1. Quello che mi si chiede è un intervento difficile. Difficile perché
costretto ad una strana operazione sul piano temporale. Da un lato, esso
deve riprendere il filo di una discussione interrotta. Quasi come se,
cioè, non avessimo negli anni accumulato una serie di riflessioni,
elaborazioni, sperimentazioni politiche decisive sul terreno delle
migrazioni e delle trasformazioni della cittadinanza. Dall’altro, perché
mi obbliga ad espormi sul terreno della crisi e sull’effetto che essa
potrebbe indurre in rapporto ai flussi migratori, senza tuttavia che la
crisi abbia ancora sedimentato passaggi definitivi.
Più di una volta ci siamo detti che cartografare i processi
e le tendenze è un’operazione difficile. E che ancora più difficile è
lavorare su quadri in movimento, in rapidissima trasformazione, come
quelli della cittadinanza.
Se è vero che all’origine della
sociologia c’è il dagherrotipo, la fotografia, è una fotografia davvero
difficile da mettere a fuoco, quella che cerca di catturare la mobilità
sfuggente, rapidissima, del migrante.
Ripartiamo dai fondamentali allora. Un concetto, una
categoria, compare quando compare qualcosa di nuovo che deve essere
concettualizzato, categorizzato. Qualcosa che sfida la tenuta dei
paradigmi in uso. E’ sintomatico che sia solo dagli anni ’80 che nei
dizionari di scienza politica in Italia e nell’Europa continentale
compaiano voci dedicate alla «cittadinanza», termine sino a quel momento
aproblematicamente riferito al sistema delle norme concernenti il suo
esercizio. E’ esattamente nella misura in cui una serie di claims
vengono ad essa riferiti, che la cittadinanza - i suoi perimetri, le sue
forme, i suoi codici – diventa un problema. Dibattiti sull’esclusione e
sulle nuove povertà, critica femminista dell’universale astratto del
diritto, tensioni interne ai suoi quadri di inclusione in rapporto al
lavoro migrante, mettono allora al centro la cittadinanza come concetto
conteso e come concetto di contesa.
Di cittadinanza si inizia allora a discutere non come di un campo
definito da titolarità di diritto e da forme secche di esclusione, ma
come del punto di giuntura, della linea di tensione, tra gli ordinamenti
oggettivi della politica (sovranità, Stato, costituzione) e le forme
soggettive di attivazione che premono per riaprire quanto nei primi è
dato per scontato e, quindi, almeno in apparenza «chiuso».
Schemi gradualisti volti a recuperare l’esclusione in termini
democratico-progressivi; analitiche critiche della contemporaneità del
non contemporaneo (per riprendere l’espressione di Ernst Bloch) e cioè
della tensione esistente tra quadri formali e quadri materiali della
cittadinanza, tra la garanzia di diritti estremamente avanzati e la
persistenza di forme arcaiche di esclusione e di sfruttamento; istanze
volte ad una brusca accelerazione degli squilibri che la attraversano,
tendono allora a mettere in movimento la nozione di cittadinanza ad
alludere, con essa, ad un autentico terreno di lotta.
Parlando della cittadinanza come pratica sociale
parliamo di una sfida che muove dai suoi confini. Parliamo di
ciò che attraversa e che rimette in discussione i confini; di ciò che li
disarticola e li obbliga a ricomporsi in altre forme. Parliamo,
soprattutto di pratiche di soggettivazione e di dispositivi di
controllo; di mobilità e di imbigliamento della mobilità. Di macchine da
guerra che tracciano confini, che lavorano a edificare e a fissare la
cittadinanza come spazio difeso, rimodulando il codice binario di
inclusione ed esclusione della sovranità classica – ce ne ha parlato
poco fa Alessandra Sciurba –, e di uomini e donne i cui movimenti quella
macchina da guerra non è in grado di controllare nonostante i controlli
biometrici, i droni, il proliferare delle agenzie e delle tecnologie
militari attivati per il loro controllo. La cittadinanza nazionale ed
europea come fortino difeso, anche con la delega del controllo dei
confini a paesi terzi; il suo spazio interno come spazio di validazione e
di agency dei diritti; e quello stesso spazio interno fratturato,
sfidato, attraversato, da processi di soggettivazione che dello spazio
della cittadinanza eccedono gli schemi e le procedure, che determinano
una temporalità eccedente e che tracciano altrimenti il processo della
sua territorializzazione.
