Confinamenti, sconfinamenti, diritti: questi tre termini che delimitano
delle tematiche immense, possono sembrare a prima vista slegati tra
loro, mentre mantengono invece un nesso inscindibile che è proprio
quello che vorrei cercare oggi di indagare.
Iniziamo dalla fine, ossia dall’ultima di queste tre parole: i diritti.
Chiedo scusa se vi tedio con un breve excursus
storico su cosa sono i diritti umani, spero che possa essere in
qualche modo utile. I diritti, intesi in senso soggettivo, sono quegli
attributi di una persona comunemente definiti come delle “pretese
legittime”, ovvero legittimate da una regola o accordo precedente.
Esistono moltissime classificazioni dei diritti, che li analizzano di
volta in volta in quanto libertà negative o pretese positive, diritti di
prima generazione o di seconda e terza generazione; diritti privati o
diritti pubblici.
Io oggi parlo di quella particolare categoria di
diritti pubblici soggettivi che sono i diritti umani, ovvero quei
diritti definiti come universali, inalienabili, inviolabili, e che si
vorrebbero attribuiti all’uomo in quanto tale, indipendentemente da
qualunque statuto giuridico aggiuntivo o da qualunque luogo del mondo in
si ritrovi a vivere.
L’idea di un diritto naturale,
posseduto dagli uomini indipendentemente da ogni codificazione e
concessione da parte del potere è un’idea antichissima che affonda le
sue radici addirittura nei filosofi stoici del III secolo A. C.,
attraversa tutto il medio Evo e in realtà arriva fino alle porte del
’700 ancorata all’idea di un diritto naturale di matrice religiosa: un
diritto naturale non concesso dal potere perché proveniente direttamente
dalla divinità.
Nel corso del ’700 il discorso dei diritti naturali
viene poi rivisitato dal pensiero illuminista e acquista un’inedita
profondità ed estensione, diventando la base per quelle Rivoluzioni da
cui avrà vita lo Stato nazionale moderno. La
Nazione, questo è il passaggio fondamentale, si sostituisce a Dio come
fonte di attribuzione dei diritti.
Alla fine del XVIII secolo risalgono infatti, dopo la
rivoluzione dei coloni inglesi in Nord America, i primi testi giuridici
in cui i diritti umani vengono formalizzati (sulla carta) come diritti
universali, - self-evident - propri dell’essere
umano senza specificazioni, e si propongono di limitare l’arbitrarietà
del potere dispotico ma anche di legittimare, come accade ad esempio con
le Costituzioni americane, il potere politico.
La prima vera Carta dei diritti universali è però quella più controversa
e celebre, redatta nella Francia del 1789
all’inizio di una Rivoluzione che doveva affermare una democrazia
basata su una teoria dei diritti per come era stata formulata dalla
versione rousseauiana del Contratto Sociale e e poi dall’idea della
libertà kantiana, ovvero come strumenti di partecipazione alla creazione
delle leggi da parte di coloro i quali sarebbero poi stati soggetti a
queste leggi stesse.
Fin dal titolo della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789 però, appare implicita la tensione
tra la proclamata universalità dei diritti umani e il particolarismo
dell’appartenenza alla nazione francese come presupposto per
l’attribuzione di quegli stessi diritti.
È in questo
momento che il movimento inclusivo della civilizzazione democratica si
inverte, si confina, e diventa indispensabile la ridefinizione in
negativo di chi non appartiene nel momento in cui si ridefinisce in
positivo chi appartiene e quindi chi è titolare di diritti attribuiti
attraverso l’appartenenza alla nazione.
Non è un caso che proprio questo periodo storico di ridefinizione della
cittadinanza e del territorio nazionale, Foucault collochi il passaggio
dalla guerra tra razze al razzismo di Stato, necessario per sviluppare
la forma biopolitica di quel potere che inizia a esercitarsi, nel corso
del XIX secolo, come potere di far vivere una parte della popolazione,
quella cui venivano attribuiti i diritti tramite la cittadinanza, e di
lasciarne morire un’altra, cui mancava lo status per vedersi attribuiti
quei diritti che erano appena stati definiti, paradossalmente, come
universali.
La prima delle categorie confinate
in negativo nella ridefinizione dei confini della nazione, del
territorio e della cittadinanza fu, ovviamente e ancora prima che quella
dei poveri e dei marginali autoctoni, quella degli stranieri.
Possiamo dire che questo nodo non sia ancora stato sciolto e che, secoli dopo, come ha scritto Benhabib in un bel libro dal titolo “I diritti degli altri”, “da un punto di vista filosofico le migrazioni transnazionali portano alla ribalta il dilemma costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali: quello tra la rivendicazione del diritto sovrano all’autodeterminazione, da una parte, e l’adesione ai principi universali dei diritti umani, dall’altra”.
