25 aprile noi siamo un popolo

Antifascismo, ieri come oggi, significa questo: affermare che noi, noi e non i fascisti, noi siamo un popolo.

24 / 4 / 2024

«Combattiam per vendicare

tanta infamia e atrocità.

Combattiam perché l’Italia

viva in pace e libertà».

Attraverso valli e monti – canto partigiano

Nella primavera 1848, tra i mesi di marzo e giugno, Alessandro Manzoni riscrisse una sua poesia di 27 anni prima: Marzo 1821. All’epoca non l’aveva pubblicata perché il tentativo di rivolta contro la dominazione austriaca di cui parlava in quei versi era fallito, ma lo fece dopo l’insurrezione milanese del marzo 1848 (le Cinque giornate di Milano) e lo scoppio della Prima guerra d’Indipendenza. 

Manzoni è stato uno degli autori più importanti della cultura italiana, autore di un grande romanzo quale è I promessi sposi. Cattolico liberale dalla tormentata vita spirituale, si ritrovava dal punto di vista politico in una posizione ambigua: da un lato un moderato come lui non poteva riconoscersi in quelle forze repubblicane che volevano l’unità d’Italia come repubblica democratica, dall’altro gli pareva irrealistica e sbagliata la posizione degli altri cattolici liberali quali Rosmini e Gioberti che avrebbero voluto una più blanda associazione degli stati pre-unitari, con qualche piccola concessione in senso costituzionale e liberale da parte dei loro governanti. Intellettuale fortemente legato alla cultura europea del suo tempo, e quindi al quel movimento letterario e culturale divenuto noto come “Romanticismo”, allora in voga, immaginava nella sua poesia un’Italia:

«Una d’arme, di lingua, d’altare,di memorie, di sangue e di cor».

Tradire un popolo, inventare una “Nazione”

Peccato che quest’Italia non sia mai esistita. Non è mai esistita un’Italia in cui tutti e tutte avevano in comune esercito (arme), lingua, religione (altare), memoria, antenati (sangue) e senso di appartenenza (cor, cioè un unico cuore). 

Manzoni in realtà questo la sapeva bene. Tant’è che nel 1827 si era recato a Firenze a «sciacquare i panni in Arno», cioè a sottoporre il testo dei I promessi sposi ad una revisione linguistica sulla base della lingua parlata nel capoluogo toscano, che per lui andava estesa al resto d’Italia per avere finalmente un’unica lingua «nazionale». Infatti le popolazioni della penisola parlavano quelli che poi sarebbero stati chiamati “dialetti”, ma che lo stesso Manzoni riteneva essere delle vere e proprie lingue locali. Tant’è che nella sua relazione al Ministero della pubblica istruzione del 1868 (sette anni dopo la nascita del Regno d’Italia), intitolata Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla scrisse che, a differenza della Francia dove già da secoli la lingua di Parigi era divenuta quella dell’intero paese:

«tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi [lingue] sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a combatterli col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano».

Insomma ciascuno e ciascuna abitualmente parlava le proprie lingue locali, l’Italia non era affatto «una di lingua» (si è calcolato che al momento della nascita dello stato italiano al massimo il 10% della sua popolazione era in grado di capirsi usando l’italiano), era lui a volerla rendere tale su modello di altri paesi.

Quanto all’idea che l’Italia potesse essere «Una di sangue» chiaramente si tratta di un «mito delle origini» tipico della cultura ottocentesca, in nessun paese al mondo la popolazione ha antenati comuni, basta pensarci un attimo per accorgersi che è difficile risalire (se non con una ricerca storica) più indietro dei bisnonni e dei trisnonni, e più si va indietro più è probabile imbattersi in qualcuno o qualcuna che veniva da qualche altra parte del mondo, aveva un’altra lingua o un’altra religione.

Manzoni poi avrebbe voluto l’Italia anche «Una d’arme», peccato che la Milano in cui scriveva non era stata liberata da un esercito regolare, ma da un’insurrezione popolare divampata contro l’esercito austriaco. Era stato un tentativo di rivoluzione, un’intifada italiana, fatta da una folla stracciata di uomini, donne e bambini che si era sollevata usando come arma ciò che aveva: vecchi fucili, coltelli, sassi, tegole e le proprie mani. Nel marzo 1848 quella folla di straccioni aveva vinto, aveva costretto l’esercito austriaco a ritirarsi sino a Verona. Poi arrivò l’esercito regolare, quello piemontese, embrione del futuro Regio Esercito Italiano, e riuscì a farsi sconfiggere dagli austriaci perdendo quella che passò alla storia come «la Prima guerra d’indipendenza». D’altronde era venuto più a fermare la rivoluzione che a cacciare “il nemico straniero”. 

