Una riflessione a caldo sulla giornata del 15 ottobre

Grande manifestazione oggi a Roma, 15 ottobre 2011

Utente: piafrate
17 / 10 / 2011

Grande manifestazione oggi a Roma, 15 ottobre 2011. Una manifestazione che ci colpisce per la massa di persone, quasi come durante i social forum all’inizio del duemila, considerando che la CGIL e alcuni partiti non hanno partecipato! Abbiamo incontrato una parte del corteo al Colosseo, un’altra parte, ci diranno dopo, era già arrivata a p.zza San Giovanni, e, mentre attendevamo lo spezzone COBAS, anch’esso numeroso come non mai con diverse migliaia di persone, transitano, senza bandiere di riferimento che caratterizzano gruppi, in maniera quasi militare, migliaia e migliaia di giovanissimi, forse oltre cinquemila, bardati, pronti allo scontro, pronti all’occasione… che non poteva mancare. Già prima a via Cavour ci era stato detto che avevano incendiato auto spezzando il corteo. Così si ripete a via Manzoni si incendiano automobili e una struttura del ministero della difesa e il corteo si spezza nuovamente. Alcuni vanno per via Merulana e continueranno a fronteggiare la polizia fino a San Giovanni. Ma l’area Cobas è avvezza, almeno a Roma, a situazioni simili e supera le difficoltà e arriva con il suo camion e migliaia di persone a p.zza San Giovanni. Dalla basilica in lontana si vedono lanci di pietre e tentativi di respingere con mezzi blindati e con l’acqua da parte della polizia… così si andrà avanti ancora per un po’. Leggiamo ora che altri sono stati deviati al Circo Massimo a dimostrazione della grandezza della manifestazione e della sua potenziale forza rigenerata.

Tante le considerazioni che si possono fare a partire dagli scontri sempre orchestrati nella stessa maniera che da Genova conosciamo: gruppetti organizzati e in coordinamento costante che approfittano delle falle del corteo e fanno blitz il cui risultato (voluto o meno) è quello dello spezzettamento del corteo… proprio come a Genova la domenica seguente all’assassinio di Carlo Giuliani. Non si può dire nemmeno che fossero pochi: una parte consistente del corteo, tutta omogenea per età, era pronta e disponibile a tali azioni. Le occasioni per distruggere non sono mancate: automobili parcheggiate su tutto il percorso del corteo, cassonetti invitanti ecc., come a Genova tutto a disposizione nonostante spesso per altre manifestazioni non necessariamente politiche le amministrazioni non permettono la sosta e rimuovono i cassonetti. E la giornata è andata anche bene poiché la grandezza della manifestazione, ripetiamo fitta fitta e con tanti pronti allo scontro, forniva una possibilità di infiltrazioni e incidenti ampia. Anche la dislocazione della polizia era di minore intensità visiva, se così possiamo dire, di altre volte.

Gli scontri danno una visibilità non indifferente alla manifestazione. Anche una caratterizzazione di forza e di rottura di schemi di dibattito politico solo razionale e un messaggio di risposta violenta che sicuramente riesce a simboleggiare una resistenza possibile davanti alla violenza del potere. Ovviamente il veicolo di tali messaggi rimane il mass-media a cui tutto è immolato. E non potrebbe essere altrimenti in un mondo dove l’immaginario si crea sullo schermo.

Ora per noi che partecipiamo a queste manifestazioni le sensazioni sono varie: davanti a gesti distruttivi che comunque richiamano appunto una risposta alla violenza del potere rimane una riflessione a metà: né di completo biasimo, siamo consapevoli che gli strumenti di reazione alla violenza quotidiana spesso sono troppo labili; né di completa accettazione della distruzione in sé. Ci sembra che questa violenza si riconduca ad un elemento solo politico-teorico e non abbia con sé l’elemento sociale necessario, tanto più se gli atti violenti li fanno giovani o giovanissimi ancora poco “incastrati” nei problemi sociali.

