Bigelow – Cameron 6 a 3

La cerimonia degli Oscar ci consegna premi, riconoscimenti e delle scelte non scontate; Hollywood risulta interpretare al meglio i pensieri e gli umori del Grande Paese americano.

8 / 3 / 2010

 Ancora una volta Hollywood ha dato prova di saper sparigliare. The Hurt Locker, il film di Katherine Bigelow serenamente ignorato dalla giuria della 65. Mostra di Venezia, poco e male distribuito in tutto il mondo, ha razziato sei statuette. Nel confronto con Avatar la regista californiana ha conseguito tra gli altri i premi più prestigiosi per film, regia, sceneggiatura, lasciando all’ex marito Cameron solo quelli tecnici per scenografia, fotografia, effetti speciali. Per alcuni la prima volta di una donna all’Oscar per la regia richiama la coincidenza con l’8 marzo, per altri il tema rimanda alle prime elezioni effettivamente partecipate in terra irachena, per altri ancora è la prima zavorra al decollo del formato 3D, ma per tutti non possono non risaltare i soli 20 milioni di dollari incassati in più di un anno di programmazione contro i 116 incamerati in un solo week end dall’ultimo Tim Burton e la riluttanza storica del pubblico americano a frequentare pellicole che trattino eventi bellici nelle coordinate post Vietnam. Ora questa decisione consente di riconsiderare un film originale, forte, non immediatamente riconoscibile nel suo essere lucidamente contro la forma che la guerra ha assunto nel nuovo millennio. In questo senso riproponiamo alcune riflessioni fatte in occasione della sua prima uscita in Italia:

