Io proverò a proporre alcuni temi, qualche suggestione e probabilmente
anche una serie di interrogativi che per forza di cose non potranno che
rimanere aperti, facendo ovviamente tesoro di quell’enorme patrimonio di
analisi teorica e di esperienza politica che molti compagne e compagni
ci hanno regalato in questi anni, ma con lo sforzo di provare insieme ad
afferrare ciò che oggi ancora ci sfugge.
Lo farò a partire dalla mie esperienza di lavoro in Melting Pot, un
osservatorio privilegiato, cercando di non soffermarmi troppo sulla
singola esperienza, la singola storia, la singola parzialità, perchè
credo che in questo momento più che in altri abbiamo bisogno di fermarci
a ragionare insieme con uno sguardo ampio, non per trovare sicurezze,
ma per farci insieme le molte domande che la composizione sociale
odierna non ci aiuta a risolvere ed a cui solo attraverso il pensiero
globale, uno sguardo complessivo, possiamo provare a dare risposta.
Il punto non è solo quello di chiederci quale sarà il destino delle
lotte dei migranti, ma quello di interrogarci su come possiamo
posizionarci noi dentro a questo terreno che interroga tutta la società.
Parto allora da una fotografia: la fotografia di Treviso
di qualche anno fa, in cui da una parte il Sindaco Gentilini cominciava
a fare scuola levando le panchine dai parchi pubblici contro gli
stranieri, mentre dall’altra, contemporaneamente, sempre da Treviso, lo
slogan United colors of Benetton cominciava a fare
il giro del mondo accompagnato dalle foto di giovani di ogni colore e
provenienza.
Questa immagine credo possa descrivere con efficacia il nostro recente
passato: da un lato il livore, la violenza, della legge e del discorso
sull’immigrazione, quel “se ne stiano a casa loro”
che spesso abbiamo sentito gridare, e dall’altro la grande occasione di
business, la grande intuizione, la grande utilità e necessità delle
migrazioni per il mercato del lavoro, per la produzione di ricchezza.
Quella fotografia racconta di un mondo in cui la contraddizione tra la violenza, la brutalità della gestione dell’immigrazione e la necessità del lavoro dei migranti, sembrava risolversi dentro una fase di espansione della globalizzazione che non senza spinose angolature riusciva in qualche modo a concertare queste spinte apparentemente contraddittorie, a far coabitare forzatamente questi due aspetti che non abbiamo mai descritto come un disegno diabolico, ma che sembravano essere in qualche modo armonici, complementari l’uno all’altro. In questo quadro, a fronte della centralità della messa al lavoro dei migranti, il loro protagonismo, la loro presa di parola, hanno preso forma come idea forza, come possibilità di affrontare il tema dell’immigrazione proprio a partire dai migranti stessi, che potevano ribaltare quella potenza produttiva che esprimevano, che potevano esprimere e rivendicare in quel contesto preciso la loro centralità proprio a partire dalla dimensione del lavoro. Tutto questo ha avuto la sua espressione massima nelle mobilitazioni del 1° maggio statunitense.
Ma il mondo di oggi non è più quello dello United colors of Benetton, non è più quello del mito
della globalizzazione, ma invece quello della sua profonda crisi, della
recessione economica, di quella che abbiamo giustamente definito una
crisi strutturale ed epocale........e quell’immagine che ho proposto
sembra quantomeno sbiadita.
Non tanto perchè vi sia un blocco dei fenomeni migratori, neppure perchè
i migranti non siano utili al lavoro, piuttosto perchè quella
contraddizione che raffigurava la nostra immagine non trova più la
possibilità di essere in qualche modo gestita in avanti ed è per questo
che insieme, quell’idea di protagonismo dei migranti, così come era
stata immaginata sul terreno del lavoro, sembra non essere in grado da
sola di prefigurare nuovi orizzonti.