Si ripropone quindi ogni volta, davanti a manifestazioni di massa che vorrebbero rompere con la “calma” delle molte manifestazioni/happening, che in Italia invece di produrre unità e rete rinviano al corteo successivo questi decisivi elementi, la stessa problematica sull’uso della disobbedienza attiva con atti distruttivi simbolici e del suo congelamento e rinvio al giorno x della rivoluzione.

Ovviamente il quadro sintetizzato è schematico. Ci aiuta e ci porta ad una riflessione successiva che riguarda le prerogative dell’uso della disobbedienza attiva che può passare anche su una violenza distruttrice. Deve però essere indirizzato su un terreno politico ridefinito su quello sociale, più articolato e più consono ad una rappresentazione dell’immaginario disobbediente che può avere una valenza mediatica forte ma anche un immediato messaggio simbolico definito a classi e gruppi sociali esistenti. Avremmo avuto problemi a chiamare il movimento articolandolo secondo le sue specificità (lavoro, reddito, scuola, giustizia, beni comuni, pace ecc.) e attaccando i simboli del potere con tutta la rabbia che ognuno di noi era in grado di esplicare? Se avessimo chiesto alle famiglie che non arrivano oramai a fine mese; ai lavoratori della scuola frantumata; ai movimenti contro la guerra; a quelli per la giustizia giusta e così via, di trovare il terreno di confronto non solo nella teoria della politica ma anche attraverso il disagio del sociale, forse torneremmo agli splendidi giorni di Genova e dei social forum dove si stava rompendo antropologicamente e necessariamente con l’ombra allungata della lotta politica di classe secondo paradigmi degli anni ’70 sempre presenti nei gruppi strategicamente creatori della rappresentazione della lotta. Non a caso a Genova ci fu un attacco terribile al movimento.

Paesi stranieri sembra abbiano superato la fase di una nuova rappresentazione della lotta di classe e la vivono, anche i giovani, secondo i nuovi modelli esistenti restituendo al movimento oltre che forza e coraggio anche sincerità e trasparenza, accoglienza e partecipazione, umiltà e serietà nell’azione.

La violenza quindi dovrebbe essere superata non eliminandola dal lessico e, così credendo, dalle nostre quotidianeità, come vorrebbe il potere, esso sì violento, ma indirizzandola su un versante di disobbedienza reale e costruita per rimanere tale che cioè si faccia cultura e avvolga tendenzialmente tutto il nostro vivere e tutte le nostre azioni ogni giorno. Questo manca ad una manifestazione come quella di oggi: la prerogativa giovanile della disobbedienza violenta non fa altro che ingombrare il necessario immaginario della lotta di classe e renderla tale solo per un pomeriggio, relegando la cultura della disobbedienza a momenti individuali e senza ampio respiro. 

Così forse usciremo dalla logica della frammentazione del movimento e dei gruppi organizzati che non può più basarsi su elementi di natura solo teorico/politica ma deve trovare costanti nodi di rete dall’appartenenza sociale e comunitaria, se non di classe. Fare questo passaggio è difficile anche perché alcuni gruppi organizzati o meno, comunque sempre meno numerosi, ma che sanno rappresentarsi nel mondo delle relazioni virtuali molto bene, difficilmente rinunciano a quel brodo di coltura dove essi stessi traggono l’unica linfa per sopravvivere.

Si vuole ribadire insomma che sarebbe il caso che le nostre lotte sociali e quotidiani, come individui, lavoratori, famiglie, comunità, fossero portate decisamente all’interno di un confronto politico di disobbedienza ampio e anche duro e di scontro: costruiremmo compiutamente un altro futuro e dimensioneremmo i metodi di lotta necessari contro questo violentissimo sistema di potere, pronti a scardinarlo, a frantumarlo e a non ricostruirlo più né con noi né senza di noi.