Movimenti e lotte nelle migrazioni

Relazione di Nicola Grigion al seminario di Uninomade del 13 febbraio 2010

16 / 2 / 2010

Io proverò a proporre alcuni temi, qualche suggestione e probabilmente anche una serie di interrogativi che per forza di cose non potranno che rimanere aperti, facendo ovviamente tesoro di quell’enorme patrimonio di analisi teorica e di esperienza politica che molti compagne e compagni ci hanno regalato in questi anni, ma con lo sforzo di provare insieme ad afferrare ciò che oggi ancora ci sfugge.
Lo farò a partire dalla mie esperienza di lavoro in Melting Pot, un osservatorio privilegiato, cercando di non soffermarmi troppo sulla singola esperienza, la singola storia, la singola parzialità, perchè credo che in questo momento più che in altri abbiamo bisogno di fermarci a ragionare insieme con uno sguardo ampio, non per trovare sicurezze, ma per farci insieme le molte domande che la composizione sociale odierna non ci aiuta a risolvere ed a cui solo attraverso il pensiero globale, uno sguardo complessivo, possiamo provare a dare risposta.
Il punto non è solo quello di chiederci quale sarà il destino delle lotte dei migranti, ma quello di interrogarci su come possiamo posizionarci noi dentro a questo terreno che interroga tutta la società.

Parto allora da una fotografia: la fotografia di Treviso di qualche anno fa, in cui da una parte il Sindaco Gentilini cominciava a fare scuola levando le panchine dai parchi pubblici contro gli stranieri, mentre dall’altra, contemporaneamente, sempre da Treviso, lo slogan United colors of Benetton cominciava a fare il giro del mondo accompagnato dalle foto di giovani di ogni colore e provenienza.
Questa immagine credo possa descrivere con efficacia il nostro recente passato: da un lato il livore, la violenza, della legge e del discorso sull’immigrazione, quel “se ne stiano a casa loro” che spesso abbiamo sentito gridare, e dall’altro la grande occasione di business, la grande intuizione, la grande utilità e necessità delle migrazioni per il mercato del lavoro, per la produzione di ricchezza.

Quella fotografia racconta di un mondo in cui la contraddizione tra la violenza, la brutalità della gestione dell’immigrazione e la necessità del lavoro dei migranti, sembrava risolversi dentro una fase di espansione della globalizzazione che non senza spinose angolature riusciva in qualche modo a concertare queste spinte apparentemente contraddittorie, a far coabitare forzatamente questi due aspetti che non abbiamo mai descritto come un disegno diabolico, ma che sembravano essere in qualche modo armonici, complementari l’uno all’altro. In questo quadro, a fronte della centralità della messa al lavoro dei migranti, il loro protagonismo, la loro presa di parola, hanno preso forma come idea forza, come possibilità di affrontare il tema dell’immigrazione proprio a partire dai migranti stessi, che potevano ribaltare quella potenza produttiva che esprimevano, che potevano esprimere e rivendicare in quel contesto preciso la loro centralità proprio a partire dalla dimensione del lavoro. Tutto questo ha avuto la sua espressione massima nelle mobilitazioni del 1° maggio statunitense.

Ma il mondo di oggi non è più quello dello United colors of Benetton, non è più quello del mito della globalizzazione, ma invece quello della sua profonda crisi, della recessione economica, di quella che abbiamo giustamente definito una crisi strutturale ed epocale........e quell’immagine che ho proposto sembra quantomeno sbiadita.
Non tanto perchè vi sia un blocco dei fenomeni migratori, neppure perchè i migranti non siano utili al lavoro, piuttosto perchè quella contraddizione che raffigurava la nostra immagine non trova più la possibilità di essere in qualche modo gestita in avanti ed è per questo che insieme, quell’idea di protagonismo dei migranti, così come era stata immaginata sul terreno del lavoro, sembra non essere in grado da sola di prefigurare nuovi orizzonti.

Perchè ciò che sta accadendo non riguarda solo le condizioni di vita e di sfruttamento dei migranti, la crisi lavora molto più in profondità sul corpo sociale, lo muta, lo trasforma, vi imprime tracce, nuove segmentazioni, produce effetti dal segno contraddittorio.

Per questo io credo sia fondamentale intanto partire dalla considerazione che il tema dell’immigrazione non ha e non può avere un unico punto di vista utile a spiegarlo, ma ha piuttosto molte angolazioni, molte prospettive di visuale di cui abbiamo bisogno, tutte parimenti importanti, tutte utili a disegnare la complessità di una questione di tale portata. E molte di queste angolazioni rivelano caratteri contraddittori che se non aggiorniamo la gradazione delle lenti con cui guardiamo la realtà, rischiamo di non mettere a fuoco.