2. Non so come sia potuto accadere
che finisse con l’essere accreditata la tesi che la crisi avrebbe
comportato un cedimento dei flussi migratori o un’inversione della
tendenza in atto dagli anni ‘90.
I migranti non «tornano a
casa», ci dicono i dati. Non solo quelli attuali, ma anche quelli
relativi alla recessione del 1966/67 o alla crisi petrolifera del
1973/74. Sono, quelli, gli anni in cui viene per la prima volta smentita
nei fatti la teoria sull’«esportabilità» della disoccupazione e
sull’assorbimento congiunturale della crisi con il ricorso al lavoro
migrante transitorio. La nostra arcaica ipermodernità ripropone spesso
relitti della storia. L’idea della «buffer theory», risalente agli anni
’50, è semplice: si attirano lavoratori stranieri nelle fasi alti del
ciclo economico, li si trattiene come «Gastarbeiter», e cioè ai limiti
della cittadinanza e incardinandoli a programmi di lavoro temporaneo,
sinché la congiuntura è favorevole, li si facilita al rientro nei paesi
di provenienza con il sopravvenire della crisi. Ciò dovrebbe
permettere, in una fase di scarsa occupazione, di riservare i posti di
lavoro ai concittadini nazionali. E nondimeno, le statistiche rilevano
solo flessioni di breve periodo nella composizione migrante del lavoro
nella crisi degli anni ’60 e, anzi, un suo sostanziale incremento, in
molti paesi europei (Francia, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera)
all’inizio degli anni ’80, nonostante la recessione del ’73. La
contrazione che si segnala negli USA nel 1991 dipende dall’Immigration
Reform and Control Act adottato qualche anno prima che, va ricordato
tuttavia, prevede anche una vasta sanatoria.
In generale, è questa
la conclusione che ne possiamo trarre, se una flessione esiste nella
percentuale dei migranti residenti nei paesi di destinazione, questa
flessione, in tutte le crisi che si sono succedute dagli anni ’60 in
avanti, è stata una flessione di brevissimo periodo.
E’ una cattiva immaginazione dei flussi migratori, quella che lavora
nella tecnologia sociale del «ritorno» o della «Gastarbeit». E non a
caso è stata ampiamente dismessa sin dagli anni ’90 anche in Germania.
Esemplificando al massimo, possiamo dire che essa:
1) non considera
il processo di stabilizzazione dei lavoratori migranti
(ricongiungimenti famigliari, matrimoni, inserimento in «social network»
comunitari);
2) non considera che molto spesso tornare nei paesi
d’origine significa comunque precipitare in condizioni comunque peggiori
(se questo era vero negli anni ’60 e ’70, possiamo facilmente
immaginare quanto questo dato si rafforzi sulla soglia di
interdipendenza definita dall’attuale economia globale e dalla
«globalità» della crisi;
3) non considera in alcun modo la struttura
degli impieghi (e cioè il fatto che i migranti sono spesso occupati in
posizioni ed in processi del tutto inappetibili per i cittadini
nazionali);
4) non considera che la migrazione segue sempre più
spesso traiettorie circolari (nel caso europeo vale in particolare tra
il Maghreb e i paesi bagnati dal Mediterraneo e per i paesi sul confine
Est di Schengen), descrivendo stagionalità e intermittenze, che possono
permettere di attraversare i momenti più bui della crisi come «vacanze
allungate» o come momenti di consapevole riappropriazione di quote di
reddito sociale con il mancato pagamento dei debiti o degli affitti, in
attesa di rientrare, probabilmente altrove, nel processo migratorio.
Alcuni dati ulteriori confermano tutto questo, io credo.
