Due mesi di rumore: da Padova un punto di vista sulle lotte in Università

1 / 12 / 2023

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, ennesimo caso di violenza contro le donne da parte di un uomo, ennesima dimostrazione del problema sistemico che diffonde ovunque la cultura patriarcale, ha visto una reazione di mobilitazione all’interno degli atenei di proporzioni che non si vedevano da molto tempo. Situazione in continuità con quello che abbiamo visto svilupparsi all’interno delle universitànegli ultimi mesi, non solo contro la violenza di genere, ma anche precedentemente per la crisi abitativa e la solidarietà al popolo palestinese.

In questo articolo verrà esaminato quello che è accaduto nella città di Padova. Un punto di vista parziale, che va però letto in relazione a quanto accaduto contemporaneamente in altri atenei, grandi e piccoli. Una spinta da parte della composizione universitaria che si è espressa anche nelle piazze.Un esempio lampante è stata la grande manifestazione di lunedì 20 novembre a Padova e quelle che nei giorni successivi abbiamo visto anche a Bologna, Venezia e in altre città. In queste piazze è stata proprio la componente universitaria a rivendicare a gran voce la necessità di portare la discussione su importanti tematiche come la violenza di genere anche all’interno dell’ateneo, sottolineando la necessità di smantellare il ramificarsi della cultura patriarcale anche dentro ai luoghi del sapere

Focalizzandoci su Padova, nei giorni seguenti una grande assemblea spontanea ha preso vita durante le lezioni della professoressa Lorenza Perini, docente di Politiche di Genere presso il dipartimento di Scienze Politiche. Assemblea che ha visto centinaia di studenti e studentesse mobilitarsi ed organizzarsi per contestare le risposte della rettrice ai fatti accaduti, giudicando il chiudersi dell’istituzione in parole di cordoglio, minuti di silenzio e nel collocare alcune panchine rosse, come misure insufficienti e incapaci di ascoltare la comunità studentesca.

Dall’assemblea è uscita una petizione per richiedere alla rettrice la sospensione delle lezioni per la giornata di venerdì 24, al fine di poter organizzare momenti di discussione e di confronto sulla violenza di genere all’interno dell’ateneo, la quale ha raggiunto migliaia di firme in pochissimi giorni,

In seguito all’ennesimo silenzio da parte del rettorato, nella giornata di venerdì 24 sono stati organizzati autonomamente tavoli di lavoro ed una grande plenaria tra i dipartimenti di ingegneria e di psicologia, i quali hanno visto la comunità studentesca confrontarsi su diversi temi legati alla questione di genere, evidenziando come l’Università di Padova sia uno spazio dove la cultura patriarcale, che dovrebbe essere combattuta dai saperi critici, trova terreno fertile dove riprodursi e rilanciando attività e progetti per costruire dal basso un’università transfemminista, dalla gestione delle molestie a saperi decoloniali e transfemministi.

La questione abitativa

Nella capacità di mobilitarsi in grandissimi numeri in pochissimo tempo, nel vedere tra le file del corteo e delle assemblee una grandissima presenza studentesca, appare evidente la possibilità di movimento che si sta aprendo, la sensazione comune di essere sul punto di qualcosa di grande, che spinge per esplodere e travolgere tutto con la sua forza.

I primi sentori di questa possibilità si erano sentiti già ad ottobre, quando in tutta Italia moltissimi collettivi interni a diversi atenei si erano mobilitati contro la crisi abitativa, occupando facoltà, organizzando assemblee, e riappropriandosi di studentati chiusi da tempo e lasciati alla speculazione edilizia, come testimoniano i progetti bolognesi di “Glitchouse” del Cua o “In and Out” del collettivo Luna. 

A Venezia, la situazione della crisi abitativa, denunciata da tempo in una città dove la turistificazione rende sempre più difficile trovare un alloggio per studenti e lavoratori, ha visto schierarsi insieme agli studenti e alle studentesse le realtà cittadine di lotta per la casa, portando in piazza la necessità di occupare gli spazi sfitti lasciati chiusi per speculazione, come viene fatto quotidianamente dall'assemblea Asc e da tantissimi studenti e studentesse. 