Perchè ciò che sta accadendo non riguarda solo le condizioni di vita e di sfruttamento dei migranti, la crisi lavora molto più in profondità sul corpo sociale, lo muta, lo trasforma, vi imprime tracce, nuove segmentazioni, produce effetti dal segno contraddittorio.
Per questo io credo sia fondamentale intanto partire dalla considerazione che il tema dell’immigrazione non ha e non può avere un unico punto di vista utile a spiegarlo, ma ha piuttosto molte angolazioni, molte prospettive di visuale di cui abbiamo bisogno, tutte parimenti importanti, tutte utili a disegnare la complessità di una questione di tale portata. E molte di queste angolazioni rivelano caratteri contraddittori che se non aggiorniamo la gradazione delle lenti con cui guardiamo la realtà, rischiamo di non mettere a fuoco.
Provo allora a mettere a tema due questioni che a mio avviso sono profondamente investite dalla crisi su questo terreno. Quella del lavoro e quella della cittadinanza che nel corso della giornata verranno ripresi.
Il cosiddetto lavoro migrante in
primo luogo
Nel corso degli anni abbiamo giustamente individuato il nesso
inscindibile tra il governo dei flussi migratori e la messa al lavoro
dei migranti.
Oggi non si tratta di negare tutto questo. Ma di comprendere che il
contesto generale, globale, dentro al quale ci muoviamo è profondamente
cambiato come ci racconta quella foto.
Più volte in questi mesi abbiamo cercato di interrogarci sulla validità
del nesso immigrazione, lavoro, lotte.
Alcune cose su questo aspetto vanno chiarite, perchè spesso sono oggetto
di accesi dibattiti e ambiguità: qui non è in discussione il fatto di
affermare o meno se i migranti siano parte del precariato, se vivono
condizioni specifiche o se le leggi contro di loro sono utili o meno a
sfruttarli, o peggio, se è possibile ed auspicabile un loro
protagonismo. Questo mi sembra abbastanza ovvio.
Non si tratta insomma di dire che con la crisi il lavoro
non c’è più per cui il nodo della gestione, del controllo, della
violenza sulle migrazioni non è più legato alla messa al lavoro, allo
sfruttamento. Mi sembra abbastanza chiaro che i dispositivi di
normazione sono sempre dispositivi in primo luogo di messa al lavoro, di
ricatto. Semmai si intensificano dentro la crisi.
Non a caso, oggi più di prima, arrivano all’estremo meccanismi di
regolamentazione del mercato del lavoro che sempre ci sono stati ma che
più di prima valgono e si accentuano dentro la crisi. L’operazione
Rosarno ne è un esempio. Così come sappiamo che più di prima vengono
eseguite le espulsioni, viene esercitata la loro minaccia, proprio a
confermarne il ruolo nella gestione del mercato del lavoro (fino a
determinare l’espulsione della vita dal territorio) che ha il governo
delle migrazioni.
Il problema è molto più semplice, banale se volete. La domanda è: è
possibile oggi individuare nel lavoro, nella centralità dei migranti per
il mercato del lavoro e nella loro particolare condizione lo spazio
principe di ricomposizione delle lotte, o forse è più complesso lo
sforzo che dobbiamo fare?
E’ innegabile che tra governo dei flussi migratori e
sfruttamento ci sia un nesso indissolubile, ma è altrettanto vero credo
che oggi questo non è più da solo sufficiente a noi per trovare un nuovo
spazio di ricomposizione, delle lotte, dei conflitti che parli alla
società nella sua interezza. Ed è di questo che abbiamo bisogno.
Di forme e di pratiche di stare insieme nelle lotte che parlino alla
società nel suo insieme.
Le lotte dei migranti ci sono, su diversi terreni, con diverse
angolature.
A Rosarno per esempio vi è stata ribellione dallo
sfruttamento dei migranti, ma è vero anche che il risultato di quella
cosa è stato l’affermazione ancora una volta della chiusura, del
paradigma securitario e legalitario e non il riconoscimento di una
sanatoria.