1) il sostanziale fallimento dei programmi di finanziamento per il
rientro dei migranti nei paesi di origine - quegli stessi piani che
qualche giunta leghista vorrebbe ora copiare - avviati dalla Repubblica
Ceka e, nella primavera del 2008, dalla Spagna (vi hanno aderito in
2200 su una platea potenziale di oltre 100mila migranti «regolari»
eliggibili); 2) il fatto che, nonostante la crisi, i dati indichino un
incremento e non una flessione della presenza dei migranti nei nostri
territori (+ 13,4% rispetto al 2007); 3) il fatto, attestato in alcuni
modelli e che io credo davvero significativo, della cessazione o
dell’inversione, su scala globale, delle rimesse dei migranti (ne
parlava, per quanto riguarda i migranti latinos negli USA il «New York
Times» qualche mese fa) in vista di autonomi progetti di permanenza e di
stabilizzazione relativa nei paesi di destinazione.
Vi è una serie di idee sulla migrazione che occorre smontare, per poter
avvicinare la realtà dei problemi - e dunque delle occasioni - che
abbiamo davanti. Innazitutto, il fatto che la migrazione sia
essenzialmente un transito e che questo transito avvenga da Sud a Nord,
sui barconi della disperazione, come nell’immaginario mediatico e del
senso comune. Il migrante, occorre ribadirlo, non è un soggetto la cui
mobilità possa essere rappresentata come sospesa tra un ingresso e
un’espulsione. Il lavoro migrante – regolare o clandestino, in gran
parte per overstaying - è una parte decisiva della composizione di
classe contemporanea. Si muove, si sposta, circola. Come dice qualcuno, i
flussi migratori sono pressoché indecifrabili, difficilissimi da
fissare, perché «vanno dappertutto». Ma nello stesso tempo incrocia
logiche di accumulazione selvaggia, produce valore, territorializza
conflitti.
Solo per restare all’Italia, dati recenti ci dicono come sul nostro
territorio siano presenti circa 5 milioni di «stranieri», in gran parte
distribuiti nel Nord del paese, che rappresentano il 15 % della forza
lavoro complessiva (dati ISTAT). Essi fruttano all’INPS oltre 7 miliardi
di Euro (2,4 miliardi come contributi diretti) all’anno; sono occupati
al 58% nei servizi (con punte significative nei settori della logistica,
oltre che nel lavoro di cura, nella ristorazione e nell’ospitalità
alberghiera), al 35,3 % nell’industria (in gran parte metalmeccanica),
al 7,3 % in agricoltura (anche se questa quota non considera ovviamente
il lavoro semischiavile dei clandestini). A questi vanno aggiunti circa
200.000 migranti imprenditori e almeno altri 300.000 soci di cooperativa
o partite IVA nella precarizzazione generale dei rapporti di lavoro.
Nella fase incipente della crisi, nel corso del 2008, i migranti
occupati sono cresciuti ancora di 200.000 unità, in Italia. E iniziano
ad occupare anche segmenti «alti» nella stratificazione sociale del
lavoro: in particolare in campo medico.
Una seconda questione, riguarda le direttrici delle migrazioni
contemporanee e le loro caratteristiche fondamentali. Esse non
riguardano solo il Nord del mondo: l’Europa, gli USA o l’Australia,
ovviamente. Ma contrassegnano una circolazione complessa tutta da
mappare. Solo per citare un dato: il rientro di lavoratori di origine
russa nel loro paese, sta creando enormi problemi in Asia dove molti
migranti indonesiani finiscono con l’incrementare la disoccupazione. I
flussi di uomini seguono i flussi di merci. E il livello di
interdipendenza raggiunto dall’economia globale non permette una visione
eccessivamente semplificata né dei movimenti di popolazione, né di che
cosa siano i territori che essi segnano, attraversano o incidono.
Lasciando per ora da parte la complessa questione delle migrazioni
globali (c’è gente, nel mondo, per la quale una meta ambita di
migrazione è Calcutta, per altri lo è la Thailandia… e, per restare
vicino a noi, vale forse la pena di notare come tutti i paesi del
Medioriente e dell’Africa del Nord siano diventati paesi di partenza e
paesi di destinazione dei flussi di lavoro migrante), vi sono un paio di
questioni decisive da sottolineare in relazione a recenti mutamenti del
progetto migratorio.
