Incendi in Algeria: La crisi ecologica e le politiche neoliberali sono all’origine della catastrofe

23 / 8 / 2021

L’Algeria è stata tra i paesi più colpiti dall’ondata di incendi che questa estate ha devastato centinaia di migliaia di ettari di foreste in diverse zone del mondo e in particolare nel bacino mediterraneo. Purtroppo, la struttura dei fatti presenta un chiaro parallelismo con quanto accaduto nel caso della pandemia del Covid-19: la crisi ecologica globale causa un evento catastrofico, il declino dei servizi pubblici ne aggrava le conseguenze, a pagarne i costi sono in modo sproporzionato le fasce più deboli della popolazione. Ma il parallelismo sta anche nella narrazione dominante: viene dato risalto alle cause immediate (pipistrelli e incendiari) senza affrontare il fatto che è la crisi ecologica generale ad aumentare la probabilità di tali particolari eventi, anche quando la crisi ecologica è riconosciuta essa viene attribuita all’umanità in astratto e non al sistema capitalista che l’ha realmente resa possibile, così l’occlusione di una visione sistemica porta a un’ossessione per le responsabilità individuali (senz’altro anche gravi, come nel caso degli incendi dolosi), alla ricerca di capri espiatori (come l’assurdo linciaggio avvenuto proprio in Algeria) e a una gestione repressiva della crisi ben lungi dal toccarne le radici. L’articolo che traduciamo, originalmente pubblicato da Révolution Permanente, mette in luce come questo modello di gestione della crisi abbia conseguenze particolarmente gravi nel Sud Globale. Traduzione Lorenzo Feltrin.

L’Algeria devastata dagli incendi

L’Algeria è stata devastata da violenti incendi in buona parte delle provincie settentrionali, in particolare la Cabilia. Secondo il primo ministro, Aïmène Benabderrahmane, ci sono stati più di settanta incendi in diciotto provincie. La disgrazia che il popolo algerino deve affrontare ha già causato almeno 65 morti tra civili, pompieri e militari, nonché enormi danni materiali. Le temperature hanno sfiorato i 47 gradi nel nord del paese con un moltiplicarsi di ondate di calore, cosa che ha creato le circostanze ideali per la propagazione degli incendi. Questi ultimi hanno rapidamente sorpreso gli abitanti delle zone limitrofe, come è successo nelle catene montuose della Cabilia. Ciò spiega in parte la gravità dei roghi in questa regione. Vivai di frutta, allevamenti di bestiame, migliaia di ettari di foreste e anche case sono andati in fumo. Il pericolo ha costretto numerosi abitanti ad abbandonare le loro case, come è successo a Tizi Ouzou, Larbaa Nath Irathen, Aït Toudert, Akbil, ecc. Ad Aïn El Hammam, altra località della medesima regione, i roghi hanno quasi raggiunto le recinzioni dell’ospedale. Il peggio è stato evitato grazie all’intervento della popolazione. Numerosi incendi sono stati messi sotto controllo in altre località, in particolare Souk El Tenine nella regione Bejaia. Le ondate di calore sono arrivate ai 52 gradi in concomitanza con forti raffiche di vento, cosa che ha reso le operazioni di soccorso quasi impossibili.

Uno slancio di solidarietà di fronte a una situazione legata al cambiamento climatico

Di fronte a questa situazione terribile, si è rapidamente messo in moto uno slancio di solidarietà per aiutare le famiglie colpite, come raccontato da Point. Case, scuole e centri per i giovani sono stati messe a disposizione per le centinaia di nuclei familiari rimasti senza casa. Inoltre, derrate alimentari sono arrivate da diverse regioni del paese. Una mobilitazione auto-organizzata di base ha preso piede spontaneamente nelle varie località per affrontare il diffondersi degli incendi a fianco di protezione civile, corpo forestale ed esercito.