Come è vero che altre volte vi sono momenti ricompositivi intorno a
questioni che nulla hanno a che vedere con la libertà, con un orizzonte
di libertà e di liberazione praticabile.
Proviamo allora a riformularci la domanda di prima in
maniera diversa:
Perchè a fronte dell’incredibile stretta nei confronti dei migranti
portata dal pacchetto sicurezza o da altre novità legislative, non
stiamo assistendo a questa ricomposizione in grado di produrre
orizzonti, indicazioni?
Forse perchè il terreno di confronto che propone l’immigrazione va ben
oltre la condizione dei migranti e noi abbiamo bisogno di affrontare su
questo livello la partita.
Perchè ciò che la crisi ha prodotto è la rottura di
qualcosa che va oltre l’intensificazione delle violenze e delle
brutalità nei confronti dei migranti, che va oltre l’espulsione dal
mercato del lavoro e dallo Stato di moltissimi migranti ma parla al
territorio, alla composizione sociale che lo abita, mettendone a nudo i
tessuti nervosi, lavorando sulle identità, producendo mutazioni
antropologiche. Lo spazio, in questo scenario, va ricercato dentro a
paradigmi nuovi, senza negare tutte le contraddizioni che emergono e che
fanno dell’immigrazione un terreno scivoloso, scomodo, a volte di
arretramento se affrontato in maniera ideologica, attrezzandoci per
affrontare queste contraddizioni senza rifugiarci in schemi scontati che
ci vengono continuamente riproposti.
Lo schema razzismo anti-razzismo per esempio, che non ci aiuta
sicuramente in questo momento a chiarire le contraddizioni ma piuttosto
rischia sempre di alimentarle.
Oggi più che mai insomma immigrazione vuol dire lavoro e sfruttamento dei migranti certo, ma insieme vuol dire complessivamente società, divisioni, frammentazioni, vuol dire anche brutalità, sollecita questioni come identità e cultura, differenze e territorio, e lo fa in maniera trasversale e dirompente: l’immigrazione è un modo in cui si produce divisione e governo su tutti noi.
Gerarchie della Cittadinanza
v
Vengo così ad un altro tema che credo sia utile alla discussione, quello
della cittadinanza, intesa non tanto come l’acquisizione della
cittadinanza italiana, ma come quella stratificazione gerarchica, quel
posizionamento a scalare della cittadinanza che proprio il governo
dell’immigrazione ha disegnato.
Credo che questo tema, che molte compagne e compagni hanno proposto e ci
hanno in questi anni aiutato ad approfondire, sia oggi più che mai
centrale anche per capire ciò che abbiamo di fronte.
Quel processo di costruzione della cittadinanza stratificata è a tutti
gli effetti palpabile, massificato, percettibile, maturo anche e
soprattutto ha stratificato la composizione degli immigrati.
Facciamo un piccolo passo indietro.
Spesso, sul terreno dell’immigrazione richiamiamo il nesso tra permesso
di soggiorno e mercato del lavoro come questione centrale, dominante.
Forse è il caso di sottolineare come la composizione stessa dei migranti
sia assolutamente stratificata anche su questo terreno, come, oltre
alla presenza di irregolari o regolari, titolari di normali permessi di
soggiorno, sia sempre più imponente il numero di stranieri in possesso
di titoli di soggiorno di lungo periodo, a tempo indeterminato, non
condizionati cioè al possesso di un contratto di lavoro, che in qualche
modo si sottraggono a quel ricatto che spesso abbiamo richiamato.
Ancora, è cresciuto in maniera esponenziale il numero di decreti per la
concessione della cittadinanza italiana, come ovviamente (e questo viene
spesso ricordato) è diventato imponente il numero di giovani nati o
cresciuti qui.