La prima: viene sempre maggiormente assegnata preferenza a schemi
circolari (in questo caso il rientro a casa è spesso una sosta prima di
una nuova partenza) con preferenze di prossimità, ciò che permette
capacità di anticipazione, adattamento alla crisi, flessibilità nel
rispondere ad essa. L’essere interni allo spazio Schengen rende molto
più mobili i migranti che perdono il lavoro, che possono immediatamente
cercarlo altrove al suo interno. Specie quando si tratta di Est europei.
I circuiti della migrazione sembrano in molti casi ricalcare il modello
della migrazione stagionale senza che per questo venga abbandonata la
ricerca di migliori opportunità nei paesi di destinazione, che, anzi,
proprio per questo vengono sottoposti a continua selezione come sedi di
stabilizzazione opzionale.
La seconda: si determina sempre più radicalmente un mutamento dalla migrazione orientata alle rimesse ad una migrazione come investimento sul capitale cognitivo del soggetto in movimento («from a remittance driven to a human capital driven pattern of migration»): acquisizione di competenze, skills, abilità linguistiche e/o imprenditoriali. Il migrante del XXI secolo pensa sempre meno «a casa», pare. Al contrario, accade sempre più spesso che siano le comunità di partenza a finanziare tanto nelle fasi di insediamento, quanto in quelle di crisi, i migranti, sostenendoli nei loro progetti imprenditoriali o di formazione, e non viceversa. La terza: la migrazione, quando è orientata da scelte di lungo termine, e questo accade sempre più spesso, si muove dando comunque per assodato il differenziale di opportunità stabilito tra il paese di partenza e quello di destinazione. La crisi è globale: subirla nei territori di origine può diventare ancora più duro, innanzitutto. Inoltre, in particolare per le famiglie, i paesi di destinazione offrono in genere migliori condizioni di welfare – formale o informale, come lo sono i networks sociali autonomamente stabilizzati dagli ultimi vent’anni di migrazione - anche in caso di disoccupazione.
Terzo: fuoriuscita dalla crisi e ripresa economica sono
molto più facili da agganciarsi nei paesi di elezione, piuttosto che nel
quarto mondo. Quarto: l’investimento che la migrazione comunque
comporta, risulterebbe fallimentare, qualora si optasse per un immediato
e definitivo ritorno.
Si potrebbe facilmente continuare. Magari lasciandosi andare
all’oggettivismo prospettico degli andamenti demografici o al
sociologismo delle tipologie mansionali ormai saldamemente in mano ai
migranti. Senza parlare dell’affacciarsi di stranieri nelle Università o
della loro massiccia presenza nella scuola elementare o media. Quello
che le statistiche tendono a restituirci – anche per i nostri territori –
è, io credo, un ormai conquistato, anche se da posizioni marginali,
«right to stay».
3. Questo «
right to stay
», altra faccia di quella «freedom of movement» che
definisce il lato soggettivo delle migrazioni contemporanee come
movimento sociale, rappresenta la turbolenza che mette definitivamente
in questione, revoca di stabilità, apre alla contraddizione, i profili e
i perimetri della cittadinanza. Il migrante è marcato da una
caratteristica irrappresentabilità. Spesso in fuga dalle identità
ascrittive del proprio paese di origine, attratto dal vortice di
anonimizzazione delle aree metropolitane, invisibile e «senza parte» nel
conto democratico delle posizioni, talvolta tentato dal rifugio in
calde identità culturali di ritorno, il migrante è il perturbante
concreto della nozione giuridica astratta di cittadinanza, proprio per
l’impossibilità di «fissarlo», di disciplinarne la soggettività e i
movimenti.
Di più: perno di un confronto irriducibile tra mobilità e
controllo, tra sconfinamento e confini, tra ingovernabile e governo, il
migrante mette radicalmente in discussione la serie di categorie e di
concetti sui quali la cittadinanza edifica la propria definizione,
revocandone il riferimento antropologico-politico classico: il
«cittadino» come il nativo, maschio e proprietario e, possibilmente,
bianco. Come ha di recente avuto modo di notare Engin Isin, al cui
lavoro mi rifaccio per le brevi note che seguono, «abbiamo bisogno di un
nuovo vocabolario della cittadinanza».
