Spolpare le viscere dell’Amazzonia

Lago Agrio, Amazzonia ecuadoriana, oggi: i danni ambientali e sanitari prodotti dalle compagnie petrolifere che si sono appropriate di terre in cui per secoli han vissuto popolazioni indigene quali i cofánes.

23 / 12 / 2021

Lago Agrio, Amazzonia ecuadoriana, oggi: i danni ambientali e sanitari prodotti dalle compagnie petrolifere che si sono appropriate di terre in cui per secoli han vissuto popolazioni indigene quali i cofánes. La trentatreesima puntata della rubrica "Suture”, a cura di Valeria Andreolli.

Cammini per la strada trafficata che porta al mercato centrale nel caldo appiccicoso e stanco delle undici del mattino. Attorno a te c’è la confusione di mille voci, gas di scarico e un arcobaleno di colori innaturali. Fino a sessant’anni fa qua non c’era niente di tutto ciò: il silenzio era interrotto solo dai cigolii degli uccelli e dagli strilli delle scimmie che saltavano da un ramo all’altro, l’aria era pulita e il verde elettrico della foresta regnava incontrastato. Uomini e donne pescavano nelle acque tranquille del fiume e coltivavano fagioli, platano e yuca in piccoli orti comunitari ritagliati tra le foglie e i tronchi fitti. Si costruivano canoe e si fabbricavano collane e copricapo di semi, piume e fibre. Gli sciamani bevevano l’ayahuasca, si trasformavano in tigri o in boa e assumevano il potere di vedere il futuro. Tuo padre diceva sempre di ricordare bene le parole uscite dalla bocca di un anziano che, sotto l’ombra di un ceibo, con gli occhi chiusi e la voce improvvisamente baritonale diceva che sarebbero arrivati degli stormi di picchi che con il loro becco bianco e appuntito avrebbero perforato, instancabilmente, ogni singolo albero della foresta fino a farne uscire una resina nera e collosa che sarebbe caduta al suolo intrappolando per sempre chi osava calpestarla. 

Tu avevi otto anni, ma te lo ricordi bene il giorno in cui un uccello meccanico e rumorosissimo era apparso nel cielo limpido sopra le vostre teste. Era stato in quel momento che tutto era cambiato, che la tua vita semplice ed appartata era stata sconvolta per sempre. Insieme agli elicotteri erano sopraggiunte macchie nere che galleggiavano indisturbate sull’acqua cristallina del fiume attorno a cui ruotavano la maggior parte delle vostre attività quotidiane. Sciacquarsi, lavare il bucato, bere era diventato impossibile. Senza preavviso e senza averne il diritto, qualcuno era arrivato e aveva deciso che la vostra vita non valeva poi così tanto, che era sacrificabile in nome di denaro e profitto, termini a voi allora sconosciuti. Perché avevate imparato che di petrolio si muore. Si muore nuotando nel fiume perché l’acqua tossica si conficca in qualsiasi corpo osi sfidarla, fa vomitare sangue e uccide in sole ventiquattr’ore, come è successo al tuo primo figlio. Si muore di tumore all’utero, come è successo a tua madre. Si muore perché il reparto oncologico più vicino dove ti possono curare è a Quito e Quito è a sette ore di pullman da Lago Agrio e non hai le forze, il tempo e il denaro per permetterti la chemioterapia, come sta succedendo a tuo cognato. Si muore perché l’ambiente è talmente malsano che la vita lo rifugge, come è successo al corpicino informe che fuori dal grembo di tua moglie non ha resistito più di sei mesi. Si muore silenziosamente e senza soluzione di continuità nel bel mezzo del polmone verde e palpitante del pianeta, insozzato da pozzi e piscine colme di fanghi e del sangue del Dio nero che, non appena è stato scoperto nelle interiora dell’Amazzonia, ha svegliato l’interesse dell’uomo bianco per queste terre che per secoli aveva guardato diffidente solo da lontano. Negli anni sono cambiati i nomi delle mani che sono venute a frugare nel corpo della foresta, ma l’atto, il disprezzo e l’arroganza sono sempre gli stessi. E tu lo sai bene, perché per quelle mani ci hai lavorato. Come un po’ tutti qui. Hai montato e smontato tubi per due anni. Poi un giorno, dopo uno dei prelievi di sangue che ti venivano fatti di routine settimanalmente, ti hanno comunicato che a partire dal lunedì seguente la tua presenza nella piattaforma non sarebbe più stata necessaria. Le analisi non le hai mai viste.

Stai andando al mercato a comprare una papaya e della guaba. Hai in tasca quattro dollari. I soldi, una cosa che i tuoi genitori non sapevano neppure cosa fosse e di cui tu invece hai dovuto imparare il valore. Hai dovuto imparare cosa sono le malattie e cosa sono le medicine, non quelle fatte di clorofilla e di corteccia che si trovano nel più grande mercato del mondo, la foresta, ma quelle chimiche e costose che si comprano in farmacia e che a fine mese ti mettono di fronte alla drammatica scelta se usare il tuo misero stipendio per pagarti le cure o per il cibo con cui ti devi sfamare. Perché niente ti è regalato, se non il cancro che ininterrottamente piove dal cielo sottoforma di polvere nera. Quando c’è vento si riversa sui tetti sulle vostre case, sui campi che vi forniscono il pranzo e la cena, scivola dentro i vostri polmoni e si mescola all’acqua che cade dal cielo e che consideravate l’unica fonte idrica potabile da quando il fiume ha perso il suo azzurro per dipingersi di nero pece. La polvere si genera dalla mortifera combustione di quelli che chiamate mecheros de la muerte. Tu abiti a poche centinaia di metri da una delle quattrocentocinquanta torce che ardono ventiquattr’ore al giorno sopra la vegetazione esuberante e che con il loro calore insopportabile e la loro luce accecante attirano a sé falene e coleotteri che trovano la morte tra quelle fiamme tossiche. Bruciano giorno e notte il gas che il suolo sputa quando gli si ruba il petrolio. Dicono che convenga più bruciarlo, rilasciare quantità insostenibili di anidride carbonica e metano, farvi ammalare, contaminare l’acqua e le coltivazioni e importare il gas dall’estero piuttosto che utilizzare la tecnologia esistente per convertirlo in energia elettrica.

Entri nel chiasso incalzante del mercato e getti uno sguardo triste ai vermi dorati e grassi che si allungano e si contorcono dentro una cesta di foglie di palma. Ricordi quando andavi a cacciarli dentro ai tronchi delle palme. Ti dirigi verso il banco della frutta, pensando che tutte le ricchezze che i tuoi antenati ricevevano gratuitamente dalla foresta hanno acquisito un prezzo a partire dal momento in cui si è deciso che questo angolo di mondo indisturbato ed autosufficiente dovesse entrare a far parte del mondo civilizzato fatto di asfalto, plastica e benzina.