1. Per discutere le metamorfosi del razzismo, vorrei partire dal
rapporto sottile e al contempo problematico che corre tra razza e
razzismo. Si tratta di un rapporto in cui il razzismo si darebbe come
comportamento, come condotta o atteggiamento (discriminatorio) rispetto
alla razza.
Tuttavia, se il termine razzismo é
di uso comune, il termine razza no. Ci hanno insegnato che le
razze non esistono. E quando scriviamo la parola razza stiamo ben
attenti a virgolettarla.
Alberto Burgio, nel suo contributo al
recente Rapporto sul razzismo in Italia (edito da Grazia Naletto,
manifestolibri, 2009) afferma che non si dovrebbe mai parlare di razza
come di una realtà.
La razza, insomma tanto nel
linguaggio scientifico quanto nell’uso comune, é una sorta di tabù.
Questa, almeno, é la convincente ipotesi introdotta da Etienne Balibar,
in un saggio di qualche hanno fa (La construction du racisme, 2005 –
trad. it. Diabasis 2007).
Il filoso francese ha evidenziato che, le dichiarazioni sulla questione
razziale introdotte dall’Unesco nel 1950 e ’51, hanno prodotto,
complice lo scempio nazista,
una vera e propria svolta epistemologica che ha spostato l’attenzione
dai fenomeni oggettivi di diseguaglianza tra le razze al razzismo, quale
credenza soggettiva in una diseguaglianza tra le razze. Detto
altrimenti, il razzismo non più inteso come sistema di diseguaglianze
costruito sulla base del colore della pelle o dell’appartenenza
geografica, si é fatto “vizio” o “pregiudizio” originario, da cui tutti
hanno preso le distanze. É in questo passaggio che la razza si é fatta
tabù.
Nel tentativo di liberare la nozione di razza dai richiami
biologisti e dall’eugenetica nazista, si é di fatto annullata ogni
riflessione sui rapporti di dominio e sfruttamento che, sul terreno
della razza, segnano l’esperienza soggettiva quotidiana.
Dire che la razza come differenza biologica non
esiste é corretto oltre che doveroso,
ma non nomiare la razza, vuol dire negare che esistono delle differenze
di condizioni di vita e, soprattutto, di opportunità che si legano al
colore della pelle o all’appartenenza geografica. E questo é
inaccettabile ed aggiungerei fraudolento.
Il razzismo, in quanto “vizio” a sfondo ideologico, si é
dunque rideclinato al di là e dalla materialità della razza, (ovvero
delle implicazioni concrete in termini di condizioni e possibilità di
esistenza).
Di lì in avanti, é stato, combattuto attraverso un
progetto di educazione universale: un progetto di lotta al pregiudizio
razziale fondato sulla politica dei «diritti dell’uomo», ovvero legato
al principio umanista di uguaglianza universale. Sganciato
dalle profonde differenze materiali che segnano l’esperienza soggettiva
sul terreno della razza, il razzismo ha così assunto una nuova
declinazione, quella di un razzismo senza razze che, di lì in avanti,
farà da sfondo al progetto multiculturalista, ovvero la strategia messa
in campo dagli stati nazione contemporanei per gestire la complessità
del presente, per governare il farsi meticcio della società.
2. Detto ciò Io credo che comprendiamo davvero il
razzismo, le sue implicazioni profondamente materiali e soprattutto,
riusciamo a leggere il razzismo al di là della vuota retorica
dell’uguaglianza universale, solo se riportiamo la razza al centro della
discussione, se nominiamo la razza come lo strumento attraverso cui si
costruiscono relazioni sociali gerarchizzate, forme dello sfruttamento e
discriminazioni. Se insomma riconosciamo e mettiamo a tema che la razza
ha storicamente funzionato come potente strumento di subordinazione del
lavoro e delle relazioni sociali.
Tutta la storia del capitalismo, e dunque non solo
il sistema delle piantagioni,
é stata segnata dall’esperienza della razza. Più precisamente,
il capitalismo ha saputo efficacemente produrre e mettere a valore le
differenze di opportunità che si danno sul terreno della razza.
