), anche lui come Placido convinto che il grande sogno sia (stato) il suo. E che sia finito poco dopo essere iniziato.

Quindi perché affannarsi nella ricerca del vero? Che si celi in una calibro 9 Parabellum o in quello che alla fine rimane solo un fondale, è forse verità che andiamo cercando?
C'è il proprio vissuto da raccontare. C'è il giovane venuto dalla Puglia nella capitale perché vuol fare l'attore. Per vivere fa il celerino, ma siccome marca un po' troppo da intellettuale lo infiltrano tra gli universitari (mah…) e qui trova la folgorazione. Ed è proprio lui: Placido. C'è la giovane cattolica illuminata che non è proprio una compagna ma ragiona allo stesso modo, forse anche meglio. Anche lei, folgorata e folgorante per Nicola, viene dalla memoria dello sceneggiatore Angelo Pasquini. C'è l'operaio studente marxista colto bello e conquistatore (il mitico fascino del leader). Parla solo per slogan e luoghi comuni, dicono sia ispirato alla figura di Guido Viale, ma comunque non c'è problema perché di questi ce n'erano tanti, anche troppi. Ci sono la baronia contestata, la famiglia benpensante, la Vespa senza casco, il sesso in via di liberazione, il protofemminismo, l'occupazione, il salto di qualità, le molotov. In un film che gira in tondo, come le improbabili biciclette sul tetto di Architettura.
Per sé Placido riserva una sorta di personale declinazione del pensiero de "Il PCI agli studenti!" - in cui Pasolini (che nello stesso anno vedeva sequestrato per oscenità il suo film "Teorema", ben altra riflessione sulle inquietudini dell'epoca) declamava che i veri proletari erano i poliziotti e non gli studenti borghesi - costringendo il povero Scamarcio ad assumere persino i tratti gestuali della propria recitazione. Uno scritto, quello di Pasolini, che seguiva i fatti di Valle Giulia, teatro di uno dei primi episodi di pesante repressione poliziesca contro gli studenti. Nel film c'è, ma di raccontarlo, di farlo capire, di "spiegarlo" a Placido interessa poco: nemmeno ce lo dice che siamo a Valle Giulia. Allo stesso superficiale modo è attraversato il massacro dei braccianti di Avola. Allo stesso modo tutto il film. A Piazza Fontana nemmeno un accenno (sono state le Brigate Rosse?). Non vuole raccontare, offrire anche solo brandelli di verità, ma solo raccontarsi. Il padrone Medusa, d'altra parte, ha chiesto solo di smantellare un po' di ideologia.

Si cerchino altrove le ragioni del perché il '68 fu un travolgente movimento culturale, prima che politico, a carattere planetario. Una spinta che mise "in movimento" le generazioni più giovani, della provenienza più diversa, unite prima di tutto nella pulsione esistenziale della contestazione dei valori tradizionali dominanti, della "società borghese". Non racconta di come tutto fu possibile, di come si creò quella straordinaria sinergia culturale che coinvolse metropoli e paesi, centri urbani e periferie. Di come tutto era molto più contro che pro, sinistra istituzionale compresa. Non dell'orizzonte, continuamente ridisegnato, cui si cercava faticosamente di dare forma. Guarda a sé e alle trasformazioni meccanicamente programmate dei suoi personaggi. Sfumature e approfondimenti zero. Schematismo, si sarebbe detto all'epoca. Piccole falsificazioni - distrazioni anche forse - campionature standard di personaggi e situazioni nello sforzo di una lavorazione che deve essere stata travagliata e di uno script che denuncia molte rimaneggiature. Semplificando per sottrazione, scivolando dalla linearità nella freddezza, si dimentica della passione. Quando - qui e non solo qui - la passione è tutto. Non vuole e non è in grado di potersi realmente confrontare con la "materia di cui sono fatti i sogni", dimenticando la lezione del Bardo secondo cui siamo proprio noi ad essere fatti di quella materia. Si dimentica di noi. Nicola guarda "I pugni in tasca", legge Dostoevskij, accetta serenamente l'infame lavoro di infiltrato, si innamora di Laura, si concede alla insegnante di drammaturgia, ma l'unica vera passione che finalmente viene messa in scena è la sua per la recitazione.

Placido si racconta addosso propinando un'altra versione della "rivoluzione mancata", aggirando lo scontro con la storica infilmabilità del '68 (interpellare al riguardo, tra gli ultimi, Giordana e Bertolucci) perché la verità sarà anche rivoluzionaria, ma è assai difficile da maneggiare. Chiude tutto su di sé e perché non ci siano dubbi che il sogno sia finito nei titoli di coda mette le biografie dei protagonisti negli anni immediatamente successivi. Tutti rientrati nei ranghi. Il più tosto lo fa incarcerare nel '73, in anticipo sulla Grande Stagione degli Arresti e perciò depistando ancora una volta, perché l'unico piombo in circolazione in quell'epoca era quello delle pallottole delle nostre polizie. Ma non è verità, come si è detto, che andiamo cercando e tantomeno la cerca la sceneggiatura.
Placido non sa - o forse sa troppo bene - che quell'ansia di trasformazione non si è mai esaurita, che in giro per il mondo c'è stato e ancora c'è un Esercito di Sognatori senza divisa che continua a combattere la stessa battaglia. Perché allora "non è stato che un inizio". Perché il grande sogno siamo noi, perché siamo noi ad essere fatti della materia di cui i sogni sono fatti. Quindi non è il caso di buttarla in politica, ma nel rispetto del campo da gioco vale solo ricordare a Placido uno tra i film girati nel '68 che di quel momento hanno offerto una lettura significativa. Formativa certamente, per molti: noi sognatori siamo identificabili nella scena finale di quel film.
Siamo Elaine Robinson e Benjamin Braddock: lei ancora in abito nuziale dopo aver pietrificato sull'altare l'oggetto del suo fatidico "sì", lui con la lingua fuori dopo aver urlato a squarciagola il suo nome e mandato a fare in culo anche la Duetto rossa. Siamo saltati al volo su un bus e andiamo verso un domani contro tutto e contro tutti, che sappiamo sarà fatto anche di smarrimento, sofferenza e sorpresa. Perché apparteniamo a quella generazione che si è presa a forza il futuro, ma per la quale il lieto fine non appare mai scontato.
Siamo quello sguardo sospeso. E continuiamo a sognare.

Il grande sogno