Non si tratta di un fenomeno nuovo in Algeria. L’anno scorso quasi 44.000 ettari di foreste sono andati in fumo. D’altronde, tali incendi sono tutt’altro che un caso isolato. Molti paesi come il Canada e gli Stati Uniti, ma soprattutto il bacino mediterraneo con Grecia, Turchia, Italia e Spagna, sono stati devastati dai roghi in questo periodo.

Di fatto, la moltiplicazione degli incendi su scala planetaria è legata a un insieme di fenomeni già previsti dagli scienziati come conseguenza del riscaldamento globale. Come indicano gli ultimi rapporti dell’Ipcc, gli eventi meteorologici estremi vanno di pari passo con le grandi canicole che favoriscono la diffusione degli incendi. Allo stesso modo, un recente rapporto dell’Onu sostiene che la regione mediterranea costituisce un “hot spot” della crisi climatica. Come nota l’Afp: “Secondo questo testo provvisorio, le temperature dovrebbero aumentare più rapidamente nella zona del Mediterraneo che al livello mondiale durante i prossimi decenni, impattando sull’agricoltura, la pesca e il turismo. Aumenteranno di decine di milioni gli abitanti colpiti da penuria di acqua, rischi di alluvioni costiere e ondate di calore potenzialmente mortali”.

Il governo punta il dito contro una presunta “mano criminale” per sviare l’attenzione dal declino dei servizi pubblici

Dal canto suo, il governo ha insistito sulla natura “criminale” degli incendi. Il ministro degli Interni, Kamel Beldjoud, ha dichiarato durante una visita a Tizi Ouzou che gli incendi hanno origini umane: “Cinquanta focolai allo stesso tempo, è impossibile. Questi incendi sono criminali”. Tale retorica si basa su un fondo di verità, poiché il bacino mediterraneo è caratterizzato dalla prevalenza di incendi provocati da umani, volontariamente o meno. D’altronde, l’Afp riporta che in certe zone dei presunti piromani sono stati arrestati.

Tuttavia, questa narrazione torna molto utile al governo per dissimulare le proprie responsabilità nell’inefficacia della lotta contro catastrofi del genere, nelle quali azione umana immediata e cambiamenti climatici sono strettamente legati. Durante la riunione di governo tenutasi lo scorso 25 luglio, la sola misura volta a lottare contro eventuali incendi è stata repressiva. È stata infatti decisa una pena per chi appicca un incendio che può arrivare fino ai trent’anni di prigione, senza possibilità di grazia, e l’ergastolo per gli incendi che causano decessi.

Questa gestione punitiva della crisi dissimula le conseguenze delle politiche liberali che hanno colpito i servizi pubblici in generale e quelli forestali in particolare da quarant’anni a questa parte. I servizi pubblici sono stati devastati dai vari governi con il risultato che mancano strade rurali attraverso le quali i pompieri possano arrivare facilmente agli incendi, sono state tagliate risorse materiali e umane, non c’è personale sufficientemente formato nella manutenzione delle foreste, scarseggiano elicotteri e cannoni ad acqua, le amministrazioni locali non hanno soldi per affrontare la situazione, non c’è sensibilizzazione sui temi ecologici e nemmeno una politica di trattamento dei rifiuti, che vengono spesso bruciati in discariche illegali che rischiano così di dar vita a incendi.

La risposta repressiva del governo agli incendi ha avuto conseguenze funeste, incitando la caccia a dei colpevoli da punire. Così, un presunto piromane rivelatosi poi innocente, è morto linciato l’11 agosto a Larbaa Nath Irathen. La vittima, Djamel Bensmail, era arrivato da Miliana (provincia di Ain Defla) per aiutare gli abitanti di Tizi Ouzou. Dopo essere stato interrogato dalla polizia è stato consegnato a una folla scatenata dal terrore degli incendi, che gli ha dato fuoco. Un crimine ignobile, inseparabile dalla diffusione di narrazioni complottiste in certi settori della società. In questo caso, sembra che il linciaggio sia stato guidato dagli indipendentisti cabila, che avevano precedentemente agitato una retorica contro “la mano criminale del potere” nella diffusione degli incendi nella regione per rafforzare la loro ideologia razzista e reazionaria.

