Perù, festa della patria tra scioperi e repressione

30 / 7 / 2023

Come annunciato dalle organizzazioni sociali a seguito della terza “toma de Lima” del 19 luglio scorso, i giorni di festa nazionale sono stati l’occasione per altre quattro grandi giornate di lotta contro il governo illegittimo, corrotto e violento di Dina Boluarte. Tre giornate che hanno visto decine di delegazioni arrivare nella capitale dalle regioni e migliaia di persone manifestare lasciando deserte le parate militari e i festeggiamenti ufficiali.

Le mobilitazioni sono riprese il 26 luglio quando migliaia di manifestanti si sono radunati sotto la sede del Congresso per manifestare tutta la loro contrarietà alle elezioni della nuova giunta direttiva dell’Assemblea, che ha visto l’accordo, nemmeno troppo segreto, tra il fujimorismo e Perù Libre – l’ex partito di “sinistra” di Pedro Castillo – con la nomina a vicepresidente di uno dei suoi esponenti di punta. Anche in questo caso la risposta della polizia è stata una sola: una durissima repressione ha sgomberato con la forza il presidio, a costo di numerosi feriti e arrestati arbitrari, come quello del giovane universitario Oscar Bellido, reo di aver scritto su un muro “Dina Asesina”. Per lui il giudice ha chiesto addirittura 9 mesi di prigione preventiva, dimostrando come nel paese la democrazia sia una parola senza significato. Fortunatamente il giudice non ha ritenuto di infliggergli questa misura ed è stato rilasciato il giorno seguente, pur continuando ad essere indagato. 

Il 27 sono iniziati i festeggiamenti per la festa nazionale con manifestazioni e parate militari che hanno avuto sede in diverse città del Paese. Parate che sono state l’occasione di azioni di protesta contro il regime della Boluarte, come successo in particolare in alcune città del sud del Paese, tra cui Arequipa dove i manifestanti hanno cercato di interrompere i festeggiamenti con striscioni e cori contro la presidente ma sono stati brutalmente respinti a suon di lacrimogeni e proiettili. A Puno, invece, la popolazione ha messo in atto diversi blocchi stradali come misura di protesta, bloccando le arterie che collegano la città con Cusco. 

L’apice delle mobilitazioni è avvenuto però nelle giornate del 28 e 29, come annunciato in conferenza stampa dalla CNUL (Coordinadora Nacional Unitaria de Lucha). Il cuore delle mobilitazioni ancora una volta il centro di Lima, ma anche in altre città, in occasione dell’inizio dei festeggiamenti e della parate militari per la festa nazionale, ci sono state azioni di protesta o il boicottaggio delle sfilate, lasciate deserte, come dimostrano i video in rete. A Lima, ancora una volta i manifestanti hanno cercato di arrivare fin sotto alla sede del Congresso, ma ancora una volta la polizia ha impedito ai manifestanti di raggiungerlo, con l’utilizzo di gas lacrimogeni e di proiettili di gomma che hanno provocato almeno una trentina di feriti, compresi alcuni giornalisti di testate indipendenti che riprendevano gli avvenimenti. 

Il 28 è stato anche il giorno del tradizionale discorso presidenziale alla nazione, preceduto dalla solenne messa celebrata dall’arcivescovo di Lima Monsignor Castillo. Sorprendendo un po’ tutti – dato che come da costume la Chiesa si è sempre schierata con chi regge il potere politico – l’alto prelato si è pronunciato contro la grave crisi che attraversa il paese e contro il governo con un messaggio chiaro: «Sembra che non si siano resi conto che il popolo esiste, soffre e chiede cambiamenti urgenti […]. Ci sono morti che attendono giustizia e riparazione», riferendosi alle oltre 60 persone vittima della repressione invernale. 

E la Presidente Dina Boluarte, nel suo successivo e lunghissimo discorso – di cui si notano anche alcune parti copiate da un discorso di Piñera nel 2018 – ha chiesto scusa per le vittime della sua amministrazione tuttavia senza assumersi la responsabilità politica di quelle stesse morti, di fatto rendendo vuote e ipocriti le sue parole. 

Lo stesso scenario si è ripetuto sabato 29, con le parate lasciate deserte o tutt’al più contestate con striscioni o cori contro la presidente, e le principali piazze della capitale gremite di persone che manifestavano il proprio dissenso contro l’attuale regime. E come è successo praticamente tutti i giorni di protesta, anche sabato a un certo punto la polizia ha impedito al corteo di proseguire, nonostante fosse pacifico e rivendicasse solo di poter manifestare davanti al Congresso, alzando la tensione e reprimendo ferocemente i manifestanti esasperati dall’impossibilità di continuare a manifestare. Il saldo, ancora una volta è di decine di feriti e arresti arbitrari, nonostante la Defensoría del Pueblo (organo istituzionale) minimizzi la situazione e parli ufficialmente solo di qualche ferito. 

Queste ultime giornate di protesta mostrano una situazione di stallo di cui è difficile prevedere gli sviluppi: da una parte la presidente è saldamente ancorata alla poltrona presidenziale, con un Congresso compatto (anche parti della sinistra istituzionale) a difenderla, mentre dall’altro lato le mobilitazioni, il boicottaggio delle parate militari, sostenute da sondaggi che danno un’altissima disapprovazione per la presidente e il Congresso (arrivata al 90%), dimostrino come queste istituzioni siano fortemente contestate e che l’uscita dalla crisi passi necessariamente da un cambio profondo e radicale. Tuttavia, e questo è un altro dato importante, queste stesse mobilitazioni, al momento non sembrano aver la forza di determinare questi cambiamenti.