Nasce il Centro studi Alternativa comune

Pensare il presente, costruire il futuro

Manifesto politico-culturale

19 / 10 / 2011

Ci sono momenti in cui sembra che la storia si sia rimessa in moto, in cui la realtà corre velocissima e sembra procedere a salti. Se guardiamo al mondo contemporaneo, al mondo della crisi sistemica globale, non possiamo che constatarlo: colossi finanziari che crollano nel giro di poche settimane, il tramonto dell'egemonia del dollaro, la crescita vertiginosa delle economia cinese, indiana e brasiliana, il carattere inarrestabile della devastazione ambientale ad opera di corporation transazionali, con il riapparire, tra i fumi della catastrofe “naturale”, dell’incubo nucleare.

Precarizzazione come condizione di vita e di lavoro, aumento delle diseguaglianze sociali, riduzione del welfare come sistema universale di tutele, comando assoluto delle imprese sulle condizioni lavorative, con la cancellazione dei diritti e della democrazia, sono, nei paesi di vecchia industrializzazione, la fotografia sociale non solo della crisi ma di come multinazionali, finanza e governi pensano di affrontare la crisi stessa.

Nello stesso tempo le rivolte dei giovani europei, quelle del Maghreb e del Makresh, contro la disoccupazione e la precarietà, per un'istruzione pubblica di qualità, per la conquista di diritti politici e sociali; ancora, le lotte degli operai cinesi, alla Foxconn o alla Honda, per un salario dignitoso, per migliori condizioni di lavoro, per la libertà sindacale e di sciopero, per non essere schiavi, “così vicine e così lontane” con le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori in Italia e in Europa.

Una scena caotica, magmatica, che risulterebbe troppo spesso inafferrabile per un pensiero che restasse, con ottusa ostinazione, ancorato ad una propria unica matrice identitaria o vagasse in cerca di immutabili regole generali. Ci vuole piuttosto ‒ e lo richiede l’urgenza dell’indignazione e del rifiuto di ciò che è intollerabile e la necessità della trasformazione radicale ‒ un multiverso di pensiero “in movimento”, che sappia cogliere quanto di più efficace è ancora in grado di offrire una pluralità di culture e pratiche politiche che hanno storicamente e fin qui cercato di pensare ed attuare il cambiamento, insieme ad apporti nuovi, eterogenei ed eterodossi: sulla base di tutto questo occorre costruire strumenti concettuali più adeguati, letture singolari, insomma, un sapere della contingenza e della variazione.

Proveniamo da storie collettive e personali diverse e da differenti tradizioni politiche e culturali di quella che un tempo si sarebbe chiamata “la sinistra”: alcune ed alcuni tra noi dalla militanza nel movimento operaio ufficiale, nei suoi partiti e nelle sue organizzazioni sindacali, altre ed altri da quello che si definiva l’“altro movimento operaio”, dai suoi molti e diversi filoni “eretici”, altre ed altri ancora dalle più recenti esperienze di movimento e di organizzazione sociale e culturale. Nessuno di noi si considera più autosufficiente, sia nella comprensione della realtà, sia nell’azione sociale e politica. Insieme, ma senza cancellare le nostre storie e culture, intendiamo dar vita ad un percorso comune inedito, a qualcosa di nuovo sulla scena italiana ed europea. Pur consapevoli dei limiti soggettivi della nostra azione, intendiamo misurarci con l’obiettivo di cercare di «afferrare il nostro tempo con il pensiero». Non è forse questa la prima sfida di una politica non dimessa o arrendevole e, nello stesso tempo, di una elaborazione teorico-pratica che si voglia critica e radicale? Alternativa comune parte da questa domanda ed inizia il suo lavoro cercando di risponderle produttivamente.

Politica non dimessa e pensiero critico, tra le due cose non si dà disgiunzione. Quanto più, infatti, smottamenti improvvisi (e continui) fanno franare il mondo che abbiamo conosciuto, tanto più la politica, se non vuole essere ossequiosa nei confronti del «cattivo nuovo», deve costruire un nuovo lessico e una nuova grammatica. Uno sforzo innovativo reso ancora più indispensabile dalla crisi che le forme tradizionali della politica stanno attraversando. Non è necessario uno sguardo analitico particolarmente raffinato per cogliere la crisi della politica e delle sue forme di rappresentanza, delle funzioni e dei suoi dispositivi: populismo e tensioni neo-autoritarie sono l'espressione più compiuta di questo esaurimento. La polverizzazione delle identità del lavoro, la nuova rilevanza della comunicazione e, nello stesso tempo, la proliferazione delle tecnologie digitali, ha completamente ridisegnato la scena sociale, sgretolando gli interessi collettivi che un tempo trovavano nella rappresentanza politica la loro compiuta sintesi. Il massimo della concentrazione dei poteri accompagnato dalla frammentazione del ciclo lavorativo di formazione del prodotto, dalla ideazione alla commercializzazione, sono alla base di una ristrutturazione e riorganizzazione del sistema-paese su base globale, del nuovo rapporto tra capitale e finanza che ha contribuito alla stessa crisi della rappresentanza sociale, del sindacato in Italia, in Europa, negli Stati Uniti.

