Mission Impossible

13 / 11 / 2008

D'ora in avanti ci sarà un pB, prima di Barack, e un dB, dopo Barack.
Spike Lee
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C'è una sequenza cinematografica terrificante nel documentarioFahreneit 9/11 di Michael Moore sulla amministrazione Bush dopo l'attentato alle torri gemelle. Ci mostra George W. a Sarasota, in Florida. Sta visitando una scuola elementare, la Emma E. Booker.
Legge un libro illustrato assieme ad alcuni scolari. Un addetto del suo staff lo avvicina, si piega su di lui e gli mormora all'orecchio la notizia del primo aereo schiantatosi sulla Torre Nord. Mr. President non dice una parola, resta con lo sguardo fisso nel vuoto per un numero incredibile di secondi. Poi torna serenamente alla sua lettura. A Hollywood qualcosa comincia a muoversi. Dalla tragedia delle Twin Towers in avanti sembrava che un tacito accordo avesse unito uomini e donne di cinema in una sorta di patto del silenzio, in una astensione collettiva dall'aprire lo sguardo cinematografico sul loro Paese dopo che quella giornata aveva traumatizzato l'America e il mondo intero.

E' l'afroamericano Spike Lee il primo a rompere il ghiaccio mostrando nei titoli di testa deLa 25ma ora il cratere di Ground Zero. Lisergico e digitale lo svela un po' alla volta. Attorno, le finestre dei grattacieli richiamano quelle di enormi penitenziari a suggerire, nel cuore di Manhattan e del Mondo, un tragico dispositivo di limitazione della libertà collettiva: dal 9/11 siamo tutti meno liberi. E la storia che di seguito si snoda è ancora una volta un racconto morale in cui protagonista è New York, condannata per spaccio della politica imperiale americana dopo aver pensato a una vita eternamente facile e a un'infinita impunità. Il luogo della follia punitiva diventa il centro del mondo occidentale e il suo cratere un vuoto con cui tutti dobbiamo fare i conti. La moratoria è finita.
Un po' alla volta la parte liberal dello star system prende coraggio. Spinta dai lungometraggi di Moore, che già in occasione diBowling for Columbine aveva attaccato frontalmente l'operato dell'amministrazione Bush, ma soprattutto dalla diffusione dell'impegno a far sì che la politica americana cambi in profondità. Si fa strada tra gli artisti la necessità di porre fina alla stagione del neoconservatorismo radicale. Quell'impasto di liberismo deregolamentato a favore delle corporations, di populismo, di individualismo da frontiera, di fondamentalismo religioso, di unilateralismo e aggressività verso l'esterno ha prosciugato il consenso tra attori e registi. Sono crollati i suoi presupposti ideologici e morali prima ancora che economici.
Al centro, elemento scatenante, viene messa l'operazioneDesert Storm, un "titolo" che sarebbe piaciuto a John Ford: sulla portaerei Lincoln il primo maggio 2003 Mr. President, in divisa da aviatore, comunica al mondo "Missione compiuta, il lavoro è terminato, la guerra è finita". Il punto di rottura è l'aggressione armata in terra irachena con le sue false motivazioni, l'assenza di informazione non asservita, lo spettro di un nuovo Vietnam, il prezzo da pagare per la legislazione di emergenza mentre vengono stilate le prime sentenze contro le detenzioni illegali di Guantanamo. Inizialmente sono documentari che mettono sotto accusa l'informazione:Embedded è il titolo di un mediometraggio presentato da Tim Robbins e Scarlett Johansson al Global Beach che si tiene a Venezia a fianco della 61ma Mostra del Cinema. Poi è la volta dei lungometraggi. E' ancora Lee ad aprire squarci di critica feroce sugli effetti del Patriot Act inInside Man, fino a chiudere il film con l'avvocato Jodie Foster che nel suo studio di Wall Street attende l'arrivo del nipote di Bin Laden. Paul Haggis conNella valle di Elah fa issare a un veterano del Mecong la bandiera stelle e strisce rovesciata: segnale di estremo pericolo per il Paese. Robert Redford inLeoni per agnelli racconta di come tra Afghanistan e Iraq si possano bruciare giovani talenti in nome del profitto e del cinismo della politica e delle alte sfere militari.The Road to Guantanamo di Michael Winterbottom narra della assoluta extralegalità di quella prigionia e Rendition di Gavin Hood dei sequestri illegittimi in tutte le aree del mondo di presunti "combattenti illegali". Brian De Palma conRedacted confeziona un folgorante squarcio su ciò che ci viene impedito di vedere degli scempi compiuti tra i civili, clonando immagini saccheggiate dal web e ricollocando la tecnica cinematografica in un altrove ancora tutto da esplorare. Katherine Bigelow inThe Hurt Locker porta il nostro occhio nel ventre della bestia a verificare la sindrome di dipendenza che questa nuova forma della guerra sta diffondendo tra i militari professionisti sul fronte irakeno. Persino il repubblicano dichiarato Clint Eastwood, con il suo straordinario doppio film su Iwo Jima, offre spunti di riflessione sulla necessità di rivedere scelte che non sembrano tenere conto del progresso sul terreno della pace compiuto dall'umanità in più di mezzo secolo di storia.