The Hurt Locker - di Kathryn Bigelow

E' impossibile descrivere a parole ciò che è necessario a coloro che non sanno cosa sia l'orrore. Kurtz/Brando - Apocalypse Now - 1979  You Tube, video chat, videocamere e videofonini, web: è lì la realtà sulla "guerra" in Iraq? Brian De Palma ci ha detto che è dalla rete, è dal basso che emergono a fatica brandelli di verità. Da un lungo lavoro di documentazione e reperimento di materiali è uscito Redacted: sovrapposizione folgorante di finzione e realtà, punto di convergenza e messa a fuoco su un evento non rappresentabile in quanto eccedente e fuori misura. Ma anche oggetto di una parabola fulminea nuovamente verso il basso, da dove era venuto. Ricollocando la tecnica e l'immaginario cinematografico in un altrove ancora tutto da esplorare, in ragione dell'assenza quasi di distribuzione commerciale, si riconsegna nelle mani dei "suoi". Torna alla rete e alle reti. Cinema fatto di non-cinema, di vero clonato, ad altissimo tasso di verità. Cinema, d'altra parte, desaparecido. Sperimentazione sulla quale lo sguardo collettivo è condannato a non aprirsi, cinema colpevole della violazione della zona rossa. Bigelow parte per converso dalla determinazione spregiudicata a farsi vedere e decide per il cinema da duecento ore di girato. Rielabora e adatta al suo stile di "donna che filma come un uomo" le lezioni di Hawks, Aldrich, Kubrick. Porta lo sguardo dentro la guerra, nel ventre della bestia, ad aprire gli occhi su ciò che i media main stream non mostrano ai cittadini degli Stati Uniti e del mondo. Realizzando un film commerciabile e perciò stesso controverso. Percorre una strada apparentemente convenzionale, presentando in prima mondiale alla Mostra veneziana una confezione scintillante che subito divide e che qualche ayatollah della critica bolla come una sorta di Rambo a Baghdad, con ciò contribuendo involontariamente ad allargarne il bacino di utenza. Dopo il disastro commerciale di lavori encomiabili e all stars come Nella Valle di Elah di Paul Haggis (costo 23 milioni di dollari, incassati meno di 7) e Leoni per Agnelli di Robert Redford (costo 35 milioni, incassati 15) Bigelow sfida l'ormai comprovata riluttanza dello spettatore occidentale ad aprire squarci di luce sul 9/11 e sulla conseguente aggressione americana in terra irachena con un'operazione a costo relativamente basso, con un'organizzazione di scrittura serratissima e di grande impatto emozionale. Sotto la quale è possibile scavare e rinvenire frammenti non banali di verità. La tesi di superficie è semplice e confortata da studi psichiatrici effettuati su reduci dall'Iraq: la guerra - questa guerra - è una droga. Perché non ci siano dubbi lo scrive nei titoli di testa e lo ripete in conferenza stampa. Questo è il frammento di immediato ritrovamento: la nuova forma della guerra costituisce in sé dispositivi di assuefazione. L'orrore non è più lo stesso che nelle nebbie del Mekong cercavano di esorcizzare i marines di leva del colonnello Kurtz prima di essere cacciati da bande di straccioni nutriti a riso freddo e carne di topo mentre loro consumavano pasti caldi ascoltando Satisfaction e fumando marijuana. Ora per questi professionisti pagati per affrontare la luce abbagliante del deserto e un nemico indistinguibile la droga non è di tipo convenzionale. E' la guerra stessa. E' l'imprevedibilità della morte. E' l'adrenalina. Un cellulare nelle mani di un venditore di ortaggi. Il cadavere di un bambino imbottito di esplosivo. Il corto circuito pericolo-paura-eccitazione. L'orrore come produzione di senso dell'esistenza. Lo aveva raccontato Haggis facendo descrivere crudamente gli scenari iracheni di morte a un soldato appena rimpatriato che aspettava solo di poter tornare laggiù. Lo stesso spunto è offerto a Bigelow da Marc Bohan, reporter di guerra già consulente di Haggis, qui cosceneggiatore. Dipendenza e attrazione, addiction and attraction. Al sergente James della EOD (Explosive Ordinance Disposal) dopo un rientro dalla moglie e il figlio piccolo il sorriso tornerà solo quando potrà nuovamente dirigersi verso il novecentesimo ordigno da disinnescare, chiuso nel suo scafandro da 40 chili. Il suo prossimo rientro potrebbe essere dentro un hurt locker, "armadietto del dolore" destinato a raccogliere ciò che resta di un soldato vittima di una deflagrazione. Attorno a questo centro Bigelow sembra declinare la consapevolezza che un'epoca di giornalismo dell'immagine si è conclusa su un mondo che è stato oggetto di manipolazione visiva così a lungo e così massicciamente da tornare invisibile. L'immagine di informazione non lo sfiora più: guardandola sul piccolo o sul grande schermo sappiamo di guardare un'immagine, non il mondo. A differenza di De Palma che ricrea cinema dall'immagine privata, non istituzionale, autocondannandosi alla invisibilità, Bigelow aggiorna le modalità del genere al punto da rendere incerta anche la posizione dell'autore: la prima e più diffusa reazione al Lido fu quella di chiedersi da quale parte della barricata si collocava la regista, costringendola a dichiarare pubblicamente e con forza la propria ostilità all'intervento in Iraq e all'amministrazione Bush. La scelta di campo connotativa di ogni pellicola bellica (il solo che sia riuscito a rivoltare il principio è stato Eastwood con il suo straordinario doppio film su Iwo Jima) viene così sullo schermo elusa (resa ambigua, per chi insiste) a favore della formulazione di interrogativi sulle ragioni e le coordinate dello scenario iracheno. Meglio: sulle ragioni delle parti e sulle coordinate di questa nostra cecità, questa sorta di dislessia visiva che inibisce l'interpretazione della realtà. Torna all'antico chiudendo in un blindato le soggettività psicologiche elementari del western (il riflessivo, il temerario, il pauroso, il signorino, il ragazzo…) assieme alla nostra visione soggettiva. Rende incerta anche la più condivisa determinazione fulleriana secondo cui guerra è uccidere o essere uccisi mettendo al centro del racconto la personalità di un uomo che interpreta il combattimento disinnescando ordigni di ogni genere, corsetti esplosivi compresi. Ma il tossico che ritrova il suo flash tranciando il cavo che unisce il detonatore all'esplosivo non ha nulla dell'Angelo della Vita, nulla del Davide armato solo di pinze che affronta il Golia della deflagrazione mortale. Il confine tra coraggio e alienazione è reso indefinibile. Attorno a lui affiorano schegge della desertificazione dell'anima e della coscienza, della falsificazione epocale operata in nome dell'interesse, dell'assoluta asimmetria di una guerra che guerra non è, del cinismo che sacrifica una generazione di giovani all'avidità dell'Impero. Frammenti del business assassino dei contractors, dell'indifferenza dolente e assuefatta dei civili, della follia del mirino a infrarossi quale surrogato della plystation, della sacralità del corpo trasfigurato in arma di distruzione. Testimonianze della cultura e umanità che si nascondono in abitazioni oggetto solo della ricerca dei "terroristi", del destino letale che attende gli adolescenti, dell'ineluttabilità della risposta "terroristica" dei resistenti in quanto unica risposta possibile. Reperti di immenso dolore silenzioso, di tragica povertà, di insopportabile sofferenza muta. Bigelow esprime la consapevolezza che il problema cinematografico essenziale di questo evento sta nell'ordine della sua commensurabilità, nella possibilità di ricondurlo a una sistemica che lo renda misurabile. Nella necessità di fornire strumentazione idonea ad assimilarlo e renderlo comprensibile, a elaborarlo, a prendere posizione. Nella scelta di un percorso che lo renda rappresentabile e visibile, che ne faccia oggetto di giudizio. Allestendo con la consueta potenza di ritmo e originalità d'immagine un prodotto compatibile con il mercato (uscita in Italia il 10 ottobre, distribuzione in USA ancora incerta) rilancia all'utente la scelta del lato della barricata. Ci si chieda pure se sia reazionario, edificante o semplicemente solo Cinema un dialogo come "Qual è la tecnica più efficace per disinnescare un ordigno, soldato? - Quella che ti fa restare vivo, signore." Game over.Settembre 2008

the hurt locker