Decolonialità e intersezionalità. Intervista a Rachele Borghi

7 / 6 / 2022

Durante il meeting internazionale dei movimenti climatici svoltosi al Centro Sociale Rivolta abbiamo intervistato Rachele Borghi, attivista queer, professora di Geografia all'Università Sorbona di Parigi e autrice di Decolonialità e privilegio (Meltemi, 2020).

Partiamo da una nozione basilare: la differenza tra colonialità e colonialismo

Io credo che sia necessario fare una riflessione a partire dai termini perché appunto colonialità e colonialismo non sono la stessa cosa: la colonialità, se vogliamo, contiene il colonialismo. Soprattutto fare la differenza tra i due termini permette di capire che la decolonizzazione, oltre al fatto che non è un processo terminato e quindi non è finita, ma soprattutto pensare che ci sia in atto una decolonizzazione o che ci sia stata una decolonizzazione, ci permette di esonerarci dall’idea di essere ancora immerse nella colonialità.

La colonialità, se possiamo riassumerla io la vedo un po’ come un insieme di cose: una sorta di mix che si è sviluppato a partire dalla conquista dell’America di Abayala – anche qua bisogna mettere l’accento sul fatto che è arrivato il momento di cambiare i nomi e che parlare di America o Americhe è comunque sempre un linguaggio coloniale e violento. E quindi dicevo dal momento della conquista si è sviluppato il sistema mondo nel quale viviamo, che è composto da diversi elementi, un po’ come – se vogliamo – un barattolo di cetriolini. Mi viene da pensare che noi siamo tutti tutte e tuttu dei cetriolini imbevuti in questa acqua che però non è acqua ma è un insieme di elementi che sono appunto il colonialismo, la violenza intrinseca nel colonialismo, il capitalismo, che si è sviluppato  dal 1492, il razzismo che è diventato parte integrante di questo sistema, categorie in rapporto di subordinazione come il genere, la classe l’età etc.

Tutti questi elementi si sono mischiati insieme e hanno formato questa colonialità che è come l’acqua dei cetriolini, è una specie di salamoia nel quale siamo immersi.

Per questo, è necessario riflettere sul fatto che non basta eliminare uno degli elementi, come non basta tirar fuori i cetriolini da questa acqua per pensare che non sappiano più di salamoia; ma è necessario pensare che questa acqua puzza e che bisogna buttarla via e rifare un’altra cosa. Anche le persone più militanti tra di noi non sono fuori dalla colonialità e quindi se non capiamo questo, è molto difficile passare a un processo di decolonializzazione, rendere la decolonialità un verbo, cioè passare all’azione per decolonializzare non solo le nostre menti ma soprattutto le nostre pratiche e il nostro modo di sentirci e stare nel mondo.

Una delle cose su cui hai insistito nel libro è la decolonizzazione della scienza e in generale dei saperi e questo tira in ballo tanto l’Accademia.

Allora una delle colonialità di cui parlano i pensatori e le pensatrici dell’America Latina è la colonialità del sapere. Loro parlano di colonialità dell’essere, colonialità del potere, colonialità del genere.

Io mi sento chiamata in causa direttamente dalla colonialità del sapere perché sono professora all’Università, lavoro alla Sorbona di Parigi e quello è un centro del sapere d’eccellenza – non tanto perché sia interessante scientificamente ma piuttosto perché simbolicamente rappresenta un sapere che non è un sapere tout court ma è un sapere occidentale ed eurocentrico; un sapere che si è formato nella modernità coloniale e si è sviluppato a partire da un corpus che non solo è un corpus cioè un insieme e un blocco di libri e testi, ma è in relazione ai corpi delle persone. Il sapere considerato vero, cioè scientifico e obiettivo, fatto attraverso dei metodi che sono poi quelli cartesiani, si è formato per conquistare gli altri contesti, le persone, i territori e per imporre la supremazia bianca ed europea sul resto del mondo. Io sono nata bianca ma non solo nata bianca, mi sono formata su un corpus di testi bianco, quindi il mio sapere è un sapere bianco e quindi è necessario riflettere su queste cose. Il primo atto per una come me che lavora all’università è decolonializzare la propria bibliografia nei corsi, per esempio, e quindi andare alla ricerca di altri saperi che non siano quelli bianchi eurocentrati ed euronormati.

Passiamo adesso al workshop che hai tenuto per il climate meeting. C’è una cosa che mi ha colpito molto ed è quella da cui sei partita, che riguarda i linguaggi, la lingua e la questione dell’anglonormatività. Ce lo spighi?