Provo allora a mettere a tema due questioni che a mio avviso sono profondamente investite dalla crisi su questo terreno. Quella del lavoro e quella della cittadinanza che nel corso della giornata verranno ripresi.

Il cosiddetto lavoro migrante in primo luogo
Nel corso degli anni abbiamo giustamente individuato il nesso inscindibile tra il governo dei flussi migratori e la messa al lavoro dei migranti.
Oggi non si tratta di negare tutto questo. Ma di comprendere che il contesto generale, globale, dentro al quale ci muoviamo è profondamente cambiato come ci racconta quella foto.
Più volte in questi mesi abbiamo cercato di interrogarci sulla validità del nesso immigrazione, lavoro, lotte.
Alcune cose su questo aspetto vanno chiarite, perchè spesso sono oggetto di accesi dibattiti e ambiguità: qui non è in discussione il fatto di affermare o meno se i migranti siano parte del precariato, se vivono condizioni specifiche o se le leggi contro di loro sono utili o meno a sfruttarli, o peggio, se è possibile ed auspicabile un loro protagonismo. Questo mi sembra abbastanza ovvio.

Non si tratta insomma di dire che con la crisi il lavoro non c’è più per cui il nodo della gestione, del controllo, della violenza sulle migrazioni non è più legato alla messa al lavoro, allo sfruttamento. Mi sembra abbastanza chiaro che i dispositivi di normazione sono sempre dispositivi in primo luogo di messa al lavoro, di ricatto. Semmai si intensificano dentro la crisi.
Non a caso, oggi più di prima, arrivano all’estremo meccanismi di regolamentazione del mercato del lavoro che sempre ci sono stati ma che più di prima valgono e si accentuano dentro la crisi. L’operazione Rosarno ne è un esempio. Così come sappiamo che più di prima vengono eseguite le espulsioni, viene esercitata la loro minaccia, proprio a confermarne il ruolo nella gestione del mercato del lavoro (fino a determinare l’espulsione della vita dal territorio) che ha il governo delle migrazioni.
Il problema è molto più semplice, banale se volete. La domanda è: è possibile oggi individuare nel lavoro, nella centralità dei migranti per il mercato del lavoro e nella loro particolare condizione lo spazio principe di ricomposizione delle lotte, o forse è più complesso lo sforzo che dobbiamo fare?

E’ innegabile che tra governo dei flussi migratori e sfruttamento ci sia un nesso indissolubile, ma è altrettanto vero credo che oggi questo non è più da solo sufficiente a noi per trovare un nuovo spazio di ricomposizione, delle lotte, dei conflitti che parli alla società nella sua interezza. Ed è di questo che abbiamo bisogno.
Di forme e di pratiche di stare insieme nelle lotte che parlino alla società nel suo insieme.
Le lotte dei migranti ci sono, su diversi terreni, con diverse angolature.

A Rosarno per esempio vi è stata ribellione dallo sfruttamento dei migranti, ma è vero anche che il risultato di quella cosa è stato l’affermazione ancora una volta della chiusura, del paradigma securitario e legalitario e non il riconoscimento di una sanatoria.
Come è vero che altre volte vi sono momenti ricompositivi intorno a questioni che nulla hanno a che vedere con la libertà, con un orizzonte di libertà e di liberazione praticabile.

Proviamo allora a riformularci la domanda di prima in maniera diversa:
Perchè a fronte dell’incredibile stretta nei confronti dei migranti portata dal pacchetto sicurezza o da altre novità legislative, non stiamo assistendo a questa ricomposizione in grado di produrre orizzonti, indicazioni?
Forse perchè il terreno di confronto che propone l’immigrazione va ben oltre la condizione dei migranti e noi abbiamo bisogno di affrontare su questo livello la partita.

Perchè ciò che la crisi ha prodotto è la rottura di qualcosa che va oltre l’intensificazione delle violenze e delle brutalità nei confronti dei migranti, che va oltre l’espulsione dal mercato del lavoro e dallo Stato di moltissimi migranti ma parla al territorio, alla composizione sociale che lo abita, mettendone a nudo i tessuti nervosi, lavorando sulle identità, producendo mutazioni antropologiche. Lo spazio, in questo scenario, va ricercato dentro a paradigmi nuovi, senza negare tutte le contraddizioni che emergono e che fanno dell’immigrazione un terreno scivoloso, scomodo, a volte di arretramento se affrontato in maniera ideologica, attrezzandoci per affrontare queste contraddizioni senza rifugiarci in schemi scontati che ci vengono continuamente riproposti.
Lo schema razzismo anti-razzismo per esempio, che non ci aiuta sicuramente in questo momento a chiarire le contraddizioni ma piuttosto rischia sempre di alimentarle.