Se nel 1861 si arrivò alla nascita dello stato italiano lo si dovette in maniera determinante proprio al ruolo di insurrezioni popolari e di milizie irregolari. Giuseppe Garibaldi, che di quelle milizie era a capo, affermava con orgoglio (come avrebbe scritto nel suo romanzo Catoni il volontario, del 1870) di essere «volontario e non soldato», per poter servire «l'Italia, e solo l'Italia o la causa de' popoli oppressi», non i vari governi «più o meno tiranni, più o meno prostituiti allo straniero». Quei volontari (e in qualche raro caso volontarie) combattevano per un’Italia che avrebbe dovuto essere una libera associazione di persone e città, in cui non avrebbe dovuto esservi alcuna discriminazione per motivi etnici, religiosi, di casta e di genere. 

Come scrisse il teorico di quelle aspirazioni, Giuseppe Mazzini, ne I doveri dell’uomo del 1860:

«La Patria è una comunione di liberi e d’uguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale. La Patria non è un aggregato, è una associazione. Non v’è dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel Diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze — dove l’attività d’una porzione delle forze e facoltà individuale è cancellata o assopita — dove non è principio comune accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti; vi è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d’uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno. In nome del vostro amore alla Patria, voi combatterete senza tregua l’esistenza d’ogni privilegio, d’ogni ineguaglianza sul suolo che v’ha dato vita».

Una delle conquiste concrete portate in termini di allargamento dei diritti (una delle poche) del processo che portò all’Unità d’Italia, fu la fine delle discriminazioni a cui prima erano sottoposti ebrei e cristiani protestanti. Del resto quello che chiamiamo «Risorgimento» fu non solo una guerra contro l’esercito austriaco o gli eserciti delle varie monarchie in cui era divisa la penisola, ma anche una guerra civile contro i cattolici conservatori che volevano mantenere quasi tutta l’Italia centrale sotto un regno retto dal Papa, le discriminazioni religiose e i privilegi della chiesa (altro che «Una d’altari»!).

Ma nel complesso quel processo storico riuscì a raggiungere ben pochi dei suoi obiettivi. Le forze democratiche non seppero o non vollero coinvolgere in essa (se non in brevi episodi, come in Sicilia nel 1860) la maggior parte della popolazione, vale a dire le masse contadine (ammesso che fosse concretamente possibile farlo in quel momento storico).

Così la monarchia dei Savoia, che controllava Piemonte e Sardegna e poteva contare sull’appoggio della Francia di Napoleone III, poté usare le lotte per la libertà e l’indipendenza del paese per imporvi il proprio dominio, per instaurare il Regno d’Italia. Questo è il motivo per cui sorse uno stato basato non sul consenso della popolazione, non sulla realtà concreta della sua vita, dei suoi bisogni e della sua cultura; ma sull’intesa tra classi possidenti, la borghesia del Nord e i proprietari terrieri del Sud. Uno stato la cui esistenza poggiava sull’apparato burocratico e l’esercito.  Come disse lo scrittore e docente meridionale Luigi Settembrini: «L’esercito è il filo di ferro che ha unito l’Italia e che la mantiene unita». 

L’Italia è stata fatta e tenuta insieme con il fil di ferro, un fil di ferro usato per legare le popolazioni che l’abitavano. Tant’è che subito dopo la nascita dello stato italiano ci fu la guerra civile tra il Regio Esercito Italiano e i cosiddetti “briganti”, cioè le bande composte in buona parte da contadini poveri del meridione, una guerra civile che fece più morti delle tre guerre d’indipendenza contro gli austriaci. Lo stato italiano prese anche a fucilate nel 1863 anche Garibaldi e i suoi volontari, intenzionati ad arrivare a Roma per rovesciare il dominio politico del Papa (in quel momento sotto protezione del regime francese, alleato con quello italiano). Giuseppe Mazzini morì a Pisa il 10 marzo 1872, morì come era vissuto, da fuorilegge ricercato, questa volta non più dalla polizia austriaca, papale o borbonica, ma da quella del Regno d’Italia. Giuseppe Garibaldi morì nel 1882. Aveva duramente criticato la repressione attuata dallo stato nel meridione ed in generale come esso stava “unificando” il paese. Nel 1872 si era espresso a favore dell’Internazionale dei lavoratori, perseguitata in tutta Europa dopo l’annientamento della Comune di Parigi, definendola «il sole dell’avvenire».