E non a caso sono state ristrette tutte le normative che comportano la possibilità di passaggio da uno ad un altro status verso l’alto, mentre è sempre più aperta la possibilità di discesa, verso il basso. Questo racconta di come il tema del lavoro e del ricatto spostino sempre di più il baricentro verso una gamma sempre più complessa ed articolata di fattori. A breve per ottenere la carta di soggiorno sarà necessario sostenere un test di lingua, sulle future modifiche della legge sulla cittadinanza ci sono pesanti ombre, il livello di integrazione ed il conseguente diritto o meno di restare sarà condizionato da una valutazione di punteggi, fino ad un anno fa si discuteva di permettere la denuncia di chi riceveva cure senza un permesso di soggiorno.
Tutto ciò ci dice che vi è un tentativo di recuperare
forme di governo, di messa ai margini, che la strutturalità e la
consistenza dei fenomeni migratori hanno messo in discussione, e di
farlo attraverso strumenti inediti (la lingua, le valutazioni sul
livello di integrazione, gli stili di vita, i livelli formativi, la
gamma di saperi e conoscenze, etc, etc).
Dall’altro lato sappiamo anche che a questa imponente e vessatoria
normativa corrisponde sempre un terreno di negoziazione variabile a
seconda delle esigenze e dell’utilità del momento. Corrispondono maglie
che si aprono e si chiudono nella prassi, in maniera discrezionale, a
seconda delle esigenze di compressione o di decompressione degli spazi
di libertà e delle loro potenziali rivendicazioni.
Questa stratificazione nella composizione delle gerarchie della cittadinanza, oltre a definire meglio un quadro più composito, parla anche dell’impossibilità di pensare ai migranti come a qualcosa di omogeneo, o peggio, per alcuni, al nuovo soggetto politico da sostituire alla classe operaia.
Ma la gerarchia della cittadinanza non è solo il frutto
delle disposizioni normative che regolano l’immigrazione e delle
posizioni di subordinazione occupate nel mercato del lavoro dai
migranti, non è uno spazio gerarchico abitato solo dai migranti, ma da
noi tutti.
Penso che oggi possiamo spingerci fino a dire con convinzione che la
cittadinanza, intesa come campo di tensione, come spazio stratificato, è
stata profondamente trasformata dalla crisi, dai mutamenti
antropologici della composizione sociale che ne è investita.
L’immigrazione quindi non è semplicemente il mondo degli immigrati, ma
sembra essere semmai la misura della qualità delle relazioni dentro a
questo spazio diversificato, la misura della possibilità di
ricomposizione che abitano questo campo di tensione che è la
cittadinanza gerarchica.
E’ sicuramente l’unità con cui si misura il livello dei diritti di
cittadinanza che vengono maneggiati, ristretti e allargati nei confronti
di tutti noi proprio utilizzando il tema dell’immigrazione.
Insomma, attraverso l’immigrazione oggi si determina l’allargamento o il
restringimento dei diritti, delle libertà di tutti.
Proviamo allora a tornare all’inizio, a quella necessità
di avere uno sguardo complessivo su ciò che sta avvenendo.
La crisi e i nuovi assetti globali che sta prefigurando non sono cosa da
poco. Quando dicevamo delle contraddizioni dell’immigrazione non
consideravamo solo il fatto che sull’immigrazione non c’è il consenso.
Dicevamo invece che nelle lotte, nei movimenti, l’immigrazione ha
bisogno di trovare un nuovo modo di essere affrontata, in questa che
possiamo considerare se non una fase di transizione, un momento sfocato,
quanto meno perchè non vi è sintesi, non vi è chiarezza possibile in
via definitiva.
Su questo livello possiamo affrontare questo tema.
Sapendo che non vi sono risposte chiare e che possiamo solo cominciare a
mettere in campo tentativi che escano dagli schemi classici che fino a
qui abbiamo proposto.