Un
vero e proprio progetto di gestione della razza,
di «race management» ha storicamente accompagnato la
transizione capitalistica. In questo quadro, il razzismo, come un’ampia
letteratura ha evidenziato, si é fatto supplemento interno della
costruzione del mercato del lavoro, ovvero ha funzionato per la
costruzione di processi di segmentazione e gerarchie intorno cui ha si é
data l’intera organizzazione del lavoro.
Il processo é inquietante
ma al contempo assolutamente visibile se si analizzano le forme
dell’organizzazione del lavoro.
All’inizio del novecento in America, mentre Frederick
Taylor studiava le procedure per ottimizzare i tempi e i ritmi del
lavoro nella fabbrica fordista, si costruiva in parallelo una
dettagliata tassonomia della razza che stabiliva mansioni e soprattutto
costi del lavoro. Si produceva così un’articolata gerarchia, in cui ad
esempio, i lavoratori di origine italiana, specie se meridionali,
occupavano i gradini più bassi, in quanto ritenuti biologicamente dotati
di scarsa intelligenza.
Sorte analoga toccava a slavi, armeni,
cinesi, solo gli americani bianchi erano ritenuti capaci di svolgere
adeguatamente ogni tipo di attività e sulla base di tali abilità
ottenevano salari migliori.
Herbert Hoover, futuro presidente degli Stati uniti, che negli anni
venti gestiva le miniere americane in Australia, si era preoccupato di
collocare i cinesi al fondo della gerarchia. I cinesi erano ritenuti
“cocciuti come muli” e dediti al furto, e dunque di scarsa capacità
produttiva e per questo collocati a svolgere i lavori più pesanti e
pericolosi. Alla vita di un lavoratore cinese era attribuito un valore
così basso che in caso di morte i risarcimenti avrebbero avuto un costo
economicamente sostenibile. Ma evidentemente sorte migliore non toccava
agli italiani e ad altri immigrati dall’Europa meridionale.
Mi raccontava ieri Vasillisi che nei cimiteri etnici a
Sydney in Australia, italiani, greci e più in generale europei
meridionali, deceduti per tutta la prima metà del Novecento, avevano un
età compresa tra i 20 e i 25 anni. Solo a partire dagli anni cinquanta
l’età media dei decessi comincerà a salire.
Non dovevano dunque svolgere lavori salubri e poco pericolosi, i
minatori italiani in Australia per morire in massa a vent’anni!
Occorre precisare che questa non é un’esperienza esclusiva del
capitalismo anglosassone ma é al contrario un’esperienza diffusa.
Anche in Italia, sin dai primi anni dell’Unita’ la
costruzione del mercato del lavoro, il primo mercato del lavoro su base
nazionale, fu gestita attraverso la costruzione del razzismo
antimeridionale.
Gli studi di Alfredo Niceforo (le due Italie - L’Italia barbara
contemporanea, 1898), antropologo di scuola lombrosiana, a cavallo tra
‘800 e ‘900 avevano descritto l’esistenza di due razze, una ariana e
caucasica al nord, una negroide e dunque incline alla pigrizia e
all’indolenza al sud. Tali studi giustificarono la subordinazione e lo
sfruttamento dei lavoratori meridionali garantendo l’approvvigionamento
di forza lavoro a basso costo nel nascente sistema di produzione (furono
questi stessi studi che giustificarono le discriminazioni negli Stati
Uniti e in australia).
La seconda ondata di razzismo antimeridionale in Italia
gestì invece i processi di meccanizzazione industriale e la transizione
degli anni ’50.
I giovani immigrati meridionali che presero ad
affollare le città industriali del nord, furono prevalentemente
impiegati in lavori dequalificati e sottopaganti. Molti di loro
lavoravano a cottimo o in subappalto e dunque al di fuori delle
tradizionali tutele e garanzie riservate al lavoro di fabbrica e
soprattutto per un costo inferiore. In realtà i giovani meridionali
impiegati in lavori dequalificati (l’operaio massa come abbiamo poi
imparato a chiamarli) stavano sostituendo gli operai di mestiere nel
processo di meccanizzazione del sistema di fabbrica e la
razzializzazione del lavoro, ovvero la costruzione di gerarchie sul
terreno della razza, permise un decisivo abbattimento dei costi del
lavoro che fu una delle molle dello sviluppo produttivo di quegli anni.
