Per non morire di pena

Il talk a Sherwood Festival con Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldrovandi e Cucchi, e Flavio Rossi Albertini, legale di Alfredo Cospito e Anna Beniamino.

6 / 7 / 2023

Giovedì 29 giugno si è tenuto a Sherwood Festival il dibattito “Per non morire di pena”, moderato da Rossella Puca, che aveva come ospiti gli avvocati Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldrovandi e Cucchi, e Flavio Rossi Albertini, legale di Alfredo Cospito e Anna Beniamino. L’incontro ha messo in luce quali siano i possibili percorsi politici e teorici per il superamento dell’ergastolo e del 41-bis e, in generale, per affrontare l’annosa questione della violenza sistemica negli istituti di pena italiani.

Entrambi gli ospiti hanno sottolineato fin dalle prime battute l’urgenza di indagare e contrastare il preoccupante taglio politico e propagandistico su cui sempre di più si basa l’applicazione del sistema giudiziario italiano, posto da mesi sotto l’attenzione pubblica e mediatica grazie allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, intrapreso per denunciare il regime di tortura anticostituzionale imposto dal 41-bis.

Le prime riflessioni si avviano dunque proprio a partire dalla vicenda giudiziaria di Cospito e Anna Beniamino, condannati prima all’ergastolo e poi a 23 e 17 anni perché ritenuti i principali responsabili dello scoppio di una bomba alla scuola allievi carabinieri di Fossano nel 2006, un fatto qualificato come “strage politica” anarchica, nonostante i danni furono minimi. La prima domanda posta a Flavio Rossi Albertini punta ad analizzare se si possa definire il processo a carico di Cospito un processo alle idee, una punizione politica, un accanimento.

Albertini fa innanzitutto un parallelo tra questo processo e la situazione creatasi in Italia negli anni Settanta, quando i militanti politici venivano sistematicamente condannati a pene sproporzionate. “Il principale interesse in un processo politico – specifica - è neutralizzare il nemico”. Per un fatto che non ha provocato nessun danno o vittima, gli anarchici Cospito e Beniamino ricevono una condanna più grave di quella destinata agli autori delle grandi stragi italiane degli anni ’70 e ’80. Il fatto è stato attribuito loro sulla base di un pericolo presunto: gli imputati sono puniti di strage politica non perché quella strage avesse l’obiettivo di mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, ma solo sulla base di una rivendicazione antistatale tramite volantino.

Questa sproporzionalità è motivata dalla specifica volontà politica su cui si fonda questo processo: lanciare un monito a tutta l’area di dissidenti che mette in discussione l’ordine costituito, lo Stato.

Quello di Cospito è dunque “un processo politico perché prevale la ragione di Stato che si sostituisce allo Stato di diritto”.

Anche secondo Fabio Anselmo il processo giudiziario si dimostra essere sempre più in linea alla propaganda politica del momento, elemento che non rende davvero “la legge uguale per tutti” e sulla base del quale si può ribaltare qualsiasi norma processuale. Nel “caso Cospito” è stato rovesciato, ad esempio, il principio secondo cui la responsabilità penale è personale. Il processo politico avanzato denuncia finalità diverse – esercitare una pena esemplare per lanciare un messaggio politico al di fuori dell’aula giudiziaria -, con una forzatura delle regole processuali alla luce di un fine prestabilito che va al di là della responsabilità del reo. Questo fa sì che venga processato il reato, non il reo. Di conseguenza vale il principio per cui se viene assolto il reo, viene assolto anche il reato: “questo si chiama populismo, soddisfa la pancia della gente”.

Un sistema giudiziario così permeabile alla politica fa sì che non esista più la certezza del diritto. “Questo l’ho capito – continua Anselmo – quando ho iniziato a occuparmi dei processi Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Fanesi”. In questi casi l’unica arma a disposizione erano i media, uno strumento fondamentale per dare voce a quelle famiglie senza il cui lavoro sarebbero tutti diventati casi di negata giustizia.

Anselmo conclude il suo primo intervento aggiungendo che “viviamo in un momento in cui i governi hanno fatto dei danni collaterali il motto della gestione della giustizia: in nome dei danni collaterali si sacrificano diritti umani e diritti di difesa”.

Se oggi sentiamo la necessità di un ragionamento strutturato per il superamento dell’ergastolo e del 41-bis e contro la violenza sistemica negli istituti di pena, lo dobbiamo soprattutto alla battaglia di Alfredo Cospito. Ma cosa dovremmo dire dinanzi a chi afferma che superare il 41 bis equivarrebbe a svilire il sacrificio e la memoria di Falcone e Borsellino? La verifica pubblica e il superamento del 41 bis equivalgono a fare un “inchino ai mafiosi”? 

A questa domanda Rossi Albertini risponde subito con un importante interrogativo: quanto è stato fatto oltre al 41-bis per combattere la mafia nei territori in cui è più presente e fertile? La risposta appare evidente se si guarda semplicemente a come negli ultimi 30 anni il fenomeno mafioso si sia sviluppato in maniera sempre più florida e capillare. Il 41-bis ha fallito perché la mafia dovrebbe essere eliminata o indebolita partendo da altre motivazioni, da radici più profonde.

Il messaggio di Cospito ha permesso a tanti di rimettere in discussione la classica narrazione di “buoni contro cattivi”. Grazie al suo sciopero molte persone sanno cos’è l’ergastolo ostativo: uno strumento di tortura che, a prescindere dai reati commessi, non può essere applicato. Nella logica giudiziaria questo trattamento ingiusto è funzionale a spingere l’accusato a pentirsi, individuando l’infamia e la delazione come unici elementi per uscire da questo regime carcerario.

