Migrazioni e cartografia della crisi

Relazione di Federico Rahola prima del dibattito al seminario di Uninomade del 13 febbraio 2010

16 / 2 / 2010

Non so se sono la persona più adatta perché difetto in sistematicità e capacitò espositiva chiara, lineare e puntiforme di cui invece hanno dato prova gli interventi che mi hanno preceduto.
Sto cercando di individuare dei fili comuni degli interventi di oggi e mi veniva in mente un saggio di Said di una quindicina di anni fa che si chiama Travelling theory, in cui Said cercava di far vedere come le teorie spostandosi e viaggiando di luogo in luogo quasi per impollinazione si arricchissero, si riarticolassero, si ridefinissero. Dicio questo perché esiste secondo me la necessità, che trapela più o meno da tutte le relaizoni che abbiamo sentito, non solo di uno sforzo da parte nostra di traduzione e di riarticolazione, ma anche di una pratica continua di traduzione e di riarticolazione che contraddistingue quello che si può definire il protagonismo migrante.
Invece di parlare di travelling theory potremmo parlare di travelling labour, ovvero di cosa si porta dietro quando viaggia il lavoro vivo, cosa riarticola, cosa ridefinisce, cosa inventa nel movimento e nello spostamento il lavoro migrante.
Ciò non concerne tanto le teorie ma riguarda le pratiche.

Se è emerso un elemento costante da quanto fino ad adesso è stato detto, è quello di avere di fronte dei quadri in movimento. Il movimento caratterizza tutti gli ambiti analizzati, e a questo movimento si somma un ulteriore fattore di accelerazione e ulteriore movimento che è la pratica di movimento che definisce l’esperienza dei migranti. Abbiamo delle pratiche di movimento che attraversano dei luoghi in movimento che riguardano la cittadinanza – che oggi è davvero forse concepibile solo in termini di crisi – i confini - che si muovono oggi, non sono più entità fisse, statiche, lineari e territoriali, come ha spiegato bene Alessandra nel far vedere che cosa succede a questa enorme macchina di cattura che è stata messa in atto. C’è una cartina che io di solito faccio vedere sempre, quella realizzata da migreurop, che restituisce la geografia dei centri di detenzione e dei campi che, come fosse una malattia esantematica, caratterizzano la mappa de territorio europeo, e che dimostrano il movimento continuo dei confini, la continua delocalizzazione ed esternalizzazione dei confini che però è anche una riterritorializzazio-ne potente: i confini si deterritorializzano ma al contempo si riterritorializzano.
Quindi pratiche in movimento su luoghi in movimento che riguardano i diritti, la cittadinanza, il lavoro e anche il razzismo, cioè quel supplemento continuo che riproduce rigorose gerachie e stratificazioni all’interno di un territorio e non solo all’interno di un territorio, ma di uno spazio in generale.
In sintesi, secondo me, quello che si può desumere è che dalle migrazioni emerge in maniera più chiara una possibile geografia della crisi.
Una geografia della crisi che vuol dire una definizione quasi toponomastica della crisi, un tentativo di stabilire una cartografia possibile di quella che è la crisi attuale.
Le migrazioni sono il luogo centrale, il cronotopo della crisi, dove le categorie di spazio e tempo si sintetizzano; i migranti sono i soggetti barrati della crisi, ma non solo questo. Perché quello che emerge poi, contro ogni lettura pigra ovvia o scontata della crisi è che, con un effetto dirompente, i migranti non assecondano teorie scontate o letture consolidate, i migranti non tornano a casa, riaffermano un diritto di stare, un right to stay, modo specifico che caratterizza la presenza dei migranti nella crisi.
Sandro Chignola ha portato alla luce la capacità di rivendicare un diritto di stare che non è un diritto statico, ma un diritto rivendicato in movimento; un diritto che rientra continuamente come fattore che rende più complessa qualsiasi possibile fotografia.
Questa declinazione dinamica del diritto di stare è legata a una parola: circolarità, ovvero il fatto di intraprendere viaggi che hanno rotte diverse, non fissarsi in un posto, applicare una strategia nomade, che vuol dire anche avere un’idea di spazio molto diversa rispetto a quello che poi si contrappone a questa esperienza nomade, ovvero una macchina di cattura essenzialmente statale, cioè territorializzata.
Queste strategie e queste pratiche si giocano su una capacità di assecondare, di adattarsi, di rendersi flessibili, di passare attraverso, di attraversare in un certo senso la crisi, e questo secondo me vuol dire che la crisi attraverso le migrazioni, nel corpo dei migranti assume la massima visibilità, ma attraverso i corpi dei migranti si possono anche vedere strategie di fuoriuscita dalla crisi, nella capacità di articolare un diritto di stare non in termini fissi o statici.
Credo che su questo debba essere pensata una possibilità di andare al di là del primo marzo e andare oltre quella data proprio articolando in termini nomadici questo diritto di stare.
sempre in termini di fuoriuscita, e mi rifaccio prevalentemente a quello che diceva Vassilis, un altro livello necessario e più generale è la necessità di una fuoriuscita dello sguardo, di dove puntare lo sguardo.
Se è vero che, come diceva ancora Vassilis, alla sempre maggiore transnazionalizzazio-ne delle pratiche di controllo, allo spostamento dei confini, al fatto che davvero oggi i confini dell’Europa sono esponenzialmente lontani dall’Europa, corrisponde una moltiplicazione delle lotte ai confini, questo vuol dire che noi dobbiamo riuscire a mantenere sia qui che ai confini uno sguardo decentrato che tenga insieme Bamako e Rosarno.
Rosarno è uno sguardo decentrato perché è uno sguardo di confine sulla crisi, e credo che in gioco ci sia questo, per tornatre circolarmente al punto da cui siamo partiti, che oggi la cittadinanza non può essere pensata come qualcosa di dato e di statico, ma come qualcosa che si riarticola in una molteplicità di siti possibili.
Credo che per cogliere questa molteplicità di siti sia necessario decentrare lo sguardo sulla molteplicità di soggetti che insietono su questi siti, che sono i luoghi dove davvero si territorializza il conflitto, e dove c’è il conflitto avviene anche il cambiamento.

Uninomade 13 febbraio 2010 - Federico Rahola