Non é avventato dire che il razzismo antimeridionale di quegli anni
garantì il boom industriale ed il miracolo Italiano.
Si possono riportare anche altri esempi utili a
descrivere il funzionamento della razza nella transizione capitalistica
nel contesto taliano.
Si possono portare in evidenza le altre
declinazioni del razzismo che in questo paese hanno accompagnato il
razzismo antimeridionale (per la verità mai del tutto estirpato – si
vedano le esternazioni del leghista capogruppo al consiglio comunale di
Milano sui napoletani colerosi e terremotati), penso in particolare
alle fasi di espansione coloniale (quando il razzismo gestì la crisi
economica del ventinove e le sue ripercussioni sul piano internazionale)
e (per altri versi) alle leggi razziali del regime fascista. Ma per
ovvi motivi di sintesi mi soffermerò a considerare solo i tempi più
recenti e dunque:
le trasformazioni produttive che hanno interessato gli ultimi decenni
del novecento
la fase attuale segnata dalla crisi economica globale e da una
recrudescenza di razzismo assolutamente funzionale alla gestione di
questa crisi.
Ovviamente é troppo presto per considerare l’effettiva ricaduta della
crisi e il suo saldarsi con pratiche razziste, ma sicuramente é
possibile fare alcune considerazioni.
3. A partire dagli anni ’80 e ‘90 la razza ha gestito il c.d. passaggio dal fordismo al post fordismo.
L’ingresso massiccio nel mercato del lavoro di nuove
figure, soprattutto le donne e i migranti, quale esito delle
trasformazioni produttive, dei processi di globalizzazione e della
crescente mobilità del lavoro, ma anche come risultato delle lotte
anticoloniali e del femminismo, ha fatto anche della razza, così come
del genere, strumento per la gestione e riorganizzazione del mercato del
lavoro.
Tanto la razza quanto il genere sono a lavoro nei processi
di ristrutturazione produttiva che stiamo considerando, e spesso razza e
genere funzionano all’unisono nella produzione di nuove forme di
subordinazione e sfruttamento, come ad esempio attraverso
l’etnicizzazione del lavoro di cura, mi limiterò qui a discutere solo di
razza.
Restando, dunque, sul terreno della razza, possiamo dire che il razzismo assume il compito di gestire il farsi fenomeno di massa delle migrazioni. E mentre la razza diventava sempre più sinonimo di migrante, sofisticati provvedimenti di ingegneria istituzionale vengono messi in campo per governare e controllare la mobilità del lavoro. lo stretto legame tra lavoro, controllo della mobilità del lavoro e gestione della razza evidenziato dalle leggi in materia di immigrazione varate a partire da quegli anni. Si tratta di leggi che puntano all’illegalizzazione e criminalizzazione del lavoro migrante, descrivendo le nuove coordinate del razzismo anti-immigrati che si declina a partire dagli anni ’90.
La legge Turco-Napolitano (1998)
con l’istituzione dei CPT, é il primo provvedimento in materia e si
propone proprio di gestire le migrazioni sempre più massicce dall’est
Europa. A questo legge, nella primavera 1997, fa da preludio
l’affondamento nel canale di Otranto di una nave carica di profughi
albanesi, a lungo considerati i nemici della patria. Ma é soprattutto la Bossi-Fini (2003) che lega il permesso di
soggiorno al contratto di lavoro che mostra gli strumenti legislativi
attraverso cui il progetto di illegalizzazione del lavoro migrante si
costruisce.
Tutti quei lavoratori e lavoratrici sprovvisti di permesso di soggiorno –
si tratta di almeno due terzi dei residenti sul territorio nazionale
–sono posti in condizione di altissima vulnerabilità e sotto ricatto. E,
per questo, sottoposti a forme di sfruttamento, nel mercato del lavoro
(:lavoro nero, bassi salari, nessuna tutela),
e sul piano sociale: dagli alloggi alla persecuzione da parte della
polizia, alle violenze razziste. In tale clima di ricattabilita’ e
vulnerabilità, il lavoro migrante può garantire costi del lavoro
contenuti e alta flessibilitàfacendosi elemento indispensabili alla
nuova fase produttiva.