Oggi più che mai insomma immigrazione vuol dire lavoro e sfruttamento dei migranti certo, ma insieme vuol dire complessivamente società, divisioni, frammentazioni, vuol dire anche brutalità, sollecita questioni come identità e cultura, differenze e territorio, e lo fa in maniera trasversale e dirompente: l’immigrazione è un modo in cui si produce divisione e governo su tutti noi.

Gerarchie della Cittadinanza
v Vengo così ad un altro tema che credo sia utile alla discussione, quello della cittadinanza, intesa non tanto come l’acquisizione della cittadinanza italiana, ma come quella stratificazione gerarchica, quel posizionamento a scalare della cittadinanza che proprio il governo dell’immigrazione ha disegnato.
Credo che questo tema, che molte compagne e compagni hanno proposto e ci hanno in questi anni aiutato ad approfondire, sia oggi più che mai centrale anche per capire ciò che abbiamo di fronte.
Quel processo di costruzione della cittadinanza stratificata è a tutti gli effetti palpabile, massificato, percettibile, maturo anche e soprattutto ha stratificato la composizione degli immigrati.
Facciamo un piccolo passo indietro.
Spesso, sul terreno dell’immigrazione richiamiamo il nesso tra permesso di soggiorno e mercato del lavoro come questione centrale, dominante. Forse è il caso di sottolineare come la composizione stessa dei migranti sia assolutamente stratificata anche su questo terreno, come, oltre alla presenza di irregolari o regolari, titolari di normali permessi di soggiorno, sia sempre più imponente il numero di stranieri in possesso di titoli di soggiorno di lungo periodo, a tempo indeterminato, non condizionati cioè al possesso di un contratto di lavoro, che in qualche modo si sottraggono a quel ricatto che spesso abbiamo richiamato.
Ancora, è cresciuto in maniera esponenziale il numero di decreti per la concessione della cittadinanza italiana, come ovviamente (e questo viene spesso ricordato) è diventato imponente il numero di giovani nati o cresciuti qui.

E non a caso sono state ristrette tutte le normative che comportano la possibilità di passaggio da uno ad un altro status verso l’alto, mentre è sempre più aperta la possibilità di discesa, verso il basso. Questo racconta di come il tema del lavoro e del ricatto spostino sempre di più il baricentro verso una gamma sempre più complessa ed articolata di fattori. A breve per ottenere la carta di soggiorno sarà necessario sostenere un test di lingua, sulle future modifiche della legge sulla cittadinanza ci sono pesanti ombre, il livello di integrazione ed il conseguente diritto o meno di restare sarà condizionato da una valutazione di punteggi, fino ad un anno fa si discuteva di permettere la denuncia di chi riceveva cure senza un permesso di soggiorno.

Tutto ciò ci dice che vi è un tentativo di recuperare forme di governo, di messa ai margini, che la strutturalità e la consistenza dei fenomeni migratori hanno messo in discussione, e di farlo attraverso strumenti inediti (la lingua, le valutazioni sul livello di integrazione, gli stili di vita, i livelli formativi, la gamma di saperi e conoscenze, etc, etc).
Dall’altro lato sappiamo anche che a questa imponente e vessatoria normativa corrisponde sempre un terreno di negoziazione variabile a seconda delle esigenze e dell’utilità del momento. Corrispondono maglie che si aprono e si chiudono nella prassi, in maniera discrezionale, a seconda delle esigenze di compressione o di decompressione degli spazi di libertà e delle loro potenziali rivendicazioni.

Questa stratificazione nella composizione delle gerarchie della cittadinanza, oltre a definire meglio un quadro più composito, parla anche dell’impossibilità di pensare ai migranti come a qualcosa di omogeneo, o peggio, per alcuni, al nuovo soggetto politico da sostituire alla classe operaia.

Ma la gerarchia della cittadinanza non è solo il frutto delle disposizioni normative che regolano l’immigrazione e delle posizioni di subordinazione occupate nel mercato del lavoro dai migranti, non è uno spazio gerarchico abitato solo dai migranti, ma da noi tutti.
Penso che oggi possiamo spingerci fino a dire con convinzione che la cittadinanza, intesa come campo di tensione, come spazio stratificato, è stata profondamente trasformata dalla crisi, dai mutamenti antropologici della composizione sociale che ne è investita. L’immigrazione quindi non è semplicemente il mondo degli immigrati, ma sembra essere semmai la misura della qualità delle relazioni dentro a questo spazio diversificato, la misura della possibilità di ricomposizione che abitano questo campo di tensione che è la cittadinanza gerarchica.
E’ sicuramente l’unità con cui si misura il livello dei diritti di cittadinanza che vengono maneggiati, ristretti e allargati nei confronti di tutti noi proprio utilizzando il tema dell’immigrazione.
Insomma, attraverso l’immigrazione oggi si determina l’allargamento o il restringimento dei diritti, delle libertà di tutti.