Nelle piazze e nelle assemblee di quelle settimane la narrazione collettiva data dalle diverse realtà universitarie mobilitatesi aveva le stesse parole d’ordine: la vita universitaria non è accessibile, i costi del vivere sono troppo alti ed i nostri atenei procedono come se nulla stesse accadendo ad ignorare ogni nostra richiesta. 

Nel dibattito organizzato dal Collettivo Spina a Padova, in occasione dell’occupazione di Scienze politiche del 17 ottobre, il problema dello spazio e dell’accessibilità della città era stato analizzato da diversi punti di vista, i quali condividevano il punto comune di riconoscere in una città definita dalla rettrice pochi giorni prima “a misura di studente” una città inaccessibile e gentrificata, dinamica la quale viene quotidianamente sostenuta dall’ateneo patavino, in una spirale di aziendalizzazione ed estrazione di profitto dalla comunità studentesca sempre più accentuata, e non combattuta come richiesto dagli studenti e dalle studentesse. 

La solidarietà alla Palestina

La svolta a livello nazionale per le mobilitazioni universitarie è arrivata al seguito degli attacchi del 7 ottobre e con l’invasione di terra di Israele nei territori Palestinesi. Le settimane di novembre, infatti, hanno visto decine di atenei, da Padova a Venezia, da Torino a Roma, venire occupati in solidarietà al popolo palestinese, chiedendo a gran voce un posizionamento netto da parte dei rettorati riguardo la situazione in Palestina e’abolizione degli accordi tra gli atenei e le aziende produttrici di armi, come la Leonardo. 

Durante la giornata del 2 novembre sono state occupate in simultanea le Università di Padova e Ca’ Foscari di Venezia. Gli atenei, occupati da centinaia di studenti, hanno rotto il silenzio istituzionale delle istituzioni universitarie. Sia a Padova che a Venezia, nel giorni seguenti, sono stati contestati i senati accademici delle università, bersagliati come fortini istituzionali non disponibili ad ascoltare la voce della comunità universitaria. 

Nelle mobilitazioni che prendono vita all’interno degli atenei si legge sempre un punto in comune fondamentale: l’università così come si compone, così come si configura, non è uno spazio di tutti e tutte, ma un luogo che da parte della comunità studentesca può essere attraversato solo sotto forma di utenti, senza avere la possibilità di costruire qualcosa di concreto al suo interno al di fuori dell’offerta formativa. Essenza poter intervenire, al di fuori dei limitati strumenti di rappresentanza, insufficienti e studiati per lasciare in minoranza la componente studentesca, all’interno del dibattito politico dell’ateneo. 

La sensazione condivisa, non solo da studenti e studentesse, ma anche da dottorandi e dottorande, professori e professoresse e personale amministrativo, come dimostrano gli interventi eterogenei all’interno delle diverse occasioni di assemblea, è quella di voler ripartire da un concetto di università diverso, un concetto di università dal basso in totale antitesi con la realtà di aziendalizzazione che quotidianamente viene presentata. 

Quando durante le mobilitazioni per il diritto all’abitare, veniva rilanciata a gran voce l’inaccessibilità degli spazi e della città per la componente studentesca, denunciando la colpa dell’ateneo nel non contribuire alla risoluzione del problema del caro affitti e della mancanza di case, ma anzi di aumentarla continuando un’espansione anche al di fuori dei confini della città insostenibili, è stato necessario ed inderogabile allargare il fuoco della questione al concetto di spazio in generale, accusando l’università di non voler far attraversare i propri luoghi liberamente da studenti e studentesse se non per le attività didattiche, contribuendo a trasformare la città in un luogo nel quale per la comunità studentesca è impossibile rivestire un ruolo che non sia quello di merce da cui estrarre profitto.

Allo stesso modo è stato impossibile tenere slegata la questione della solidarietà al popolo palestinese dalla complicità dell’ateneo di Padova nel conflitto, riconosciuta negli accordi dell’ateneo con aziende dell’industria bellica come la Leonardo. Il rifiuto, il non accettare di frequentare, di essere parte, di un’università che instaurasse accordi con atenei israeliani, responsabili del genocidio in corso nel territorio palestinese, e con aziende dell’industria bellica, ha accentuato ancor di più il desiderio e la necessità di immaginare un’università libera dalla militarizzazione. 