Lo stato monarchico proseguì la sua «costruzione della Nazione» nei decenni successivi massacrando i braccianti della Val Padana, della Lunigiana, della Sicilia, i minatori del monte Amiata e gli operai delle città.

«Ora piangon mestissime madri

per i figli gettati in galera, 

per gli uccisi dal piombo fatal.

La panciuta caterva dei ladri,

dopo avervi ogni bene usurpato,

la sua sete di sangue ha saziato

in quel giorno nefasto e feral».

Scrisse il poeta anarchico Pietro Gori dopo che l’esercito aveva preso a cannonate la folla affamata per le vie di Milano nel 1898. È una descrizione perfetta dei metodi con cui venne realizzato quel tradimento primigenio da cui lo stato italiano è sorto. Un tradimento che rende irrisolvibile la contraddizione tra «repubblica» (cioè cosa comune, «la patria di tutti, la patria per tutti» di cui scriveva Mazzini) e «stato», vale a dire l’insieme materiale di rapporti sociali e apparati burocratico-repressivi che hanno forgiato e forgiano il funzionamento concreto del paese.

Lo stato italiano ha cercato di legittimarsi assumendo come propria ideologia fondativa il contenuto dei versi scritti da Manzoni «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Ne ha fatto un programma politico. Un programma di «nazionalizzazione delle masse», cioè un programma di ingegneria sociale e di sistematica violenza. 

«Voi porterete l’Italia alla rovina e a noi spetterà salvarla»

Il Tribunale speciale per la difesa dello stato lo processa insieme agli altri deputati comunisti nel maggio 1928, lo accusano di «attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe». Gramsci Antonio nato il 22 gennaio 1891ad Ales in Sardegna, trasferitosi dal 1911 a Torino. Colpevole di essere stato al fianco di tutte le lotte degli operai della FIAT, di aver cercato l’unità delle classi lavoratrici, l’unità tra operai del Nord e contadini del Sud, l’unità tra cattolici e socialisti. Colpevole di aver fondato il Partito Comunista d’Italia e di opporsi al regime fascista.

Il 30 maggio 1928 lo condannano a 20 anni di carcere. Nel momento in cui il tribunale fascista pronuncia la condanna Gramsci si alza e dice:

«Voi porterete l’Italia alla rovina e a noi comunisti spetterà salvarla».

In carcere si mise ad analizzare la letteratura, la cultura e la storia del Risorgimento. L’anno in cui lo avevano condannato era esattamente ottanta anni dopo l’insurrezione con cui i milanesi avevano cacciato l’esercito austriaco dalla loro città e avviato le guerre d’indipendenza. Ottant’anni per passare dall’essere un popolo oppresso in lotta per la libertà a divenire i sudditi di un regime totalitario. E in mezzo c’era stata l’inizio del colonialismo italiano con lo sbarco in Eritrea, l’aggressione (fallita) all’Etiopia, l’occupazione della Libia, l’ingresso nella Prima guerra mondiale. Poi il regime fascista aveva spazzato a via a forza di omicidi e galera il movimento rivoluzionario dei lavoratori e delle lavoratrici italiani, aveva tolto alle minoranze linguistiche (di lingua tedesca, slovena e croata) il diritto di parlare la propria lingua e di insegnarla a scuola, in Libia impiccava e deportava chi osava lottare per l’indipendenza della propria terra. 

Il fascismo portava alle estreme conseguenze l’ossessione per l’unità della “Nazione”: un partito nazionalista si era fatto stato e ora lo stato-nazione pretendeva il controllo assoluto sulla vita delle persone. 

Come era scritto alla voce «Fascismo» dell’enciclopedia Treccani, redatta nel 1932 da Benito Mussolini stesso, insieme ad Arturo Marpicati e Giocchino Volpe:

«Giacché per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo».