Anche e soprattutto in epoca di globalizzazione,
nonostante l’evidente disgregazione dei concetti tradizionali della
sovranità, il confinamento della cittadinanza su base nazionale continua
ad apparire tuttavia come il modo in cui il potere continua ad
esercitare il monopolio, almeno formalmente. E il
principale strumento di confinamento della cittadinanza sono, oggi più
che mai, le politiche migratorie.
La situazione appare
immutata anche a fronte di due fondamentali cambiamenti, il primo
rispetto alla definizione dei diritti umani e il secondo rispetto alla
situazione geopolitica in cui noi europei ci ritroviamo a vievere:
Il primo avviene nel XX secolo quando, dopo gli orrori
delle guerre mondiali, si arriva alla scrittura
della Dichiarazione Universale dei diritti umani nel 1948 e, a partire
da questa, di tutti quei documenti fondamentali nella storia della
positivizzazione dei diritti umani come la Convenzione europea
dei diritti umani o la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato
nel 1951.
Ma è proprio per quanto attiene i diritti dei migranti, anche la
dichiarazione del ’48 conferma la sovranità degli Stati come limite dei
diritti umani:
Il diritto di chiedere asilo, ad esempio, è
riconosciuto come diritto umano, il dovere di garantire l’asilo
continua a essere gelosamente custodito dagli stati come una prerogativa
sovrana, (e su questo presupposto, con l’avallo dell’Ue, è stato
smantellato e trattato come un orpello di cui disfarsi fin dal 1990,
anno della Convenzione di Dublino che si colloca all’origine di un
processo che ha raggiunto l’apice della sua violenza con i respingimenti
in Libia);
Al diritto di emigrare non corrisponde
alcun diritto di immigrare, e quindi alcun dovere da parte degli Stati
di accogliere;
Al diritto di avere una cittadinanza non
corrisponde alcun dovere da parte degli Stati di attribuirne una.
Per di più, le norme di confinamento della cittadinanza e di gestione delle migrazioni continuano a violare, oggi più che mai, quella concezione rouseeauiana di partecipazione che è stata poi ripresa da criterio democratico definito da Habermas nella sua ideale teoria del discorso come il presupposto per cui coloro sui quali ricadono le conseguenze delle norme dovrebbero prendere parte alla loro formulazione.
Il secondo fondamentale cambiamento, per quel che
riguarda il nostro continente (e non solo quello contenuto dentro i
confini della cartografia ufficiale) è la nascita
dell’Unione europea, entità sovranazionale in via di ridefinizione.
Anche in questo caso, formalmente, la cittadinanza rimane lo
strumento di attribuzione della maggior parte dei diritti fondamentali,
anche se formalmente, dopo le dichiarazioni sopra citate, alcuni diritti
dovrebbero oggi azionabili direttamente dagli individui e garantiti
indipendentemente dall’appartenenza nazionale. La cittadinanza inoltre,
rimane confinata su base nazionale anche se a questa base si aggiunge,
in una somma di status, la cittadinanza di livello europeo. Come dire
che la prima selezione di coloro i quali andranno a
formare la categoria dei cittadini europei resta prerogativa degli
stati membri, e che sempre i singoli stati decideranno (pur
seguendo le norme minime imposte dalla normativa europea su questa
materia) su chi resterà escluso.
Adesso, dopo avere parlato dei diritti posso entrare
nello specifico dei confinamenti e anche qui non posso evitare di
“sconfinare” nel tema della cittadinanza.
Il
confinamento della cittadinanza in senso escludente, parallelamente e
necessariamente, ha sempre comportato e comporta oggi più che mai,
anche il confinamento fisico delle persone che restavano formalmente ai
margini o escluse dai confini tracciati.
Seppure con delle
profonde differenziazioni nella loro tipologia, i dispositivi di
confinamento fisico hanno sempre accompagnato l’esistenza delle
categorie di popolazione escluse dal “diritto ad avere diritti” (che,
come abbiamo detto, smette la sua pretesa universalità nel momento in
cui rivela la necessità che uno Stato lo tuteli e dia ad esso
concretezza).
Ci sono le case di cura ai tempi del “grande
internamento”, i campi coloniali di fine XIX secolo, i campi di
concentramento per apolidi tra le due guerre mondiali e poi Lager,
Gulag, per arrivare fino ad oggi centri di detenzione per migranti
sparsi in tutta Europa. Ho sempre sottolineato quanto sia importante
evidenziare le discontinuità che esistono tra questi dispositivi, ma una
linea di continuità altrettanto importante sicuramente esiste ed è
quella che tutte le categorie che di volta in volta sono state internate
in questi luoghi sono comunque state escluse dal diritto ufficiale, non
dalla società, attraverso la creazione di un diritto parallelo che usa
l’internamento amministrativo come normale modalità di gestione di una
part della popolazione.