Attori e registi liberal non esitano più a esprimere pubblicamente il proprio dissenso in ordine all'operato dell'amministrazione Bush e del suo Commander in Chief.
Spike Lee nel 2005 realizza un documentario di quattro ore sugli effetti dell'uragano Katrina che devasta New Orleans, provocando la morte di duemila persone e danni per oltre 80 miliardi di dollari, mettendo in evidenza l'impreparazione assoluta della protezione civile, poi assorbita dal Ministero della Sicurezza del Territorio, e la superficialità di George W. nel gestire la crisi di quello che per molti analisti è il vero punto di inizio della sua parabola discendente. L'anno successivo Gabriel Range gira un finto documentario,Death of a President, che mette in scena l'assassinio di Bush a Chicago il 19 ottobre 2007: il passaggio di poteri al vice Cheney è il pretesto per attaccare le leggi liberticide emanate in tema di politica interna e i disastri in materia di politica estera.
Durante la combattutissima competizione in seno alle primarie democratiche lo star system inizia lo slittamento verso la posizione di Barack Obama e quando questi conquista la candidatura per le presidenziali il consenso si allarga a macchia d'olio a sostegno della sua Mission Impossible: un nero alla presidenza degli Stati Uniti ad avverare la profezia pronunciata quarant'anni fa da Bob Kennedy. Oliver Stone mette assieme i 30 milioni di dollari necessari a girareW., il film che racconta la vita di Bush in tre atti: la giovinezza, l'invasione dell'Iraq, la presidenza. Rifiutato per verosimili ingerenze della nostra Presidenza del Consiglio al Festival di Roma aprirà invece il 21 novembre prossimo il Torino Film Festival di Nanni Moretti. Se sarà da vedere se il protagonista Josh Brolin Non è un paese per vecchi) riesce a interpretare adeguatamente la pochezza intellettuale di George W. non lascia dubbi invece la posizione del regista, veterano del Vietnam: in una lettera aperta a Mr.President lo accusa senza mezzi termini di aver violato la legge, mentito e occultato, augurandosi di vederlo in tribunale. Stone tifa Obama come moltissimi altri, da Pitt a Di Caprio, da Sarandon a Theron, da Jackson a Norton e così via. Persino Ron Howard e Henry Winkler rimettono i giubbotti di Richie e Fonzie per girare uno spot elettorale pro Obama e Howard, fino a oggi principe dei blockbuster, ha appena finito di montareFrost/Nixon, film sull'intervista in cui Nixon ammise le sue colpe nel Watergate.
La presidenza Kennedy nel 1960 prese forma anche grazie il sostegno di Hollywood: la propaganda di Frank Sinatra dette i suoi frutti soprattutto in seno all'elettorato latinoamericano (e c'è chi dice la mafia). Ora agli occhi del pianeta cinema Obama, come Kennedy, rappresenta la giovinezza che sfida la nuova frontiera, sfida rafforzata dal valore aggiunto conferito dal colore della sua pelle. Il popolo delle movie stars era entrato in una sindrome depressiva non dissimile da quella post Vietnam (fu necessario attendere la fine degli anni '70 perché Cimino e Coppola aprissero uno sguardo cinematografico su quel capitolo di storia) e solo lo shock di un giovane nero al comando del Paese può rendere possibile l'"impossibile". La forza, la capacità di coinvolgere, il valore di Obama non stanno nel suo programma, ma in quello che egli è in grado di rappresentare agli occhi di un mondo che si nutre di magia e simulazione. Un nero alla presidenza indica che l'America è davvero il paese delle chance infinite, il luogo della realizzazione dei sogni, lo scenario in cui non ci sono più barriere e limiti predefiniti, il set in cui le qualità personali travolgono tutti gli handicap di partenza.
Non è solo questione attinente a un agognato processo di recupero della democrazia dopo otto anni di amministrazione disastrosa, guerra non condivisa e libertà negate: è soprattutto la percezione di poter vedere le lancette dell'orologio posizionarsi su quella 25ma ora che nel dolente film di Spike Lee segnava il tempo che non c'è, il tempo che non è più possibile. Ora è il tempo che indica possibile la ricostruzione. Ora un nero alla Casa Bianca, giovane e piuttosto glamour, sembra un finale dei fratelli Coen. Invece è il concretissimo inizio della missione.