Una sentenza che non rispetta i beni comuni

22 / 11 / 2010

La guerra delle valute, i segnali prevedibilmente sconfortanti sulla «ripresa economica» e le fibrillazioni politiche nostrane mostrano come anche in Italia il ciclo inaugurato con la «fine della storia» si sia esaurito. Il nuovo scenario che si sta profilando sarà fondato su una regressione dell'asse Atlantico e sul progressivo tramonto dell'egemonia statunitense, sul piano prima economico, successivamente politico e finalmente culturale. Mentre sotto il profilo economico e politico i segnali non sono ambigui, molto più complessa si profila la partita culturale. In quest'ambito si intravedono i segnali di una ripresa di iniziativa da parte di un'elaborazione di sinistra, dopo che «la fine della storia» ne aveva provocato uno snaturamento profondo. Per vent'anni abbiamo assistito, impotenti, alla trasformazione della sinistra in un'«altra destra» che, sul piano della cultura giuridico-istituzionale, ha sostanzialmente offerto i due contributi essenziali per la strutturazione del nuovo (dis)equilibrio capitalistico fuoriuscito dalla caduta del Muro di Berlino. In primo luogo l'idea dello Stato regolatore, e in secondo luogo quella del dialogo internazionale fra le Corti supreme. Si tratta di due nozioni, entrambe figlie dell'egemonia culturale statunitense, che condividono un grande disegno di tecnologizzazione del diritto e della politica all'insegna di una presunta neutralità istituzionale (è la stessa logica ipocrita del governo tecnico). Lo Stato regolatore deve limitarsi a presiedere, come un arbitro in un incontro di tennis, al rispetto delle regole formali della concorrenza, rinunciando a favore dei privati a ogni ruolo attivo del pubblico nell'economia. A questo quadro di regressione ottocentesca verso uno Stato minimo guardiano passivo dell'efficienza economica (crescita, produttività, sviluppo, ecc) si cerca di recuperare un volto umano attraverso il «dialogo fra Corti supreme». Saranno così i giudici costituzionali di tutto il mondo, oracoli dell'ideologia borghese dei diritti individuali fondamentali, ad elaborare una giustizia (formale) universalista che faccia da contrappeso al trionfo della tecnica e dell'economia.


La valenza ideologica di questo quadro di riferimento fideistico, fondato sull'idolatria del mercato e del regime di legalità, è stata da più parti denunciata nella sua natura reazionaria. Da tempo, inoltre, la cultura giuridico-politica si è posta alla ricerca di nuovi strumenti capaci di invertire la rotta rispetto alla sciagurata mistificazione anti-politica delle privatizzazioni cammuffate da liberalizzazioni. Giustamente si è osservato che una dimensione ecologica e di lungo periodo comincia a caratterizzare in modo non ambiguo quella parte sempre più ampia della sinistra che si svegliata dal sonno delle «lenzuolate», mentre il movimento referendario per l'«acqua bene comune» allarga ben oltre la sinistra un grido d'allarme che soltanto chi si finge sordo non può sentire. Con la sentenza che rigetta il ricorso di sei regioni contro il decreto Ronchi che obbliga alla privatizzazione dei servizi pubblici e dell'acqua, la Consulta manda un segnale molto preoccupante. Infatti, stabilendo che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale», la Corte banalizza questioni di importanza primaria quale l'elaborazione teorica della nozione giuridica di bene comune. Così facendo essa si dimostra vecchia e prigioniera di una logica tecnocratica da fine della storia che le impedisce di produrre cultura giuridica adeguata ai tempi che stiamo vivendo. La prolissità della decisione non nasconde la debolezza teorica di un'argomentazione apodittica e contraria allo stesso diritto europeo. Speriamo che queste retrive convinzioni tecniche che ne hanno fatto un baluardo dello Stato regolatore non siano prodromiche a un respingimento del referendum il prossimo gennaio, perché ciò trasformerebbe un incidente di percorso tecnico-giuridico in un autentico abuso politico-costituzionale.
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