Gli scontri alla Fiera dell’Oro e la necessità di ribaltare le narrazioni

Dopo la manifestazione di sabato scorso a Vicenza si è aperta una partita importante che investe il terreno della comunicazione politica.

25 / 1 / 2024

La differenza tra antisionismo ed antisemitismo non passa da una sottile linea rossa. I due concetti si radicano in alvei culturali così distanti tra loro che in qualche modo possono essere antitetici. Il primo nasce e si sviluppa per contestare l’idea che un nuovo Stato-nazione nasca in un determinato territorio espellendo la popolazione che già lo abitava. Dopo la prima guerra arabo-israeliana l’antisionismo definisce chiaramente i propri obiettivi e li concentra contro l’occupazione illegittima che Israele fa dei territori assegnati ai palestinesi. Lo abbiamo sintetizzato così in un editoriale uscito immediatamente dopo i fatti del 7 ottobre: “esiste una “radice del male”, che nel corso dei decenni ha fatto germogliare e ha regolarizzato una delle più grandi ingiustizie contemporanee: l’occupazione illegittima da parte dello Stato di Israele dei territori assegnati alla popolazione palestinese dal “piano per la ripartizione della Palestina”, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine del 1947”.

L’antisemitismo, lungi da noi tracciarne la storia, nasce da premesse antitetiche: la negazione di un popolo ad esistere sulla base di radici etniche e religiose. Qui la “radice del male”, quantomeno nell’antisemitismo cristiano-occidentale, risiede nel deicidio, ossia il fatto che gli ebrei abbiano fatto crocifiggere Gesù Cristo.

Perché facciamo questa premessa alcuni giorni dopo la manifestazione di Vicenza contro il padiglione israeliano alla Fiera dell’Oro? Perché ci troviamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni fatte dalla stampa nazionale in tempi recenti.

Ci riferiamo non solo ai titoli a tutta pagina di Libero e La Verità, due giornali che hanno da sempre offerto materiali per meme, ma che tendenzialmente contano come i terzini destri per la classifica marcatori. È bene comunque segnalare lo squallore con cui si confonde ebrei con Israele negli articoli firmati domenica 21 gennaio da Serenella Bettin (Libero) e Fabio Amendolara (La Verità) nei quali si parla di “caccia all’ebreo” e assurdità simili.

La cosa più problematica degli articoli che raccontano la giornata di sabato è che il loro tenore è stato scandito dalle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa e dell’ex segretario del Pd Pietro Fassino. Entrambi, con sfumature leggermente diverse, insistono sull’equiparare le manifestazioni contro le politiche genocide di Israele ai “rigurgiti antisemiti”. Il fatto che La Russa accusi altre persone di antisemitismo è un paradosso politico in sé; che Fassino lo faccia per le solite bagarre interne al PD ci interessa poco. Il problema qui è che la mistificazione sta tentando di colonizzare completamente il dibattito pubblico.

Il livello probabilmente più basso lo raggiunge forse Paolo Mieli, “esperto” editorialista ed ex direttore del Corriere della Sera, che lunedì scrive un articolo dal titolo “Un Giorno della Memoria particolarmente doloroso”. Citiamo testualmente: «L’altro ieri alcune centinaia di persone hanno aggredito la fiera VicenzaOro provocando scontri con la polizia. Il loro scopo dichiarato era quello di solidarizzare con il popolo palestinese. Urlavano slogan assai critici nei confronti di Tel Aviv (e fin qui...) accompagnati da altri ostili tout court agli ebrei». Forse bisognerebbe ricordare a Mieli, uno dei tanti “liberali” di casa nostra a sostenere ancora che Israele sia l’unica democrazia del Medio Oriente, quello che scriveva John Locke nel Secondo trattato sul governo (1690) sulla necessità di ribellarsi contro “l'esercizio del potere oltre il diritto”. Non stiamo parlando di Lenin, ma di uno dei padri del liberalismo; ed è storicamente dato che “il diritto” è qualcosa che il popolo palestinese non ha mai potuto neppure assaporare in questi 75 anni.

Ma torniamo a sabato scorso. La manifestazione aveva obiettivi chiari e dichiarati settimane prima: provare a bloccare il padiglione israeliano per denunciare quell’ingranaggio tipico di un’economia di guerra che, anche grazie al commercio dei diamanti, finanzia una guerra che in poco più di 100 giorni è costata la vita a quasi 25 mila palestinesi. Bastava ascoltare uno dei tanti interventi che ci sono stati durante il corteo, o semplicemente prendersi la briga di leggere il comunicato stampa, per comprenderlo.