Continuità, quindi, ma nella differenza. Differenza del contesto
storico, della matrice politica sociale ed economica, e di conseguenza
della funzione di questi luoghi di confinamento. Le funzioni che ci
interessa analizzare oggi sono quelle contemporanee.
Se la globalizzazione sta portando all’esplosione delle
vecchie categorie del territorio e della sovranità - e ovviamente della
nazione - è proprio l’indebolimento della sovranità nazionale e anzi, la
disgiunzione tra la sovranità e lo Stato-nazione, sta inasprendo le
pratiche di confinamento di quelle che sono ancora le entità su cui lo
Stato esercita un controllo: ovvero la concessione della cittadinanza e
il territorio il cui controllo si esercita principalmente controllando
la mobilità che lo attraversa.
Mentre, come ben racconta un recente
libro di Wendy Brown, una vera e propria frenesia nell’ergere “muri” di
confinamento ha preso gli Stati di tutto il mondo (da Israele al
Marocco, dall’Irak a Padova), questi processi contemporanei rendono con
ancora maggiore drammaticità l’aporia intrinseca nel concetto stesso di
diritti dell’uomo nel momento in cui, con l’attuale entità dei nuovi
fenomeni migratori, solo per fare un esempio italiano, i quattro milioni
e mezzo di migranti presenti sul nostro territorio non hanno
formalmente alcun diritto di partecipare a quelle scelte politiche che
decideranno le leggi che andranno a governare le loro vite.
Questo vale ovviamente prima di tutto per le persone senza documenti, ma
la condizione di estraneità permanente è una condizione in cui di cerca
di mantenere tutte le persone in una scala di livelli che, come hanno
detto prima di me Sandro e Nicola, è espansiva. Ci si oppone al fatto
che le migrazioni siano sempre più un dato strutturale, cercando di
creare nella vita dei migranti l’estraneità permanente utilizzando tutti
i mezzi politici e giuridici a disposizione.
La minaccia dell’internamento grava su ciascuno di loro, il possesso di
un permesso di soggiorno viene dato in via premiale, sempre più concesso
in maniera discrezionale, e viene legato a esami e prove da superare
come accade in gran parte dell’Europa e accadrà, con l’introduzione del
permesso di soggiorno a punti, anche in Italia.
Di fronte al fatto che anche e soprattutto in tempo di
crisi i dati dimostrano che il lavoro migrante è necessario alle nostre
economie, per continuare a indebolire, a partire dalla mancanza di
diritti e rivendicazioni dei lavoratori migranti anche i diritti di
tutti gli altri lavoratori, i dispositivi di
confinamento svolgono adesso una funzione ben precisa e diversa da tutte
quelle dei campi del passato.
È inutile ribadire che il
loro fine non è lo sterminio degli internati né il loro annientamento, e
che la loro morte viene considerata solo un effetto collaterale di un
sistema che mira ad altro; va sottolineato ancora che l’espulsione dal
territorio è solo l’obiettivo dichiarato e mai raggiunto dai centri di
detenzione: Vassilis parlava di 300.000 persone arrestate e deportate
ogni anno in tutta l’Europa. Sembra una cifra consistente perché
parliamo di vite umane, ma in realtà rispetto alle percentuali di
migranti presenti sul territorio è davvero una cifra irrisoria.
Io
lego sempre i centri di detenzione istituzionali, quelli con le guardie e
il filo spinato, alle zone di concentramento più o meno autogestite dai
migranti, che si trovano in prossimità dei luoghi di maggiore
sfruttamento lavorativo, come a Rosarno o a Cassibile o lungo le
frontiere degli Stati europei come a Calais o a Patrasso, o alle
frontiere esternalizzate dell’Unione europea, come succede in Marocco.
Credo che tutti questi luoghi di confinamento, centri di
detenzione e zone di concentramento insieme, oggi svolgano non solo una
funzione di gestione della mobilità migrante, e quindi non di
annientamento , ma che in tempo di crisi di comincino a svolgere
addirittura una implementazione di questa stessa mobilità migrante.
E il confinamento che esercitano, anche quando non è direttamente
subito ma solo minacciato - dobbiamo sempre immaginare anche la
“proiezione” dei dispositivi di confinamento non solo in relazione alle
persone che vi vengono detenute o attraversano le zone di concentramento
- è funzionale alla produzione di quella
estraneità permanete che è prerogativa indispensabile per il
non-esercizio dei diritti.