Altrettanto, la politica istituzionale, con la progressiva demolizione del sistema fordista-keynesiano, ha perso prestigio e importanza, messa all'angolo dal neo-liberismo e dai processi di finanziarizzazione. In un mondo in cui il profitto diviene anche rendita (sia essa finanziaria o immobiliare), la politica nei migliori dei casi si limita a tentare di “contenere il danno” laddove quest'ultimo si presenta nelle forme più violente: è il caso delle politiche anti-crisi obamiane ed europee, liquidità pubblica a sostegno delle banche, tagli al welfare per garantire agli speculatori nuova speculazione.

Un lessico e una grammatica, dunque, un percorso comune che sappiano andare oltre la crisi delle forme della rappresentanza e pensare l'alternativa. La crisi sistemica del capitalismo, infatti, ha reso evidente lo scollamento tra mercato e democrazia. Non solo le forme della rappresentanza non funzionano più, ma le stesse istituzioni democratiche vengono svuotate di senso: le politiche economiche sono agite sul terreno transnazionale e questo slittamento ridefinisce le scelte di bilancio così come le relazioni industriali. Ciò pare evidente nelle scelte compiute dall'Europa, dove non esiste alcun vincolo sul piano sociale e fiscale, ma esiste esclusivamente un vincolo monetario che definisce i confini entro cui compiere tagli sociali insopportabili. La vicenda del debito sovrano e del rischio di insolvenza dei cosiddetti “paesi periferici”, la distruzione del welfare imposta dagli hedge fund e dal Fmi, ci segnalano la marginalità degli Stati-nazione rispetto alle direttrici della governance economica, continentale e globale nello stesso tempo.

Non è casuale, in questo quadro, l'affermazione economica della Cina: contraltare di una crescita annua del Pil a due cifre è lo strano intreccio di neoliberismo selvaggio, pianificazione statale e autoritarismo politico. Capitalismo e liberalismo democratico non sono più due facce della stessa medaglia, e le rivolte sociali del mondo arabo ce lo dimostrano con estrema forza: i feroci dittatori del Nord-Africa e del Medio Oriente, hanno garantito forse meglio di altri, sul piano interno ed internazionale, nel campo produttivo come in quello energetico, l'affermazione di un'economia di mercato ultra-liberista, segnata da profondi fenomeni di corruzione. Non è casuale che, ovunque nel mondo, la corruzione si riveli essere il vero doppio, sul terreno politico-amministrativo, dello strapotere della rendita su quello economico.

Pensare la democrazia, la rappresentanza in forme nuove, significa immediatamente pensare l'alternativa, un'alternativa – al tempo stesso socialmente maggioritaria, nelle sue ambizioni e nella sua pratica, e radicale, non perché ideologica, ma in quanto capace di andare alla radice dei problemi che abbiamo di fronte ‒ al mercato e alla competitività tra le merci e tra le persone, come idea del mondo in crisi. In questo quadro diviene indispensabile problematizzare, sempre che gli stessi termini siano ancora spendibili, il rapporto tra “riforme”, “rivolte” e “rivoluzione”: là dove i margini redistributivi e di recupero di una possibile dialettica sociale sono andati progressivamente ad assottigliarsi, una ricerca politica propriamente riformista, nel quadro attuale, non può che aprire continuamente alla dimensione della rottura, del “tumulto”; altrettanto, ogni momento di discontinuità e di conflitto non può che disporsi sul piano di una nuova invenzione istituzionale.

In questo terreno di mezzo si colloca la sperimentazione teorico-critica di Alternativa comune. Una sperimentazione consapevole che sulla ridefinizione del concetto di democrazia ‒ con attenzione privilegiata allo spazio pubblico europeo ‒ e del rapporto tra lavoro e welfare (e quindi i nodi del salario e del reddito di cittadinanza), sulla qualificazione della centralità – nella crisi ecosistemica ‒ dei beni comuni e della riconversione ecologica della produzione e della società, sulla questione dei saperi, si gioca una partita decisiva tanto per la ricerca teorica, quanto per una pratica politica radicale. Temi di un pensiero coraggioso, che ritiene possibile connessioni inedite tra culture e sensibilità diverse. Comporre queste differenze, articolandole positivamente, è l'unico modo, infatti, per affrontare in termini offensivi la catastrofe economica e politica che ci tocca in sorte.

Afferrare il proprio tempo per riconquistare il futuro, è questa la sfida di Alternativa Comune, una sfida ambiziosa, per immaginare e realizzare ancora e di nuovo il cambiamento.

Roma, settembre 2011

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