La crisi economica globale ha, com’era prevedibile, esasperato questa
tendenza. Il pacchetto sicurezza e i più recenti provvedimenti in
materia hanno puntano alla clandestinizzazione del lavoro migrante
accrescendo le forme della vulnerabilità, mentre la minaccia della
deportabilità contenuta nel reato di clandestinità, ha visto crescere le
forme del ricatto. In questo quadro, la forza lavoro migrante, così
ricattabile, vulnerabile e priva di garanzie, é stata con estrema
facilità espulsa dal mercato del lavoro tuttavia, crisi economica ed
espulsione dal lavoro non hanno però interrotto il progetto migratorio,
ne’ hanno ridotto i flussi in entrata, piuttosto hanno significato un
drastico peggioramento delle condizioni di vita e lavoro.
Uno dei migranti di Rosarno
intervistato in Tv raccontava di essere arrivato a Rosarno dopo aver
perso il lavoro in una fabbrica del nord-est.
Il
bracciantaggio agricolo diventa dunque un ripiego dentro la crisi ed una
forma, più pesante di sfruttamento del lavoro. E nello stesso tempo, il
razzismo che con virulenza si é sviluppato negli ultimi tempi si rende
complice e accresce la ricattabilita’ della forza lavoro migrante.
É un doppio livello di razzismo quello che accompagna la crisi economica. Un razzismo istituzionale che si perpetua nelle continue esternazioni del governo e nei provvedimenti in materia di immigrazioni, ma anche razzismo quotidiano, diffuso che sui territori. Un doppio livello del razzismo che a Rosarno, come altrovegestisce l’organizzazione del lavoro nella crisi. Non é infine irrilevante e che il mese di gennaio e proprio il mese in cui la raccolta degli agrumi in Calabria giunge al termine. In oltre, la produzione di agrumi, in questa annata é stata particolarmente abbondante e, a gennaio, i magazzini della piana di Gioia Tauro erano ormai stracolmi. Questo ci dice che ,ancora una volta il razzismo ha funzionato da supplemento interno all’organizzazione del mercato del lavoro.
4. C’e poi un altro aspetto che si é intensificato dentro la crisi e dentro questo doppio livello del razzismo, istituzionale e diffuso.
Complice la retorica del governo, (da ultime le dichiarazioni di Berlusconi a margine del cdm a Reggio Calabria qualche settimana fa) che supporta e accompagna i provvedimenti istituzionali, la figura del migrante é sempre più spesso affiancata a quella del criminale. Emerge in tal mondo, un sofisticato meccanismo di costruzione di profili e stereotipi negativi che oltre l’aberrante pratica del racial profiling che negli Sati uniti lega la propensione al crimine al colore della pelle, descrive pratiche che potremo definire di migratory profiling in cui é la sola condizione di migrante ad indicare la propensione al crimine. Tale meccanismo ci dice che il migrante é oggi, in Italia, il nemico numero uno benché nessuno sia disposto a definirsi razzista per questo.
Detto altrimenti, fattosi “vizio” originario, sganciato
dalla materialità dei rapporti di produzione, il razzismo funziona oggi
come significante vuoto che concede l’alibi di non sentirsi o definirsi
razzisti. La cronaca é piena di esempi in questo senso.
Nel settembre 2008, nel quartiere del Pigneto a
Roma, un quartiere ad alta densità migrante, gli abitanti del
quartiere, capeggiati da un “coatto” locale hanno organizzato un vero e
proprio raid contro i pachistani che vivono nella zona. In
quell’occasione la vulgata parlò di un episodio di microcriminalità, di
un regolamento di conti interno alle dinamiche del quartiere.
Anche i fatti di Rosarno, come quelli di Castel Volturno
dello scorso anno sono stati nella lettura mainstream interpretati più
che come fatti di razzismo come fatti legati alla criminalità: la
cammorra a Castel Volturno, la drangheta a Rosarno, senza per altro
cogliere lo stretto legame tra la c.d. malavita e l’imprenditoria in
moti regioni del sud.