Come siamo in grado di coniugare le lotte del territorio, della difesa
del territorio senza negare l’universalità dei diritti che dal punto di
vista etico e politico è nel nostro DNA ed a cui aspiriamo?
Le lotte dei migranti ci sono, i migranti ci sono nelle
lotte, e forse sempre più l’orizzonte, anche se ancora nebuloso, è
quello di guardare alla composizione meticcia della società che ci
circonda e di pensare anche al protagonismo dei migranti dentro le lotte
sulla precarietà, sul reddito, contro la crisi, per la libertà e
l’indipendenza, in maniera più compiuta di un tempo, con tutta la
potenza che questo rappresenta, ma con tutti i problemi che questo
comporta. Un nuovo livello insomma.
Altrimenti non si capisce come mai di fronte ad una rivolta delle
dimensioni di quella di Rosarno ed alle rivelazioni che ne sono
conseguite, ci siamo trovati di fronte alla vittoria ancora del
paradigma della sicurezza, al destino delle deportazioni e non ad una
sanatoria.
Il primo marzo in questo senso rappresenta una grande
occasione perchè pone un interrogativo che è assolutamente inaggirabile
costringendo noi tutti a confrontarci sul terreno dello sciopero, del
lavoro, dello sciopero e della mobilitazione oltre il lavoro e delle sue
possibili forme dentro la crisi.
In secondo luogo perchè fin da subito e non è un caso, si è presentata
la necessità di guardare a quella giornata come qualcosa che riguarda
tutti, stranieri e non.
Non sarà un dia sin nosotros, quel mondo, lo abbiamo
detto, non c’è più, ma sicuramente una grande occasione di inchiesta, di
comprensione.
Perchè di fronte a tutto quello che sta avvenendo non si esprimono lotte
e conflitti dal segno positivo?
Io credo che abbiamo fatto bene a credere nel primo marzo, nel fatto per
esempio che a volte capitano cose che cambiano di segno la realtà
quando tutto intorno sembra dirti che non è possibile.
Saremmo abbastanza sciocchi però, anche se è sempre doveroso crederci, a
pensare che il primo marzo possa essere una giornata di sciopero da
tutto, per di più di tutti. Per tutto quello che abbiamo detto, perchè
ancora c’è qualcosa che difficilmente afferriamo in questa fase di
transizione e che l’immigrazione ci ritorna come problema.
La crisi, potremmo dire, ci ripropone il tema della ricomposizione, producendo però una scomposizione sociale senza precedenti.
Forse allora potremmo dire che non esiste ricomposizione
dei migranti intorno al nodo dell’immigrazione, o del lavoro migrante,
ma piuttosto sulla base di interessi. Ciò che stiamo vedendo è che
spesso i migranti si coagulano intorno a interessi dal segno
contradditorio (a volte positivo, altre meno), intorno a questioni più o
meno problematiche come il lavoro, la casa, ma anche la religione,
l’identità, etc, etc, etc; che non esiste in questo senso lotta dei
migranti che assumendo la specificità della propria condizione tout
court riesca a proporre un orizzonte di libertà e di liberazione senza
scontrarsi con le trasformazioni della società nella sua interezza.
Questo non significa che dall’altro lato sia possibile una
ricomposizione generica dei migrantio agitando il tema della precarietà,
ma che piuttosto la precarietà abbia diverse inclinazioni di cui
l’immigrazione non è una semplice specificità, ma una condizione
specifica trasversale.
Dall’altro lato non esiste possibilità di lotte e movimenti che non guardino alla composizione meticcia della nostra società, a quella composita gerarchia della cittadinanza che ho cercato di descrivere, ed al nodo dell’immigrazione come terreno di misurazione dei rapporti di forza che oggi va affrontato dentro a questo quadro di scomposizione.
Perchè crediamo che autonomia, indipendenza nel comune, dentro la crisi, o sono l’orizzonte per tutti o non saranno mai....