Lo stesso meccanismo di tortura è stato utilizzato con Cospito, considerato pericoloso perché attraverso i suoi pensieri avrebbe istigato persone a commettere reati, quando si è solo limitato a esprimere un pensiero naturalmente ritenuto minaccioso contro l’ordine costituito. La sua condanna al 41-bis è quindi un monito inaccettabile che si dà a chiunque voglia sfidare ordine costituito per straformare modello ingiusto in cui viviamo. Ecco che “gli strumenti giudiziari sono armi dello Stato per difendere il potere”, sviluppati spesso per far fronte a situazioni emergenziali e poi mantenuti anche al di fuori dell’emergenza – come vale per la Legge Reale del 1985.

Accanto all’influenza della politica nel sistema giudiziario italiano, aumentano intanto i casi di abusi da parte delle forze dell’ordine sia nelle istituzioni totali (carceri, istituti di cura), sia nelle strade. Ci si domanda se si tratta davvero le solite ‘mele marce’ o se invece siamo dinanzi ad un fenomeno sistemico dalla portata più estesa.

Fabio Anselmo risponde ricordando innanzitutto che, quando a commettere l’atto criminale è un rappresentante dello Stato, scattano immediatamente dei meccanismi di tutela da parte dell’istituzione statale che vanno al di là della veridicità del fatto. Ciò automaticamente delegittima l’istituzione statale. Parallelamente permea uno spirito di corpo che porta a omertà e depistaggi, si alzano muri di appartenenza alla divisa da parte degli stessi funzionari statali che mantengono i rapporti con le famiglie delle vittime. Il dito dello Stato, di fronte alla difficoltà di riconoscere la colpevolezza di un proprio rappresentante, punta alla colpevolizzazione della vittima e della sua famiglia, giustifica l’uccisione attraverso la personalizzazione. Ecco che le famiglie in questi processi pagano un dolore doppio: oltre alla perdita di un proprio caro, il peso di una giustizia inarrivabile e deviata in cui trattamenti disumani come quello riservato a Stefano Cucchi sono la “normalità”, sono “abitudine”. Anselmo conclude sollecitando a non parlare di mele marce, ma di problema culturale. “Il messaggio è che chiunque subisce un torto e un abuso dei diritti umani da parte dello Stato non potrà mai vincere, e anche se vince non lo lasceranno mai in pace. E questo è un messaggio mafioso”.

L’ultima domanda viene posta a entrambi gli ospiti e fa i conti con la situazione politica che stiamo vivendo in Italia. Il governo Meloni sta utilizzando in maniera evidente la legislazione penale per fini securitari e repressivi, in particolare per colpire movimenti sociali e fasce più deboli della popolazione. Allo stesso tempo non si preoccupa – anzi favorisce - dei reati di matrice economica, correttivi e dei reati propri dei pubblici ufficiali (vedi la probabile abolizione del reato di tortura).

Secondo Flavio Rossi Albertini, al di là della contingenza politica del governo Meloni, da molti anni siamo entrati nella cosiddetta “età della punizione” nella quale vige il panpenalismo, ossia l’espansione del diritto penale che pervade ogni aspetto della vita civile. Il codice penale è sempre più classista e le leggi le fa una specifica classe sociale a scapito di un’altra.

Secondo il penalista bisognerebbe riaffermare alcune categorie della politica del ‘900, in particolare rivendicando una sicurezza collettiva e “di classe” che si opponga a quella individuale. Senza questo passaggio c’è un forte rischio che problemi di natura politica abbiano solamente una via d’uscita giurisdizionale.

“C’è uno spazio vuoto che dovremmo riuscire a ripercorrere e a riempire ragionando in termini di trasformazione, di abolizione del sistema carcerario”. Citando Foucault, Rossi Albertini non usa mezzi termini: il carcere è lo strumento per stabilire la soglia di tolleranza dello Stato nei confronti della devianza. A questo proposito consiglia 5 testi utili ad approfondire il tema sul piano teorico: - Il malinteso della vittima di Tamar Pitch, La classe conta di bell hooks, Donne razza classe di Angela Davis, La trama alternativa di Giusi Palomba, Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta.

In definitiva: il carcere non serve a niente perché - dati alla mano - il 70% di chi entra in carcere ci ritorna, perché è il contesto di marginalità che porta all’illegalità, ma nessuna forza politica è interessata realmente a intervenire sulle condizioni materiali. Questo perché la permanenza dei reati serve a istaurare regime di paura, un populismo giudiziario usato per inseguire il mito della sicurezza individuale.

Per Fabio Anselmo è talmente evidente la strategia di comunicazione politica, che poi si traduce in “fatti” e quindi in leggi, che emerge sempre di più un concetto di normotipo a cui ciascuno di noi si deve adeguare. Al di fuori di esso si va incontro inevitabilmente a fenomeni giudiziari.

Sistema penale e sistema politico convergono su un meccanismo di comunicazione tanto ignorante quanto efficace, nel quale si pone l’attenzione su reati che colpiscono il senso del cosiddetto “uomo medio” (vedi quello del rave, alias “droga”, alias “rumore assordante”, etc). Dall’altro lato vengono spesso estromessi dalla comunicazione i reati su cui si fonda il fenomeno mafioso: la corruzione e la concussione, l’abuso d’atti d’ufficio, la privacy solo per alcuni, invocata per nascondere determinati comportamenti e per privare l’autorità giudiziaria di elementi d’indagine. Ci si trova dunque nella situazione in cui lo Stato fa leva proprio sull’opinione pubblica per alcuni tipi di reati, ma allo stesso tempo favorisce un sistema di potere deviato, perché protegge un certo tipo di cultura criminale, che prospera sul piano economico e finanziario.