Per un’università transfemminista

La scorsa settimana, infine, ha visto aggiungersi nelle diverse manifestazioni che sono nate in tutto il territorio nazionale, la necessità di prendere una posizione sulla questione della violenza di genere anche dal punto di vista universitario. Diverse assemblee spontanee sono nate in diverse città. A Padova e Venezia, i minuti di silenzio previsti dalle istituzioni, sono stati rotti con momenti di rumore, che hanno visto contrapporre al silenzio la necessità di prendere parola e di gridare di rabbia. 

Alle richieste delle mobilitazioni precedenti, in diverse città si è aggiunta la necessità di costruire spazi transfemministi all’interno dell’ateneo, con l’analisi di come la cultura patriarcale trovi un terreno fertile dove riprodursi all’interno dell’Università.

A partire dai saperi patriarcali e colonialisti previsti dai corsi di laurea, dove viene insegnato che l’unico corpo valido è quello del maschio bianco cis, dove viene insegnato che l’unica storia è quella bianca e colonialista, dove lo studio della questione di genere è relegato a pochi corsi di laurea, arrivando fino alla gestione delle molestie interne all’ateneo, gestite dal comitato unico di Garanzia, il quale non solo è uno strumento insufficiente, amministrato principalmente da uomini e privo di un’ottica transfemmista ma anche viola la convenzione di Istanbul nel cercare un ricongiungimento tra chi subisce la molestia e chi la agisce.

Dai tavoli di lavoro di Padova del 24 novembre è nata ancora una volta l'esigenza di organizzarsi dal basso, di costruire strumenti alternativi per pretendere spazi transfemministi e colmare un vuoto che le istituzioni hanno a più riprese dimostrato di non voler riempire, dichiarando la volontà di voler costruire uno sportello autogestito per le molestie all’interno dell’università e di voler formare un gruppo di decostruzione maschile e di presa di coscienza del ruolo delle persone socializzate come maschi nella violenza di genere. 

Se volutamente, da parte dei media e delle istituzioni, le mobilitazioni universitarie per la casa, la Palestina e contro la violenza di genere, percorrono binari separati e lontani tra loro, e di conseguenza vengono tenute separate, attraversandole ci si rende conto di quanto la realtà sia diversa da quanto viene raccontato.

Le diverse occasioni di mobilitazioni hanno saputo e sanno parlare un linguaggio comune, un linguaggio che parla alla necessità di un movimento che trovi nella lotta per la casa, nella lotta in solidarietà alla Palestina e nella lotta contro la violenza di genere, un nemico comune nella lontananza dalle necessità studentesche dell’istituzione dell’università così come viene vissuta quotidianamente.

Le assemblee, le piazze e le occupazioni parlano chiaro: il livello di aziendalizzazione delle università, aumentato in modo vertiginoso durante il periodo pandemico, ha reso gli atenei luoghi non più di sapere critico, ma vere e proprie aziende. La figura dello studente è vista come una figura da cui estrarre valore, esercitando all’interno dei luoghi dell’ateneo la stessa cultura patriarcale, colonialista e militarista che permea la quotidianità che viviamo. 

E’ evidente che in quest’ottica le mobilitazioni per la casa, in solidarietà alla Palestina e per il transfemminismo assumono l’ottica comune di non riconoscere nell’università un luogo che rappresenti la comunità accademica, assumono la necessità di riprendere il controllo degli atenei e di costruire dal basso un’università che parta dalle necessità di chi la attraversa e non dalle logiche di estrazione del profitto. 

Forse siamo di fronte al principio di un movimento universitario, questo non possiamo saperlo, starà nella capacità di organizzarsi e nei risvolti futuri dimostrarlo, ma sicuramente da quanto si legge non sarà possibile un movimento se non saprà tessere insieme ogni vertenza in una rete di intersezionalità, e per ora, come emerge dalle esperienze di molti atenei tra cui Padova, questo sembra oltre che reale e praticabile, l’unica opzione possibile.