L’orientamento del governo: ponti d’oro per oligarchia e multinazionali

Mentre gli incendi mettevano a nudo le conseguenze della distruzione dei servizi pubblici, il presidente della repubblica Abdelmadjid Tebboune – durante una conferenza stampa tenutasi il 9 agosto – si è espresso su diversi temi, tra cui l’esercito, la diplomazia, il nuovo governo, il Marocco, ma soprattutto le misure economiche previste per i prossimi mesi. Nulla di nuovo, se non l’indurimento delle politiche liberali portate avanti dai suoi predecessori per soffocare ulteriormente le classi popolari e fare altri regali all’oligarchia e alle multinazionali. Insomma, una politica che segue la stessa traiettoria che ha causato il declino del settore pubblico e che spiega una buona parte delle ripercussioni della pandemia e degli incendi attuali. Il presidente ha così dichiarato di voler vendere le partecipazioni statali nelle imprese pubbliche e nelle banche nel quadro delle “riforme economiche tanto attese”. Questa riforma permetterà alle istituzioni finanziare internazionali di garantire alle multinazionali e agli investitori stranieri, ma anche all’oligarchia algerina, di trarre profitto dai nuovi mercati prendendo il controllo del 95% delle risorse bancarie di cui dispongono le banche pubbliche.

Tebboune ha aggiunto che le banche pubbliche forniranno prestiti da 81.150 miliardi di dinari algerini alle imprese, descrivendo ciò come un “buon investimento”. Ha aggiunto: “Il progetto di apertura delle imprese pubbliche ai capitali privati troverà soluzioni efficaci per evitare la gestione amministrativa”. Questo discorso fornisce una chiara idea dell’obiettivo dei prestiti accordati, che sembrano essere un modo di ricompensare i padroni per i loro atti “caritatevoli”, come le briciole concesse al sistema sanitario pubblico per comprare concentratori di ossigeno. Tutto ciò quando la maggioranza di tali linee di credito sono semplicemente soldi delle casse pubbliche (soldi del popolo) trasferiti alle imprese attraverso le banche.

Tutte queste misure avverranno a detrimento delle imprese pubbliche, destinate a essere vendute e privatizzate quando non serviranno più ad ammortizzare investimenti che la borghesia nazionale non è riuscita a prendere sulle proprie spalle. È in questa prospettiva che Abdelmadjid Tebboune ha annunciato l’aumento del sussidio di disoccupazione. Ricordiamo che questo dispositivo è stato attivato all’epoca dei grandi licenziamenti degli anni ’90 in seguito al piano di aggiustamento strutturale imposto dall’Fmi, che ha causato quasi un milione di licenziamenti. Stavolta la misura mira a preparare il terreno per una nuova ondata di licenziamenti che si aggiungeranno ai 500.000 già registrati durante la pandemia.

In questo senso, l’integrazione dell’economia algerina nel capitalismo mondiale ha significato per le masse popolari nient’altro che l’erosione delle conquiste sociali e democratiche della lotta d’indipendenza. Con la pandemia, abbiamo visto gli effetti del declino dell’accesso universale e gratuito alle cure. Intanto aumenta la svendita di patrimoni a un piccolo gruppo di oligarchi e alle potenze imperialiste. Di fronte a tali politiche, le masse popolari possono affrontare la catastrofe e costruire la solidarietà nazionale e internazionale con le vittime del disastro attraverso la creazione di comitati di base che leghino pompieri e personale sanitario all’insieme dei lavoratori. Una mobilitazione che si deve inserire nella prospettiva di far da barriera al rullo compressore del capitalismo che priva milioni di persone dei propri diritti elementari, per rispondere ai bisogni sociali e democratici dell’insieme dei lavoratori e delle classi popolari.