Nella nozione classica di cittadinanza convivono due aspetti:
l’abilitazione e la tutela dei diritti da un lato, un radicale principio
di esclusione dall’altro. Su questo secondo lato, la cittadinanza viene
identificata ad uno status. Esso seleziona chi è cittadino e chi non lo
è in base a un criterio più o meno largo che, nei vari modelli, viene
di volta in volta ancorato ad uno jus sanguinis (il privilegio etnico),
ad uno jus soli (la nascita) o, nei casi più «aperti», ad uno jus
domicilii (la residenza). E’ facile intuire come il migrante, ed in
particolare la sua versione indocumentada, clandestina, aliena, ecceda
tutte queste forme di certificazione; scuota sin dalle fondamenta
l’anagrafe poliziesca delle identità.
La cittadinanza non è solo status, tuttavia. Essa è anche «empowerment», accesso, volano per la traduzione di
rivendicazioni e di istanze. E’ su questo piano che essa si trova
costitutivamente in tensione con le pratiche che la sfidano. Per
riprendere la felice espressione di Isin, la cittadinanza, non più
pensabile nella classica sovrapposizione sequenziale di territorio,
soggetti e diritti, deve essere considerata una «istituzione in
scorrimento» («citizenship is an institution in flux»),
fluida; un’istituzione il cui alveo è tracciato da conflitti sociali e
politici nei quali si producono imponenti, e in gran parte
incontrollabili, processi di soggettivazione. Processi che modificano le
rappresentazioni tradizionali della spazialità politica, il gioco del
riconoscimento delle identità, il lavoro della macchina costituzionale;
processi che, vale forse la pena di farlo notare, non si muovono
linearmente e non pertengono solo all’alea dell’evento. Ma che scavano
il corso del fiume con la carsica fatica del quotidiano.
Vale la pena di riprendere lo schema di Isin, per parlare di questa
dinamica di costante riconfigurazione soggettiva della cittadinanza.
>La cittadinanza, da non intendersi come un fascio di
diritti o come un principio di inclusione più o meno aperto, coinvolge
«attori», «siti», «gradienti» e soprattutto «azioni».
Nessuno
di questi termini, tuttavia, va inteso in senso univoco o semplificato.
Di «attori» di cittadinanza possiamo parlare solo eccedendo la griglia
che perimetra l’«azione» politica istituzionalizzandol-a (soprattutto in
termini rappresentativi) o assegnandola al monopolio dei cittadini
legalmente riconosciuti.
Con Saskia Sassen, possiamo parlare di
nuove figure che ridefiniscono la cittadinanza. «Soggetti autorizzati ma
non riconosciuti» (le mille figure del precariato sociale) e soggetti
«riconosciuti ma non autorizzati» (i migranti «clandestini» dei mille
Sud del mondo…) attraversano, sfidandone i dispositivi di controllo, i
quadri della cittadinanza formale e rappresentano le traiettorie del
lavoro vivo contemporaneo. Attori di cittadinanza sono quei soggetti i
cui claims si dimostrano irricevibili nel sistema di rapporti
stabilizzato e rinviano, piuttosto, ad una nozione, materialissima ed
eccedente, di giustizia in divenire, anticipata nel farsi politico dei
conflitti.
Dei «siti» della cittadinanza, in secondo
luogo, possiamo parlare solo sbarazzandoci della troppo semplificata
visione che abbiamo delle figure della spazialità politica. «Siti» di
cittadinanza non sono le nazioni, le città, le regioni dell’Impero. E
non lo sono, almeno di per sé, nemmeno i «territori», se ad essi
facciamo riferimento come a sezioni immediatamente identificate dello
spazio. Isin, e io credo che si possa seguirlo, parla dei «siti» di
cittadinanza come dei luoghi di contaminazione in cui vengono
assemblate, montate, connesse rivendicazioni, questioni, revoche di
evidenza.