Insomma, oggi come oggi, il razzismo edulcorato dalle differenze e
diseguaglianza che intercorrono tra un residente di Roma, Bologna o
Rosarno e i migranti pachistani, africani, o est europei che lavorano in
queste città o paesi, ha perso di senso e non viene più percepito come
tale. Eppure i fatti del Pigneto a Roma, di Rosarno o dell’imprenditore
in Veneto che accoltella a morte il suo dipendente senegalese che
reclamava 500 ero di stipendio arretrato, ci parlano di razzismo,
eccome!
5. Questi esempi devono far riflettere.
Ci parlano del profondo degrado del mondo in cui
viviamo.
Quando il terreno delle
discriminazioni legate alla razza raggiunge il livello che tutti
sperimentiamo quotidianamente, c’é da essere seriamente preoccupati.
A questo proposito mi piace ricordare che «La razza é come il
canarino del minatore». I minatori erano soliti portare un canarino in
miniera. Se gli effluvi venefici della maniera si fossero fatti
pericolosi il fragile sistema respiratorio del canarino non avrebbe
retto e quello sarebbe stato il segnale che l’aria si era fatta
irrespirabile, e che occorreva uscire alla svelta.Analogamente quando la
razza diventa il terreno su cui crescono forme di intolleranza,
discriminazioni e si produce la chiusura di spazi di agibilità, é il
segno che si sta passando la misura. Come hanno sottolineato Lani
Guinier e Grald Torres, due studiosi americani esponenti della Critical
Race Theory, filone di studi direttamente legato alle lotte per i
diritti civili in America, a cui si deva l’espressione, la razza e le
forme di discriminazione che riguardano i migranti ci parlano di un
problema più generale che riguarda tutti.
Il dilagante razzismo di questi tempi é dunque una questione politica non più rimandabile. Per anni, il tema del razzismo, nella sua declinazione universalista, di “vizio” da redimere, ha tenuto lontane le componenti più avvedute del movimento. Io credo che oggi sia più che mai urgente invertire la rotta. Occorre cominciare a parlare di razzismo in modo forte restituendo al termine il ruolo e il peso della razza quale strumento di sfruttamento, subordinazione e negazione dei diritti, quale terreno su cui si costruiscono forme di discriminazione e processi di stratificazione delle relazioni sociali.
In questo senso, la giornata del primo marzo si rivela strategica, a patto che assumiamo quella giornata come punto di partenza e non di arrivo di un percorso di lotta al razzismo che soprattutto sappia mettere al centro delle discussione la razza, non più tabù ma si strumento di lotta politica.
Il Black Panther Party che sul terreno della lotta alle discriminazioni razzilai ha espresso grande radicalità, ha fatto esattamente questo. La rivendicazione del Black Power é stato esattamente il terreno su cui la razza si é fatta strumento di lotta politica. Non si tratta di costruire rivendicazioni identitarie, occorre essere chiari su questo punto, ma piuttosto, oltre una vuota rivendicazione di eguaglianza universale che preme per l’integrazione delle differenze, si tratta di costruire un discorso e soprattutto un terreno di lotta che sappia mettere a tema le differenze e le diseguaglianze che segnano l’esperienza di chi é discriminato sul terreno della razza, per rovesciarle e costruire, inventare, nuove forme elle relazioni sociali e del lavoro.
Con le dovute differenze, anche le lotte operaie degli anni ’60 e ’70 animate dagli operai meridionali razzializzati hanno operato in questo senso, hanno saputo coniugare la lotta sul lavoro al tema della razza, aprendo profondi processi di innovazione che hanno ridisegnato il sistema delle relazioni sociali nel paese.
La giornata senza migranti del primo marzo, si presenta dunque una grande opportunità in questo senso, é l’occasione per mettere a tema la razza come strumento di lotta politica. Per fare della lotta al razzismo il terreno su cui innestare le lotte del lavoro migrante, lo spazio per rivendicare e soprattutto praticare nuove forme della cittadinanza nonché il contesto in cui calare le battaglie sul terreno dei diritti. É in questo senso, che la giornata del primo marzo va assunta. Come momento costitutivo, come l’avvio di un più ampio processo di lotta antirazzista da costruire di qui in avanti.