E invece tutto questo viene volutamente tacitato dalla maggior parte dei giornali nazionali: nelle migliori delle ipotesi si tenta di sensazionalizzare lo scontro con le forze dell’ordine slegandolo completamente da contesti e obiettivi. Viene utilizzato strumentalmente - e questo è un vecchio copione - il tema della “violenza”, ma ci si perde volutamente un punto fondamentale: l’uso della forza in piazza da parte dei movimenti non è mai legato allo scontro in sé, ma è sempre funzionale a uno scopo politico. Nella fattispecie, al di là del padiglione israeliano, lo scopo era ed è quello di rompere il senso d’impotenza che si sta creando attorno alla vicenda israelo-palestinese e in generale attorno all’escalation militare globale che stiamo vivendo.

Ci sono almeno due riflessioni che vanno fatte. Ma prima di queste un’ulteriore premessa.

Non abbiamo mai esaltato nel giornalismo la ricerca della “verità”, essendo questa un elemento sempre subordinato ai rapporti di potere che definiscono l’interpretazione di un fatto. La nostra “verità” è sempre stata la ricerca di un nuovo ordine semantico che abbia la complessità come base e non le semplificazioni. Ed è per questo che abbiamo sempre inteso l'informazione e la comunicazione come campi di battaglia e non di mero "servizio".

Detto questo, crediamo che ci sia un problema di fondo nel trattare il conflitto israelo-palestinese che riporta sul terreno delle narrazioni mainstream la totale asimmetria che si registra nel novero delle forze in campo. Israele è troppo intoccabile, troppo legittimata politicamente dal cosiddetto “occidente” per essere criticata. E anche quando la cronaca dei fatti sembra essere così palese, c’è sempre un fattore politico e culturale che in qualche modo ci riporta a un teorema di fondo: “la sicurezza di Israele”. L’esercito israeliano, i coloni, la cultura della guerra che viene instillata nell’intero corpo sociale si ispirano a questo: Israele può commettere qualsiasi atrocità perché “deve sentirsi sicura”. Ed è per questo che di articoli che criticano il suo operato, anche semplicemente entrando un po’ più in profondità su ciò che accade, se ne trovano realmente con il lumicino sulla stampa nazionale.

C’è poi un secondo tema, più generale. Negli ultimi anni stiamo assistendo a un generale asservimento della narrazione mediatica ai dettami del potere. Non è un caso che gli articoli sulla manifestazione di sabato citino La Russa e Fassino come sintesi di una condanna “bipartisan”, che tende a isolare, a non concedere sponde a chi prova a fare emergere altri tipi di narrazioni.

Lo abbiamo visto con la pandemia prima e con la guerra in Ucraina poi quanto il gioco di polarizzare la narrazione fosse funzionale a comprimere la dialettica politica in una fase di riassetto globale del capitalismo. È chiaro che questo ha l’effetto immediato di svilire il giornalismo, specie quello mainstream, perché crea un legame di diretta dipendenza dal potere che a volte sfugge anche alle sacrosante classifiche sulla libertà di stampa che annualmente vengono stilate.

Come rompere questo meccanismo? Aumentano l’impatto del giornalismo indipendente, di coloro che quotidianamente producono narrazioni che si sentono direttamente parte in causa di un mondo che va reso più giusto ed equo. Ma soprattutto, e questo è il punto politico, va definito che la funzione del giornalismo indipendente è strettamente legata alla sua capacità di essere interno alle lotte, ai processi e alle istanze sociali di cambiamento.

La manifestazione di Vicenza ha avuto un grande merito: quello di rompere una compatibilità di piazza rispetto alle precedenti mobilitazioni che si sono date sul tema, quantomeno a livello nazionale. Ha avuto una viralità mediatica perché è stata capace di interpretare un sentire maggioritario: quando ci si trova di fronte a un genocidio alzare il livello dello scontro diventa una questione relativa, perchè non sarà mai comparabile alla violenza che viene messa in atto da chi è oggettivamente responsabile di 25 mila morti in poco più di tre mesi. Ed è qui che la narrazione mainstream entra in difficoltà ed è costretta a distorcere, semplificare, silenziare. Ma è qui che emerge anche la forza potenziale dei movimenti, il loro irrompere nella scena pubblica proprio per trasformare le categorie interpretative.

Immagine di copertina: Edoardo Fioretto.