La strage di Deir Al Balah: un mese dopo.

16 / 12 / 2019

Il 14 dicembre, ad un mese esatto dalla strage, mi sono recato a Deir Al Balah, nella striscia di Gaza, a casa della famiglia Al Sawarka, adesso che riflettori sulla vicenda sembrano essersi spenti del tutto.

Giungendo a casa della madre di Rasmi dove oggi vivono i sopravvissuti alla strage, mi accorgo immediatamente della situazione di povertà nella quale versa: 17 persone convivono in un piccolo edificio di due stanze, arredato con qualche materasso e tre sedie; nessuna finestra, niente acqua corrente e niente elettricità.

Non appena l'auto si ferma, 7 bambini escono fuori ad accogliermi. È dicembre ma sono scalzi. Una di loro porta sul labbro ancora i segni del recente bombardamento. Tre di loro sono rimasti orfani quella maledetta notte. Pochi minuti dopo sbucano fuori altri tre bambini; come tutti i bambini, non smettono un attimo di giocare. Alla fine arriva Mohammed, il quale mi invita ad entrare. Mohammed ha vent'anni e dopo la morte del padre in quella strage è diventato il capofamiglia. La sorte ha voluto che fosse a casa della nonna quella notte dello scorso novembre, altrimenti sarebbe probabilmente morto anche lui. Lo sguardo di Mohammed è spento; mi ringrazia per essere venuto, perché qui da qualche settimana, dopo il clamore mediatico dei primi giorni, nessuno si è più fatto vivo. Mi dice, però, che non ha voglia di raccontare nuovamente i dettagli della vicenda.

«La prima settimana sono arrivati molti giornalisti e successivamente molti attivisti per i diritti umani, che mi hanno aiutato ad  inoltrare ricorso presso il tribunale israeliano» racconta Mohammed. Un caso che ricorda quello di Izzeldin Abuelaish, che dopo 10 anni attende ancora giustizia.

«In questo mese la mia famiglia non ha mai ricevuto nemmeno una lettera di scuse da parte dell'esercito o del governo israeliani,  che per "un errore di aggiornamento del database" hanno distrutto per sempre la nostra vita». Di possibili risarcimenti Mohammed non ha ancora nemmeno sentito bisbigliare.

Ci spostiamo nella seconda stanza dove mi mostra Salem, 4 anni, disteso su un materasso sporco, immobilizzato ed ingessato perché ferito all'anca e ad entrambe le gambe.

«È rimasto quasi tutta la notte sotto le macerie accanto ai genitori morti prima di essere trasportato in ospedale» racconta ancora Mohammed. Salem sorride e la sua sorellina non lo lascia un attimo da solo, mentre io cerco di non scoppiare in lacrime davanti a loro.

Non riuscirò, invece, a trattenere il pianto quando usciamo dalla casa e, dopo una camminata di un paio di minuti, raggiungiamo il luogo della strage. Dell'umile casa degli Al Sawarka non è più rimasto nulla. Affondo i piedi nella sabbia per qualche metro, avvolto da un silenzio spettrale e giungo davanti a tre crateri larghi 5 e profondi 3 metri. 

Deir Al Balah

Con gli occhi ancora lucidi inizio a guardarmi intorno e pian piano metto a fuoco gli oggetti della vita quotidiana che sono rimasti ancora lì: dei quaderni; delle scarpe da bambina; la pellicola del filmino del matrimonio, uno dei pochi momenti ricordare della vita di quella famiglia e adesso perso per sempre insieme al resto. Vicino a una scarpa da ragazza c'è un foglio con delle citazioni sull'amicizia: ancora una volta questa terra grida un messaggio d'amore di fronte alla morte.

Deir Al Balah

Mohammed abbozza un sorriso quando gli porgo la mano per salutarlo. Vorrei dirgli quanto mi dispiace lasciarlo nuovamente da solo nel silenzio di quel luogo e quanto vorrei che il mondo non restasse altrettanto silenzioso davanti a questo scempio. Mi limito a ricambiare il sorriso, mentre il silenzio tra noi viene interrotto dal passaggio di un drone.