Un mondo inclusivo e giusto parte da delle pratiche e micropolitiche che possono anche essere quelle che vengono fatte nei contesti della militanza e molto spesso quando ci troviamo in contesti collettivi di militanza, ci dimentichiamo un po’ che l’inclusione passa attraverso la lingua e quindi l’accessibilità per tutte le persone presenti.

Questo, soprattutto nei contesti internazionali, passa per il non dare per scontato che l’inglese debba essere per forza la lingua veicolare e soprattutto che la lingua inglese sia conosciuta da tutte le persone.

Io ho imparato che per me fare dei coming out che possano anche rafforzare le altre persone, passa attraverso il coming out di quelle cose che vengono considerate vergognose o problematiche per una come me. Nel mio caso non è certo quello di essere lesbica ma quello di non essere english speaker per una persona che lavora nel contesto internazionale e che lavora all’università. Ogni volta fare il coming out della difficoltà con la lingua inglese passa attraverso l’idea della vergogna, di essere out of place e che va anche a aumentare la sensazione dell’impostor sindrome, quindi di essere un’impostora e di non essere in place dove sono.

La questione dell’inclusione linguistica è per me fondamentale perché è attraverso la questione della lingua che si è sviluppato il sistema occidentale, euronormato e che ha oggi una lingua imperiale – l’inglese come lingua veicolare per tutti i contesti.

Questo è problematico anche a livello della produzione culturale perché poi tutto ciò che è considerato scientifico passa attraverso l’utilizzo della lingua inglese, che per processi di pubblicazione delle c.d. riviste scientifiche, significa che le persone che non hanno un livello di lingua adatto a scrivere il sapere scientifico rimangono fuori dalle riviste e dai contesti che veicolano il sapere scientifico.

Per me creare un mondo giusto, perseguire la giustizia, passa anche attraverso la lingua e le lingue che parli proprio perché la colonialità passa attraverso l’ingiunzione a parlare certe lingue piuttosto che altre; anche la divisione tra quella che viene considerata una lingua e quella che viene considerato un dialetto – questa divisione tra lingua e dialetto è uno degli aspetti forti della colonialità- perché di fatto ha reso subalterne certe maniere di parlare ad altre, portando chi parla in una certa maniera alla categoria di sub-umano e quindi alla creazione della sub umanità.

Questa per me è una cosa importante a livello di coscientizzazione collettiva, cioè di riflettere come anche la lingua veicola dei privilegi e anche trovare delle pratiche che siano inclusive – che poi sono molto più semplici di quanto pensiamo.

Per esempio io una volta avevo organizzato un convegno femminista e c’era un banchetto dove le persone arrivavano e al posto di avere il loro badge con il proprio nome già scritto stampato, avevano un banchetto con tutti i colori con dei fogli e tu potevi scrivere sul cartoncino il tuo nome scelto così non c’era problema con la differenza tra cis-genere e persone trans e poi tu potevi mettere dei colori, c’era un codice a colori che corrispondeva alle lingue con cui ti sentivi comfortable a parlare con le altre persone così io mi relazionavo a te guardando quei colori e potevamo uscire dall’ingiunzione di parlare solo l’inglese o il francese e così vedere quali linguae potevamo avere in comune e parlare. E poi avevamo fatto anche un badge per quelli che chiamavamo i passatori e le passatrici di lingue, cioè persone che erano disposte – quando ci si incrociava, anche nei corridoi - a facilitare la conversazione tra gli altri in una lingua che tu potevi mettere come lingua in cui tu ti ponevi come passatrice.

La questione del passaggio – io da femminista- l’ho imparata da femministe chicane come Gloria Anzaldua e Cherrie Moraga che avevano scritto di fare della propria schiena un ponte e quindi metterci il corpo nelle cose, nel facilitare i passaggi e nel creare proprio questi contatti tra contesti e persone diverse.

Passerei all’ultima parte. Sulla questione su come combattere un privilegio, c’è un’espressione che mi è piaciuta moltissimo che hai usato, ovvero come passare da una posizione da alleata a una di complice.

Un’altra domanda riguarda l’intersezionalità ma intesa in termini più politici: uso un’espressione che hai usato tu cioè che non dobbiamo intendere l’intersezionalità come festival delle sfighe, e a me ha colpito molto positivamente perché credo che il riconoscere i propri privilegi e l’assenza di questi ci stimola a pensare come costruire alternative.