Il regime avrebbe continuato a «sviluppare e potenziare» la vita del popolo italiano portandolo negli anni successivi di vergogna in vergogna, di tragedia in tragedia: 1935, invasione dell’Etiopia, un bagno di sangue con 350.000 vittime; 1936 aggressione contro la Repubblica Spagnola, insieme ai fascisti locali e alla Germania nazista; 1937, leggi razziali contro le popolazioni dell’Africa Orientale; 1938, leggi razziali contro la comunità ebraica; 1939, “Patto d’acciaio” con la Germania nazista; 1940, ingresso nella Seconda guerra mondiale al suo fianco.

Antonio Gramsci è morto il 27 aprile 1937. Fino all’ultimo ha continuato a studiare un piano di fuga collettivo per evadere dalla prigione dello stato-nazione, ha riempito diversi quaderni che saranno pubblicati anni dopo con il titolo I quaderni del carcere:

«Il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico?»

Non è cominciata con il fascismo e neppure con la Prima guerra mondiale. Queste sono state solo logiche conseguenze di quanto accaduto molto prima, dell’instaurazione di uno stato-nazione. Un apparato e un’ideologia concepiti come strumento di dominio, cioè come strumento di coesione delle classi privilegiate e divisione delle classi sfruttate. La classe lavoratrice non può emanciparsi senza distruggere lo stato-nazione e costruire la propria forma di sovrastruttura politica della società, per poterlo fare deve ridefinire l’identità del proprio popolo. Per questo Gramsci arriva a ridefinire cosa vuol dire “essere italiani o italiane”:

«Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e per appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano […]. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, propria di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati danteschi. La “missione” del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva dei capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro».

Democrazia progressiva

E alla fine la prigione dello stato-nazione finì per saltare in aria da sola. La Seconda guerra mondiale portò alla devastazione di città e paesi, alla morte di centinaia di migliaia dei loro abitanti, all’occupazione da parte delle truppe tedesche e anglo-americane, alla distruzione dello stato italiano.

Fu contro questa situazione che sorse la Resistenza. Resistenza armata e organizzata, Resistenza delle classi popolari e degli esponenti democratici dei ceti medi contro la guerra voluta da altri, contro il regime fascista e l’invasione tedesca, per mostrare al resto del mondo che eravamo un popolo con una dignità, fatto di persone diverse per idee politiche, religione, lingue e culture, interessi, un popolo che lottava per la propria libertà.

La Resistenza fu la sollevazione spontanea della parte più calpestata e sacrificata della popolazione: le donne, i soldati traditi dallo stato e braccati dai tedeschi, i giovani sottoposti alla leva militare fascista, i perseguitati politici, gli ebrei in fuga dallo sterminio, gli operai, i braccianti, i contadini delle montagne e delle colline; fu l’incontro di questa sollevazione, spesso ingenua, inconsapevole, avventata, furente, con l’organizzazione dei partiti antifascisti riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). La Resistenza ci fu grazie all’incontro di disciplina («in azione si eseguono gli ordini») e libertà («nel momento di riflessione politica ciascuno può dire la sua su qualunque cosa e criticare le decisioni precedenti o gli ordini ricevuti»). Riconoscere la propria diversità nell’unitarietà della lotta. Fu così che la pratica quotidiana della Resistenza, prima ancora dei suoi obiettivi, divenne l’esatto contrario del fascismo. In un paese dominato per vent’anni da una dittatura corrotta sorse un’armata clandestina in cui si veniva puniti per aver mangiato un pezzo di formaggio preso senza permesso dalla dispensa comune; e nel contempo una comunità in lotta in cui rivoluzionari comunisti, ex-carabinieri e preti combattevano e morivano fianco a fianco. Se i programmi politici erano diversi comune era l’obiettivo di fondo: rifare l’Italia dal punto di vista etico.

«Nessun compromesso è possibile anche in noi con il passato: solo se sapremo governarci da

noi e raggiungere un alto livello di onestà e di solidarietà potremo mantenere sempre la

libertà così a caro prezzo ottenuta».

Nessun compromesso n. 2 del giornale clandestino delle formazioni garibaldine della VI Zona ligure, «Il Partigiano» (12 agosto 1944).

