Dopo il golpe, l’Egitto può ancora salvarsi

Con la deposizione di Morsi - un colpo di Stato, anche se quasi nessuno lo chiama così - muore il sogno egemonico della Fratellanza, non la primavera araba. Il Cairo ha una risorsa per evitare la guerriglia civile.

4 / 7 / 2013

Quattro giorni di proteste e cinque ore che sembravano mesi di attesa per un discorso che non arrivava mai, ma alla fine Mohamed Morsi non è più il presidente egiziano.

 È stato deposto dai militari con un golpe, anche se molti si rifiutano di chiamarlo così.

Si rifiuta la maggior parte dei manifestanti a piazza Tahrir, che ha esultato all’annuncio del ministro della Difesa e comandante in capo delle Forze armate Abdel Fattah al Sisi.

I manifestanti si rifiutano perchè, effettivamente, il colpo di Stato non sarebbe stato possibile senza le enormi sollevazioni popolari che hanno portato 30 milioni di egiziani in strada. Si rifiutano, anche se quello che è successo non si può chiamare propriamente rivoluzione e non sarebbe stata parimenti possibile senza i carri armati in strada a evitare scene da guerra civile. Si rifiutano perchè anche se la parola “militare” piace a molti, una parte della piazza non può dimenticare gli orrori e gli abusi commessi dalle Forze armate nell’anno e mezzo al governo. E non può dimenticare che se si è giunti a questo punto è anche e soprattutto perchè i militari hanno sbagliato la prima volta che hanno preso il potere nel dopo Mubarak.

Si rifiutano di chiamarlo golpe i militari, che non terranno il potere direttamente. Capo di Stato provvisorio è stato nominato il fresco - da 4 giorni - presidente della Corte Suprema Adly Mansour e nei prossimi giorni verrà formato un governo tecnocratico. Nonostante sia stato il Generale al-Sisi ad aver destituito Morsi - senza appigli nella Costituzione, che è stata sospesa - alle Forze armate non conviene riprendere il potere nelle proprie mani. O, almeno, non riprenderlo direttamente, visto che ormai ce l’hanno già. La vecchia costituzione - e probabilmente anche la nuova - garantisce piena indipendenza all’esercito e la secretezza del budget del ministero della Difesa, proprietario di fabbriche e aziende che controllano una larghissima fetta dell’economia egiziana.

Alle Forze armate non conviene riprendere il potere anche perchè, finalmente, sono tornati ai livelli di prestigio persi dopo l’esperienza di governo dello Scaf. Il potere logora chi ce l’ha in Egitto, quindi meglio una “democrazia controllata” di un governo militare.

Si rifiutano di chiamarlo golpe anche due attori che, erroneamente, potrebbero sembrare vicini ai Fratelli musulmani: Al Azhar - la più importante istituzione religiosa del mondo sunnita - e i salafiti della Da’wa Salafiyya. Non a caso, il Gran Imam di Al Azhar e il partito salafita Nour - espressione politica della Da’wa - hanno subito affermato il proprio supporto per la road map militare.

I rapporti tra i due attori e la Fratellanza erano complicati da mesi. Al Azhar, dopo aver ottenuto enormi concessioni nella Costituzione, si è spesso scontrata con la presidenza - in particolare sull’ammissibilità dei bond islamici. Uno scontro politico-religioso, in cui l’istituzione sunnita ha preso una posizione islamo-nazionalista contro l’islamo-internazionalismo dei Fratelli e del loro sponsor qatarino. I salafiti, o almeno quelli della scuola alessandrina riuniti nella Da’wa e nel partito Nour, hanno adottato da mesi una politica a dir poco ambigua e opportunista nei confronti di Morsi. Dopo che i Fratelli avevano in qualche modo provocato una grave spaccatura nel partito, la Da’wa ha fatto pesare il proprio ruolo di unico loro alleato di peso. Cercando margini di autonomia quando possibile, dando voce a feroci critiche e massimizzando i benefici del proprio appoggio politico.