Proviamo allora a tornare all’inizio, a quella necessità di avere uno sguardo complessivo su ciò che sta avvenendo.
La crisi e i nuovi assetti globali che sta prefigurando non sono cosa da poco. Quando dicevamo delle contraddizioni dell’immigrazione non consideravamo solo il fatto che sull’immigrazione non c’è il consenso. Dicevamo invece che nelle lotte, nei movimenti, l’immigrazione ha bisogno di trovare un nuovo modo di essere affrontata, in questa che possiamo considerare se non una fase di transizione, un momento sfocato, quanto meno perchè non vi è sintesi, non vi è chiarezza possibile in via definitiva.

Su questo livello possiamo affrontare questo tema. Sapendo che non vi sono risposte chiare e che possiamo solo cominciare a mettere in campo tentativi che escano dagli schemi classici che fino a qui abbiamo proposto.
Come siamo in grado di coniugare le lotte del territorio, della difesa del territorio senza negare l’universalità dei diritti che dal punto di vista etico e politico è nel nostro DNA ed a cui aspiriamo?

Le lotte dei migranti ci sono, i migranti ci sono nelle lotte, e forse sempre più l’orizzonte, anche se ancora nebuloso, è quello di guardare alla composizione meticcia della società che ci circonda e di pensare anche al protagonismo dei migranti dentro le lotte sulla precarietà, sul reddito, contro la crisi, per la libertà e l’indipendenza, in maniera più compiuta di un tempo, con tutta la potenza che questo rappresenta, ma con tutti i problemi che questo comporta. Un nuovo livello insomma.
Altrimenti non si capisce come mai di fronte ad una rivolta delle dimensioni di quella di Rosarno ed alle rivelazioni che ne sono conseguite, ci siamo trovati di fronte alla vittoria ancora del paradigma della sicurezza, al destino delle deportazioni e non ad una sanatoria.

Il primo marzo in questo senso rappresenta una grande occasione perchè pone un interrogativo che è assolutamente inaggirabile costringendo noi tutti a confrontarci sul terreno dello sciopero, del lavoro, dello sciopero e della mobilitazione oltre il lavoro e delle sue possibili forme dentro la crisi.
In secondo luogo perchè fin da subito e non è un caso, si è presentata la necessità di guardare a quella giornata come qualcosa che riguarda tutti, stranieri e non.

Non sarà un dia sin nosotros, quel mondo, lo abbiamo detto, non c’è più, ma sicuramente una grande occasione di inchiesta, di comprensione.
Perchè di fronte a tutto quello che sta avvenendo non si esprimono lotte e conflitti dal segno positivo?
Io credo che abbiamo fatto bene a credere nel primo marzo, nel fatto per esempio che a volte capitano cose che cambiano di segno la realtà quando tutto intorno sembra dirti che non è possibile.
Saremmo abbastanza sciocchi però, anche se è sempre doveroso crederci, a pensare che il primo marzo possa essere una giornata di sciopero da tutto, per di più di tutti. Per tutto quello che abbiamo detto, perchè ancora c’è qualcosa che difficilmente afferriamo in questa fase di transizione e che l’immigrazione ci ritorna come problema.

La crisi, potremmo dire, ci ripropone il tema della ricomposizione, producendo però una scomposizione sociale senza precedenti.

Forse allora potremmo dire che non esiste ricomposizione dei migranti intorno al nodo dell’immigrazione, o del lavoro migrante, ma piuttosto sulla base di interessi. Ciò che stiamo vedendo è che spesso i migranti si coagulano intorno a interessi dal segno contradditorio (a volte positivo, altre meno), intorno a questioni più o meno problematiche come il lavoro, la casa, ma anche la religione, l’identità, etc, etc, etc; che non esiste in questo senso lotta dei migranti che assumendo la specificità della propria condizione tout court riesca a proporre un orizzonte di libertà e di liberazione senza scontrarsi con le trasformazioni della società nella sua interezza.
Questo non significa che dall’altro lato sia possibile una ricomposizione generica dei migrantio agitando il tema della precarietà, ma che piuttosto la precarietà abbia diverse inclinazioni di cui l’immigrazione non è una semplice specificità, ma una condizione specifica trasversale.

Dall’altro lato non esiste possibilità di lotte e movimenti che non guardino alla composizione meticcia della nostra società, a quella composita gerarchia della cittadinanza che ho cercato di descrivere, ed al nodo dell’immigrazione come terreno di misurazione dei rapporti di forza che oggi va affrontato dentro a questo quadro di scomposizione.

Perchè crediamo che autonomia, indipendenza nel comune, dentro la crisi, o sono l’orizzonte per tutti o non saranno mai....

Uninomade 13 febbraio 2010 - Nicola Grigion