RB: parlare di privilegi per me è fondamentale ma è fondamentale parlarne collettivamente e negli spazi della militanza e dell’impegno politico perché parlare di privilegi, molto spesso da persone bianche e in contesti decoloniali e/o di ricerca e costruzione di mondi decoloniali mette sempre in difficoltà. È difficile dire quali sono i propri privilegi o arrivare a essere coscienti soprattutto che avere i privilegi non significa utilizzarli per opprimere. Per me il punto è capire che quando si ha certi privilegi, in particolare quello della bianchezza, si è sempre nel sistema-mondo dalla parte sbagliata. Nel senso che ovunque sei con la tua bianchezza, saturi lo spazio in cui sei e comunque partecipi e benefici del sistema di supremazia bianca.  Allora per me il punto è partire, invece che arrivare, a questo. Cioè partire dalla consapevolezza dei propri privilegi per andarci dentro, per andarci dentro profondamente e quindi capire come mobilitarli e passare dall’essere una persona alleata ad essere una persona complice. Per me questo passaggio è stato fondamentale nella mia riflessione individuale e collettiva, proprio per superare il senso di frustrazione, la white fragility e in generale appunto il senso di vertigine che ti viene quando pensi a te nel sistema mondo e benefici di tutta una serie di privilegi ma anche di oppressioni, ma questo cambia anche a seconda del tipo di contesto.

Per uscire da questa empasse, per me è stata fondamentale questa fanzine fatta da gruppi autoctoni negli Stati Uniti, che parlano della sindrome dell’alleata prendendo un po’ in giro i contesti della militanza e quindi fanno tutta una serie di tipologie dell’alleato che fa ‘così e cosà’ e chiunque ci si può ritrovare dentro. Alla fine dicono che forse invece di continuare a rimanere nella tua posizione di alleato/a sarebbe meglio che si pensi a passare alla postura di complice, cioè: colui o colei che denuncia il sistema di oppressione, lo visibilizza e lo critica dovrebbe passare alla postura di complice, che lo combatte direttamente cercando di capire dove può inserirsi per far cortocircuitare il sistema che opprime.

Questo implica una certa dose di rischio perché ti metti in gioco tu con il tuo corpo ma per me la cosa fondamentale è pensare che ci possiamo mettere in gioco con il corpo collettivo, cioè trasformare il proprio corpo individuale in un corpo collettivo per mettersi insieme nell’azione diretta.

L’azione diretta a me piace pensarla come Voltairine de Cleyre, che era un’anarchica che viveva negli Stati Uniti e nel 1912 scrive un libro che si chiama “Sull’azione diretta” dove dice che l’azione diretta è quella che fanno tutte le persone che si mettono insieme intorno ad un progetto e dice chiunque abbia espresso ad altri  la propria idea e insieme ci si è messe per poterla realizzare senza chiedere educatamente alle autorità competenti di farlo al proprio posto, ha praticato l’azione diretta.

Questo modo di pensare l’azione diretta ci permette di vedere che noi possiamo agire a scale diverse: la scala del nostro quotidiano, quello individuale in cui ci troviamo perché non viviamo sempre in contesti collettivi – tranne chi magari vive in contesti più comunitari. Ci troviamo spesso a vivere in contesti diversi, a passare gran parte del tempo in cotesti c.d. di studio, e sentirci a volte soli e non sapere come fare.

Invece noi dobbiamo pensare che noi possiamo, in tutti i contesti che attraversiamo, partire dai nostri privilegi per mobilitarci per prenderci il rischio per andare ad essere complici, e non solo alleate nelle lotte.

È necessario pensare che l’intersezionalità rischia, come tutti gli altri concetti e strumenti, di essere riassorbita e riappropriata dai contesti più mainstream ed essere utilizzata come parola che perde di significato politico. L’intersezionalità non è la somma delle sfighe, oppressioni o privilegi ma è una maniera per vedersi e posizionarsi rispetto al sistema mondo e alle sue oppressioni sistemiche come quelle della razza per esempio, del genere o persone trans. Bisogna pensare che l’intersezionalità rimanga uno strumento politico a cui fare riferimento per capire che in contesti diversi, in tempi diversi, ognuno di noi può subire delle oppressioni, ma può anche diventare oppressora delle altre persone come anche mobilitatori e mobilitatrici di privilegi e quindi riuscire ad attraversare i contesti sempre con queste consapevolezze.