Al Azhar e i salafiti affossano il progetto dei Fratelli musulmani per cercare di salvare l’Islam politico, anche se con accezioni e sfumature diverse. Pugnalando il loro più grande rivale cercano, insomma, di non far degenerare una sollevazione anti-Fratellanza in una guerra contro le forme politiche dell’Islam.

Si rifiutano di chiamarlo golpe - pur denunciando l’intervento dei militari - anche gli Stati Uniti, che da un lato si sono resi conto di aver scommesso sul cavallo sbagliato, dall’altro chiedono un ritorno immediato del potere ai civili. Chiamarlo golpe, inoltre, comporterebbe la sospensione da parte del Congresso degli aiuti militari e civili necessari per far ripartire l’economia e, soprattutto, garantire la stabilità del comunque instabile confine con Israele.

Gli Usa sono stati gli ultimissimi alleati dei Fratelli Musulmani, difendendo fino a poche ore prima dello scadere dell’ultimatum dei militari la legittimità del presidente Morsi. Dopo aver appoggiato Mubarak e le dittature militari nella regione e in giro per il mondo, Obama aveva scommesso sull’Islam politico e sulla possibilità di spingere i Fratelli a moderarsi e democratizzarsi. L’ha fatto, però, appoggiandosi ai falchi del movimento. Quella leadership di uomini d’affari - come l’uomo forte della Fratellanza Khairet Shater - apprezzata in America anche e soprattutto dai repubblicani. Tra conservatori neo-liberali, d’altronde ci si intende bene. Ma l’aveva fatto anche perchè non c’era alternativa a Morsi e ai generali. Non c’era un anno fa, non c’è - ancora - oggi.

L’opposizione è debole e da costruire. Lo stesso premio Nobel per la Pace El Baradei non ha più il carisma e la presa sulla strada di due anni fa. La polarizzazione degli ultimi mesi, lo scontro politico, gli errori e gli insuccessi di un’opposizione incapace di articolare proposte - Tamarrod non è cosa loro - hanno ucciso gli idoli: Sabbahi, Moussa e Baradei sono nomi vecchi e senza peso, ormai alieni alla realtà della piazza e invisibili per i più. Dovremmo farcene una ragione anche in Europa.
Serve quindi un nome nuovo e che unisca - il Fronte di Salvezza Nazionale potrebbe sciogliersi come neve al sole - e serve in fretta se i liberali vogliono riavviare il paese e affrancarsi dai militari.

Gli unici a chiamarlo golpe, insomma, sono i Fratelli musulmani, colpiti mentre erano più vulnerabili, mentre cercavano di bilanciare la perdita di consensi con il controllo dei gangli del regime. Nonostante in molti negli scorsi mesi si siano prestati alla causa - dichiarando la propria falsa affiliazione al movimento per ottenere benefici - i nuovi alleati hanno abbandonato la nave di fronte ai primi gravi scricchiolii.

Non muore la “primavera araba”, semplificazione giornalistica che nasconde un processo lungo e complesso, ancora agli inizi. Non muore con il golpe, perchè l’unica rivoluzione cui abbiamo assistito in Egitto, quella culturale del gennaio 2011, è ancora viva. Indietro non si torna. Ci vorrà tempo, tuttavia, affinchè quella rivoluzione culturale si estenda e non cada nel rancore partigiano verso gli sconfitti, perdendosi. Solo a quel punto vedremo la vera rivoluzione politica.

Con la quarta ondata di rivolta - dopo gennaio 2011, Mohamed Mahmoud e novembre 2012 - muore invece il progetto egemonico dei Fratelli musulmani, il sogno costruito in più di 80 anni e che sembrava a portata di mano. Muore perchè l’utopia di un sogno totalitario che non tiene conto della minoranza non sopravvive a se stesso alla prova del potere. Speriamo non sia morta, invece, la convinzione degli islamisti moderati di poter giungere al governo per via democratica e non solo con il terrore e con la forza.