Quei luoghi, potremmo dire a nostra volta, in cui si
territorializzano conflitti, rudi confronti tra libertà e governo, nei
quali un «territorio» si illumina, si accende, come lo scenario di una
battaglia che identifica, per forzarli, i limiti ed i confini della
cittadinanza.
Siti e «gradienti» sono implicati l’uno nell’altro, in terzo luogo. Cosa
identifica un territorio, una qualsiasi delle nostre aree
metropolitane, se non l’agglomerarsi, spesso contraddittorio e
conflittuale, di spazi e di tempi? I migranti sono inseriti in circuiti
che si sovrappongono alla scala cittadina o nazionale. Le informazioni
scorrono su vettori che non sono quelli della cronologia o dei
calendari. Le merci circolano con velocità e ampiezze che non sono
quelle della nostra percezione quotidiana del tempo…
La nozione classica di cittadinanza entra in fusione nella
misura in cui le battaglie per la cittadinanza mettono out
of joint le rappresentazioni tradizionali dello spazio e del tempo.
Un «sito» è determinato dal territorializzarsi di un conflitto, abbiamo
detto. Un «gradiente» lo incrocia nella misura in cui quel sito è capace
di far rete, di generalizzarsi, di intensificare la potenza che esprime
attraversando, e dunque destituendoli, confini nazionali o barriere
etniche e di genere. Ne abbiamo avuti esempi decisivi in anni recenti:
dalle lotte dei sans-papiers francesi al «dia sin migrantes» dei latinos
negli USA il 1 maggio 2006. Lotte capaci di materializzare
politicamente la nozione di cittadinanza, esattamente nella misura in
cui rendevano evanescente il suo riferimento formale e agganciavano
processi di soggettivazione che evidenziavano - e a partire da
un’esclusione -, il «becoming political» del terreno dei diritti.
>«Azioni» di cittadinanza, esattamente in
questo senso, sono quei processi di soggettivazione che fanno saltare
l’ordine amministrativo e gestionale della cittadinanza come anagrafe
ufficiale della titolarità e dell’imputabilità dei diritti.
Sono
«azioni di cittadinanza» quelle dinamiche di attivazione sociale che
segnano un cominciamento e un inizio; quei claims di giustizia che
provengono da chi non ha titolarità giuridica a farlo e che prendendo
parola, qualifica un’esclusione, la rende percepibile, rovesciando il
tavolo sul quale vengono assegnate le parti.
E’ possibile qualificare come «atti di cittadinanza» quegli atti che
modificano gli equilibri interni agli spazi di inclusione democratica
trasformando forme e modalità della loro gestione; quegli atti che
introducono nuovi attori e nuovi cittadini nei siti e nelle situazioni
amministrate dal codice binario del riconoscimento e dell’accesso.
Nuovi attori e nuovi cittadini sono il movimento in atto che abolisce e
che trasforma le forme presenti della cittadinanza. I migranti,
percepiti come «immanent outsiders» rispetto ad esso, non stanno
tuttavia in un rapporto di esteriorità con lo spazio politico. Al
contrario, lo istituiscono come scena politica e come quadro in
tensione. La cittadinanza è una pratica. Uno spazio di conflitto.
Ed è uno spazio di conflitto, non nell’appello retorico, ma nella
materialità delle pratiche che disfano e riqualificano soggettività e
diritti. I migranti, lo abbiamo visto sopra, pensano davvero poco «a
casa». Il loro «right to stay» è la tendenza che indica una direzione,
un obiettivo, e ciò che incide un segno costituente nella regolarità
delle procedure.
Su questo terreno è possibile progettare un’agenda di lotte: incrociare
battaglia per il reddito e per i diritti sociali, connettere le lotte
per il diritto allo studio a quelle dei migranti i cui figli subiscono
la redistribuzione nelle classi su base etnica o razziale, estendere i
conflitti sulla formazione all’ingresso subordinato nel mercato del
lavoro previsto per gli stranieri delle scuole tecniche e professionali,
meticciare i processi di soggettivazione che si producono tra lavoro e
non lavoro, fare a pezzi la linea del colore che ancora attraversa le
Università.
E fare in modo che il «right to
stay» significhi soprattutto lo stare sull’onda tesa del futuro.
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