Non so se sono la persona più adatta perché difetto in sistematicità e
capacitò espositiva chiara, lineare e puntiforme di cui invece hanno
dato prova gli interventi che mi hanno preceduto.
Sto cercando di
individuare dei fili comuni degli interventi di oggi e mi veniva in
mente un saggio di Said di una quindicina di anni fa che si chiama Travelling theory, in cui Said cercava di far vedere come le teorie spostandosi e viaggiando di luogo in luogo
quasi per impollinazione si arricchissero, si riarticolassero, si
ridefinissero. Dicio questo perché esiste secondo me la
necessità, che trapela più o meno da tutte le relaizoni che abbiamo
sentito, non solo di uno sforzo da parte nostra di traduzione e di
riarticolazione, ma anche di una pratica continua
di traduzione e di riarticolazione che contraddistingue quello che si
può definire il protagonismo migrante.
Invece di parlare di
travelling theory potremmo parlare di travelling labour, ovvero di cosa si porta dietro
quando viaggia il lavoro vivo, cosa riarticola,
cosa ridefinisce, cosa inventa nel movimento e nello spostamento il
lavoro migrante.
Ciò non concerne tanto le teorie ma
riguarda le pratiche.
Se è emerso un elemento costante da quanto fino ad
adesso è stato detto, è quello di avere di fronte dei quadri in
movimento. Il movimento caratterizza tutti gli
ambiti analizzati, e a questo movimento si somma un ulteriore fattore di
accelerazione e ulteriore movimento che è la pratica di movimento che
definisce l’esperienza dei migranti. Abbiamo delle pratiche di
movimento che attraversano dei luoghi in movimento che riguardano la
cittadinanza – che oggi è davvero forse concepibile solo in termini di
crisi – i confini - che si muovono oggi, non sono più entità fisse,
statiche, lineari e territoriali, come
ha spiegato bene Alessandra nel far vedere che cosa succede a
questa enorme macchina di cattura che è stata messa in atto. C’è una
cartina che io di solito faccio vedere sempre, quella realizzata da
migreurop, che restituisce la geografia dei centri di detenzione e dei
campi che, come fosse una malattia esantematica, caratterizzano la mappa
de territorio europeo, e che dimostrano il movimento continuo dei
confini, la continua delocalizzazione ed
esternalizzazione dei confini che però è anche una
riterritorializzazio-ne potente: i confini si
deterritorializzano ma al contempo si riterritorializzano.
Quindi pratiche in movimento su luoghi in movimento che riguardano i
diritti, la cittadinanza, il lavoro e anche il razzismo, cioè quel
supplemento continuo che riproduce rigorose gerachie e stratificazioni
all’interno di un territorio e non solo all’interno di un territorio, ma
di uno spazio in generale.
In sintesi, secondo me, quello che si
può desumere è che dalle migrazioni emerge in
maniera più chiara una possibile geografia della crisi.
Una
geografia della crisi che vuol dire una definizione quasi toponomastica
della crisi, un tentativo di stabilire una cartografia possibile di
quella che è la crisi attuale.
Le migrazioni
sono il luogo centrale, il cronotopo della crisi, dove le categorie di
spazio e tempo si sintetizzano; i migranti sono i soggetti barrati della
crisi, ma non solo questo. Perché quello che emerge poi,
contro ogni lettura pigra ovvia o scontata della crisi è che, con un
effetto dirompente, i migranti non assecondano teorie scontate o letture
consolidate, i migranti non tornano a casa,
riaffermano un diritto di stare, un right to stay,
modo specifico che caratterizza la presenza dei migranti nella crisi.
Sandro
Chignola ha portato alla luce la capacità di rivendicare un diritto di
stare che non è un diritto statico, ma un diritto rivendicato in
movimento; un diritto che rientra continuamente come fattore che rende
più complessa qualsiasi possibile fotografia.
Questa
declinazione dinamica del diritto di stare è legata a una parola:
circolarità, ovvero il fatto di intraprendere viaggi che hanno
rotte diverse, non fissarsi in un posto, applicare una strategia nomade,
che vuol dire anche avere un’idea di spazio molto diversa rispetto a
quello che poi si contrappone a questa esperienza nomade, ovvero una
macchina di cattura essenzialmente statale, cioè territorializzata.
Queste
strategie e queste pratiche si giocano su una capacità di assecondare,
di adattarsi, di rendersi flessibili, di passare attraverso, di
attraversare in un certo senso la crisi, e questo secondo me vuol dire
che la crisi attraverso le migrazioni, nel corpo
dei migranti assume la massima visibilità, ma attraverso i corpi dei
migranti si possono anche vedere strategie di fuoriuscita dalla crisi,
nella capacità di articolare un diritto di stare non in termini fissi o
statici.
Credo che su questo debba essere pensata una possibilità
di andare al di là del primo marzo e andare oltre quella data proprio
articolando in termini nomadici questo diritto di stare.
sempre in
termini di fuoriuscita, e mi rifaccio prevalentemente a quello
che diceva Vassilis, un altro livello necessario e più generale è la necessità di una fuoriuscita dello sguardo, di dove
puntare lo sguardo.
Se è vero che, come diceva ancora
Vassilis, alla sempre maggiore transnazionalizzazio-ne delle pratiche di
controllo, allo spostamento dei confini, al fatto che davvero oggi i
confini dell’Europa sono esponenzialmente lontani dall’Europa,
corrisponde una moltiplicazione delle lotte ai confini, questo vuol dire
che noi dobbiamo riuscire a mantenere sia qui che ai confini uno
sguardo decentrato che tenga insieme Bamako e Rosarno.
Rosarno è uno sguardo decentrato perché è uno sguardo di
confine sulla crisi, e credo che in gioco ci sia questo, per
tornatre circolarmente al punto da cui siamo partiti, che oggi la
cittadinanza non può essere pensata come qualcosa di dato e di statico,
ma come qualcosa che si riarticola in una molteplicità di siti
possibili.
Credo che per cogliere questa molteplicità di siti sia
necessario decentrare lo sguardo sulla molteplicità di soggetti che
insietono su questi siti, che sono i luoghi dove davvero si
territorializza il conflitto, e dove c’è il conflitto avviene anche il
cambiamento.