Muoiono, probabilmente, anche i Fratelli musulmani così come li conosciamo. Non muoiono con il golpe, ma con l’ostinazione di Morsi a non lasciare il potere. Se l’attuale classe dirigente avesse fatto un passo indietro, sacrificando i propri obiettivi immediati, i Fratelli avrebbero potuto forse re-inventarsi e, chissà, arrivare nuovamente al governo fra qualche anno, puntando sull’inadeguatezza dei liberali e sull’ingestibilità dello Stato egiziano. Con i militari egiziani che si muovono “alla turca”, insomma, i Fratelli avrebbero potuto fare altrettanto e seguire l’esempio di Erdoğan - nella sua scalata, non nei problemi attuali.

Eppure, non l’hanno fatto. In parte perchè non disposti ad aspettare altri decenni, in parte perchè avrebbero avuto poche alternative da cui ripartire. Escluso il gotha del movimento, non avrebbero potuto lasciare a quell’area giovane e riformista che aveva sposato il progetto rivoluzionario e democratico. Un’ala minoritaria, schiacciata tra conservatori, pragmatici e qutbisti duri e puri. Un’ala che è stata annullata dalla disciplina interna imposta dopo la dichiarazione costituzionale di novembre promulgata da Morsi e dalla fine della dialettica con i giovani rivoluzionari. Costretti a riallinearsi, sono rimasti fedeli alla linea e così sono stati percepiti dal resto della popolazione che vede, ormai, ogni Fratello uguale a se stesso e non crede più in una via islamica democratica.Eppure, verso quei giovani e verso gli elementi più moderati, dovrà partire un dialogo inclusivo.

Morsi è stato cacciato perchè parlava di “noi e gli altri” e credeva che fosse il resto del paese a dover entrare nel cerchio magico dei Fratelli e non gli islamisti a doversi aprire. Per questo, i liberali, i secolari, i conservatori laici e i democratici rivoluzionari - le anime di Tahrir - non dovranno compiere lo stesso errore. Morsi esce di scena, ma i Fratelli Musulmani - la più grande forza politica organizzata del paese - non sono scomparsi. E di loro o di parte di loro, paradossalmente, hanno bisogno i rivoluzionari per non trovarsi soffocati nell’abbraccio diabolico dei militari e dei conservatori dell’ancien régime.

Escludere i Fratelli musulmani vuol dire anche costringerli a reagire - come pare abbiano iniziato a fare nonostante Morsi stesso abbia invitato alla non-violenza - al di fuori dell’occhio delle telecamere puntate sul Cairo. In quelle aree dove l’esercito non è ancora in controllo della situazione e dove le faide e gli scontri - se non controllati - potrebbero far fallire anche il nuovo regime a tutela militare.

Lo squilibrio di forze tra le parti è troppo impari per arrivare - a questo punto - alla guerra civile. Con la mobilitazione anti-governativa anche del sud del paese, i Fratelli non avrebbero forse neanche una salda base territoriale. Ma la “guerriglia civile”, con faide, omicidi mirati, vendette e il ritorno delle bombe - gli ultimi alleati della Fratellanza sono i jihadisti della Gamaa Islamiya che con Morsi erano usciti dall’ombra della storia - è uno spauracchio tremendamente possibile.

Le risposte a questo scenario non potranno venire da quello che è successo nelle ultime ore, che lo si chiami golpe o meno. L’unica risposta potrà arrivare dallo spirito di Tahrir

Se l’opposizione ora al governo rimarrà fedele ai valori di inclusività, libertà, giustizia e rispetto dei diritti umani che proclama, l’Egitto troverà ancora una volta la forza di sconfiggere qualsiasi previsione e continuerà a stupirci.

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