I confinamenti (e la minaccia
dei confinamenti) imprimono la mobilità forzata e regolata da un campo
di forza che produce i percorsi confinati dei migranti, ne garantiscono
l’anonimato e l’interscambiabilità all’interno di un
modello di sfruttamento che va a nuova velocità e che ha bisogno della
movimentazione delle persone o della perenne possibilità di
movimentazione delle persone.
Vi leggo il piccolo brano di un’intervista trovata in un libro che non è molto famoso, ma che secondo me è molto bello: è un libro di Guido Tassinari che si intitola: “Quelle voci dal Vuoto”:
“fate di tutto per impedirmi di insediarmi stabilmente nel vostro paese, che posso costruire per voi ma non posso far mio col mio lavoro. Il suo frutto è raccolto da voi, miei padroni, in un senso più radicale e alienante di quello con cui se n’appropriavano i padroni dei vostri progenitori. I capitalisti d’oggi guadagnano sul continuo ricambio della manodopera emigrata”
Ovviamente questo è un discorso che si può riproporre su
varie scale e vari livelli, è un discorso in cui anche tutti noi
precari possiamo ritrovarci, a un livello di sfruttamento ovviamente
differente. Quello che voglio dire è che in ogni caso la stabilità
temporale e spaziale, infatti, appare prerogativa fondamentale per
l’affinarsi di quelle strategie di rivendicazione ed esercizio dei
diritti che i migranti da anni stanno attuando in tutta Europa
sconfinando dai limiti imposti dalla sovranità alla categoria della
cittadinanza come unico strumento della loro attribuzione.
Fino a
questo momento, come diceva prima Vassilis, alla mancata possibilità di
esser stabili combattendo l’estraneità permanente, i migranti hanno
saputo sopperire attraverso l’accumulazione di un sapere che è rimasto
nei luoghi delle loro lotte anche oltre la deportazione di quelli che
quelle lotte avevano materialmente messo in campo: oltre
Rosarno rimane Rosarno, resta il significato di quella lotta e di
quella ribellione anche se chi ha combattuto non è più lì.
Cosa è questa stabilità spazio-temporale di cui sto parlando? È il presupposto stesso dell’apparire in una sfera pubblica condivisa in cui i diritti di queste persone non dipendano più dalla convenienza o dal benvolere di altre. Pensiamo al caso delle badanti e al confinamento particolare che segna la vita di questa categoria di lavoratrici. Cosa è stata l’ultima sanatoria se non una farsa il cui esito è dipeso dalla buona volontà dei datori di lavoro. I diritti quindi diventano concessioni che dipendono addirittura dall’arbitrarietà del privato. Ovviamente questo discorso, a un livello diverso, può essere esteso anche alla condizione di molti di noi. Io trovo strepitosa, in questo senso, l’indizione della manifestazione di Roma per il primo marzo a Monte Citorio: a scuola di clandestinità nell’unione delle precarietà e nell’affermazione di una clandestinizzazione che accomuna a diversi livelli anche tutti noi autoctoni e le nostre vite.
Da anni oramai milioni di uomini e donne stanno sconfinando dallo spazio materiale e simbolico in cui vengono relegati come categoria di lavoratori interscambiabili e privati di diritti soggettivi, in cui la morte e l’espulsione di alcuni sono un effetto collaterale previsto e funzionale. Ciò a cui sconfinando si oppongono è quel tentativo di impedire loro di costruire legami e relazioni, di parlare, agire, avere opinioni, e da qui di ribellarsi e scegliere quando e dove fermarsi.
Per questo io credo, guardando in questa maniera ai diritti, ai confinamenti e agli sconfinamenti, che - anche se lo sciopero del primo marzo non sarà fatto nelle sue forme tradizionali e sindacali perché a queste forme non risponde comunque più la gran parte del lavoro migrante ma anche di quello precario degli autoctoni - l’idea di scomparire dall’economia e apparire nella vita vada bene in qualunque forma sia esercitata ed è fondamentale che si leghi nei presupposti e nella storia alla rivolta di Rosarno.
È a Rosarno che i migranti hanno sconfinato la zona di concentramento informale dei vecchi edifici abbandonati che era l’unico posto, oltre alle campagne dove lavoravano, in cui era loro concesso di stare; è a Rosarno che i migranti non hanno accettato di andare via di nuovo nel silenzio quando glielo hanno imposto,anche se la deportazione è arrrivata a posteriore; è a Rosarno che i migranti hanno cessato di essere alcuni tra tanti, che si sono materializzati nel tentativo di infrangere il campo di forza costruito attorno ai loro corpi, agendo uno straordinario anche se drammatico momento di sconfinamento e rivendicazione di diritti. Anche se la risposta è stata ancora una volta quella della mobilità forzata io credo che in questo senso i migranti abbiano cercato di esercitare a Rosarno il diritto di restare.