 La resistenza è stata soprattutto questa rivoluzione etica (prima che politica e sociale) applicata nella vita quotidiana:

«Gli uomini, le donne e i ragazzi, fino a ieri divisi dal sospetto, diffidenti, rinchiusi forse

nell’egoismo sono tornati a sentirsi fratelli. Il cuore di tutti batte per prima cosa per la Patria

che fa la guerra, per i suoi figli che la liberano. Le spie e i traditori sono stati raggiunti dalla

giustizia patriottica, i traditori hanno abbandonate le valli. La giustizia ed il sacrificio hanno

aperto la strada alla libertà e alla democrazia».

L’esempio della Valsesia n. 13 de «Il Partigiano» (14 marzo 1945).

Da questo nasceva il progetto di un paese completamente diverso da quanto era stato sino a quel momento. Un progetto esposto negli scritti di quello che è stato forse il più importante teorico della Resistenza: Eugenio Curiel. Figlio di una minoranza religiosa e di una terra di frontiera abitata da diversi popoli (era nato a Trieste da una famiglia ebraica), scienziato e studioso (assistente alla cattedra di fisica presso l’università di Padova). La volontà di stare concretamente al fianco della classe operaia lo portò ad iscriversi al Partito Comunista clandestino. Arrestato e incarcerato perse il lavoro e una carriera accademica che si prospettava brillante. Uscito dal carcere divenne uno dei dirigenti della lotta partigiana. Era convinto che andasse cercata l’unità del popolo italiano per giungere all’insurrezione nazionale contro fascisti e tedeschi. Ma questa unità non poteva essere costruita sulla menzogna, cioè sulla negazione delle diversità, sulla mitologia di una “Nazione” monolitica come quella teorizzata da Manzoni. Quando parlava e scriveva di “popolo italiano” intendeva innanzitutto un concreto insieme di classi, ciascuna con i propri interessi, ideali e partiti di riferimento. E poi di un insieme di comunità religiose e ideali, ad esempio l’unità tra cattolici e comunisti (che in quel momento era la questione centrale) non poteva essere costruita senza riconoscere e rispettare le differenti fedi e identità. Per questo un’Italia libera non poteva essere tale in virtù di una democrazia solo formale, ma occorreva costruire quella che Curiel chiamava una «democrazia progressiva», 

«Noi parliamo della democrazia progressiva come della forma di vita politica e sociale che si distingue dalla vecchia democrazia prefascista in quanto si forma sull’autogoverno delle masse popolari. Non si tratta quindi di una democrazia che si esaurisca nella periodica consultazione elettorale, ma di una forma di vita sociale politica che assicura, attraverso le libere associazioni di massa un peso preminente alla partecipazione popolare al governo».

Perché vogliamo la democrazia progressiva. Su «L’Unità» clandestina (25 luglio 1944)

Una democrazia basata cioè sulla partecipazione attiva delle classi lavoratrici attraverso consigli popolari, sindacati liberi e un costante impegno collettivo, una «rivoluzione permanente» (usa espressamente questo termine), che desse forma concreta e operante a quella «comunione di liberi e d’uguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine» di cui aveva scritto Mazzini quasi un secolo prima. Un paese non più basato sull’uniformità linguistica, religiosa, di antenati o di altro tipo, ma sulla volontà di vivere davvero insieme e di costruire insieme il proprio domani.

Resistiamo dunque esistiamo

Eugenio Curiel è caduto il 24 febbraio 1945. Riconosciuto ad un posto di blocco delle SS italiane provò a fuggire, ferito venne finito a sangue freddo. L’ufficiale che comandava i suoi assassini nel 1949 era già libero e poteva godersi i soldi accumulati servendo il regime fascista e l’invasore tedesco. A punirlo non fu la giustizia dello stato, ma quella partigiana, impersonata dai combattenti della Volante Rossa, che avrebbero pagato quell’azione con una vita in esilio in Cecoslovacchia.

La Resistenza aveva conquistato la Repubblica e la costituzione, cioè un programma teorico per quello che avrebbe dovuto essere un paese democratico. Peccato che sia rimasto confinato per l’appunto alla teoria. Così oggi viviamo ancora in uno stato-nazione che usurpa il nome di «Repubblica». E questo rimane il problema di fondo, il meccanismo repressivo che fa da cornice e rende possibile la guerra, la crisi ambientale, l’ingiustizia sociale, la discriminazione razziale, religiosa e di genere.

Noi oggi guardiamo sgomenti alla violenza genocida dei sionisti o di Daesh, ma troppo spesso si dimentica che le ideologie sionista o l’islamista non sono l’applicazione politica dell’Ebraismo o dell’Islam, bensì l’applicazione al contesto medio-orientale di un’ideologia sorta in Europa nel XIX secolo, quella dello stato-nazione. L’ideologia di una pretesa uniformità di lingua, religione, antenati e memorie, garantita dai meccanismi impersonali di un apparato burocratico-militare. Siccome un popolo uniforme per lingua, religione, memoria del passato, antenati e sentimento collettivo non esiste, bisogna crearlo attraverso la guerra civile, la persecuzione, la discriminazione, la guerra di conquista e il genocidio. Lo stato diviene così un idolo, «si pretende un dio incarnato» come ha scritto Ocalan. 

La borghesia e soprattutto la borghesia “occidentale”, si ritiene depositaria del “progresso”, ma in realtà la forma politica su cui essa ha costruito il proprio dominio di classe, lo stato-nazione, è un gigantesco passo indietro mentale e pratico dell’umanità. Lo stato-nazione ha abolito l’idea di uguaglianza degli esseri umani e ci ha fatti tornare all’idolatria, agli idoli che pretendono sacrifici umani. Non a caso Marx ha analizzato i processi politici ed economici che portano all’«alienazione», cioè all’oppressione, all’umiliazione e alla distruzione dell’essere umano in nome degli idoli della “Nazione”, del capitale, della merce. 

L’essenza del socialismo sta nella lotta concreta contro questi idoli, nel «movimento reale che abolisce lo stato di cose esistenti». È quindi da respingere ogni presunta vicinanza al cosiddetto “progresso” capitalista, anche quando si traveste da “laicità” o “inclusione”. Che sia fascista, liberale o sedicente “socialista” o di altro tipo, lo stato-nazione rimane essenzialmente totalitario. Una democrazia reale può nascere solo dalla sua distruzione. 

In Europa ci si è illusi di trasformarlo o superarlo attraverso autonomie locali puramente amministrative e la creazione di un ente sovra-nazionale quale l’Unione Europea. Ma questi hanno finito per riprodurre i modi e gli obiettivi dello stato-nazione. Repubblica, autonomie locali, unità europea, sono solo parole vuote se non vengono riempite di significato attraverso la democrazia reale e concretamente operante delle lotte dal basso. Perché queste lotte possano essere davvero intersezionali, cioè possano confederarsi tra loro, occorre ridefinire la cornice dell’identità collettiva, l’identità di una società nel suo complesso, entro cui queste lotte si svolgono. 

Il termine «popolo» può fare riferimento a qualcosa di immaginario, ad un’identità imposta dall’egemonia delle classi dominanti e basata sull’idea di una “naturale” uniformità delle comunità umane. Questa visione può essere declinata in chiave liberale («io stato-nazione tollero la tua diversità linguistica, religiosa, di origine, eccetera ma tu devi essere ubbidiente, quieto e disponibile a farti sfruttare»), oppure in chiave fascista («io stato-nazione non tollero alcuna diversità e prometto a chi è della lingua, religione, origine “giusta” che staranno meglio se collaborano attivamente al rafforzamento ed espansione del mio potere»). Ma l’essenza ideologica del discorso rimane la stessa.

Per combatterla occorre negare il popolo immaginario dello stato-nazione e affermare l’esistenza di un popolo reale e quindi plurale, per cultura, lingue, religioni, eccetera, ma unito nella volontà di difendere il proprio diritto di vivere insieme. Un popolo che è tale non perché condivide un passato più o meno immaginario, ma perché condivide un presente e vuole costruire insieme un futuro.

Ed è per questo che la lotta dei movimenti per la casa, contro il razzismo, per la giustizia climatica e sociale, per la parità di genere, oggi è in continuità ideale con la Resistenza. Perché è l’Italia reale, fatta di problemi concreti, di necessità urgenti, di diversità religiose, linguistiche e culturali, che combatte contro l’Italia immaginaria dello stato-nazione, per il proprio diritto di esistere.

Antifascismo, ieri come oggi, significa questo: affermare che noi, noi e non i fascisti, noi siamo un popolo.

*** La gioia degli italiani dopo la Liberazione. Partigiani e patrioti in piazza San Marco a Venezia