Politiche della moltitudine, assemblea come strategia (terza parte)

16 / 2 / 2022

Il giorno 8 novembre 2021 al Laboratorio Occupato Morion di Venezia si è tenuto l’incontro “Politiche della moltitudine. Assemblea come strategia”, decimo della rassegna Art of Assembly[1], in collaborazione con il Goethe Institut all’interno del programma Performing Architecture 2021. L’incontro ha visto come ospiti il filosofo Toni Negri[2], l’attivista di Rise Up 4 Climate Justice Anna Clara Basilicò[3] ed è stato moderato da Marco Baravalle, ricercatore, curatore e attivista. Di seguito il dibattito che ha seguito i due interventi.

In un passaggio dell’intervento , Toni, dici che l’orizzonte è fosco, ma credo che non dobbiamo distogliere lo sguardo. La moltitudine, almeno in Europa e in Occidente, sembra attraversata da tensioni reazionarie, e spesso veicola un’idea di libertà individualista e priva di solidarietà di individualismo, ne accennava Anna Clara e ne scriveva recentemente Sergio Bologna, in alcuni articoli a mio avviso illuminanti. Una concezione di libertà intrecciata a varie forme di complottismo e di rifiuto dei saperi scientifici, che non di rado si trova ad essere maneggiata anche da gruppi neofascisti. Non credo però che siano i gruppi di estrema destra, il dato più inquietante: possiamo affermare che la pandemia anche in Europa stia accelerando un fenomeno di “trumpizzazione” delle moltitudini, o siamo di fronte a qualcosa di diverso?

TONI NEGRI

Parlare di “trumpizzazione” vuol dire mettere Trump ovunque, farlo tracimare dalle situazioni in cui il trumpismo si è formato e si è affermato. Direi comunque che questa è una preoccupazione seria. Deriva secondo me da un nostro disagio, da un disorientamento che troviamo in questa situazione. Dobbiamo stare attenti perché da un lato la malattia c’è, è pesante e forte. La pandemia esiste, i morti sono tanti. D’altra parte, è fuor di dubbio che c’è stata un’operazione dei governi, un’operazione del capitalismo di cattura della cura. Ed è un’operazione alla quale siamo obbligati a concedere il passaggio, ne va della vita. È in questa situazione che il disagio e il disorientamento si determinano. E tutto questo è aumentato dal fatto che quest’operazione sistematica e continua, che è quella di assumere la pandemia come elemento di rafforzamento del governo e di impedirci, sulla base di un ricatto, quello della morte, di resistere, è una situazione data. È una situazione nella quale si tratta di capire fino a che punto si riesce a smascherare questo tipo di operazione. Questo non significa che il vaccino sia in ballo…Non è il vaccino che è in ballo, ma il tipo di organizzazione, di controllo, che da parte dello Stato viene imposta sulla moltitudine di cui siamo parte attiva. Bisogna stare molto attenti a muoversi in questa situazione: sono d’accordo sulla trasformazione dello stato di eccezione in uno stato di accettazione cronica di una regola di potere, su cui per esempio la resilienza è organizzata. Il piano che Draghi ha costruito è il PNRR, ricostruzione e resilienza; la resilienza è l’elemento centrale su cui il governo cerca di promuovere, dietro un’azione di cura, lo smantellamento del sistema del welfare, attraverso ad esempio la privatizzazione. Cerca di rimuovere quelle che sono le nostre difese. Questo è il problema su cui dobbiamo insistere: la moltitudine è fosca, ma è fosca dentro un gioco che va smascherato.

Io sono nato negli anni ’30; alla fine della guerra avevo una decina di anni. I comportamenti in quegli anni erano di costruzione, di cecità, come quelli che vediamo oggi. Li abbiamo superati grazie alla capacità di associarsi, di muoverci, di inventare ideologia e prospettive di sviluppo, di lotta. Quando ho sentito parlare di questo stato di accettazione che non c’è modo di rompere, mi sono venuti in mente Mbembe o altri autori dell’african pessimism, che vedono la situazione attuale come tanatologica, una situazione di morte. Come se, per esempio per quanto riguarda la condizione nera, non ci fosse possibilità alcuna di rottura, una situazione che è quella del suicido. Dobbiamo assolutamente rompere questa situazione con l’apologia. La moltitudine è sempre due cose, una positiva e una negativa. Oggi indubbiamente più negativa; ma lo spazio in cui dobbiamo batterci è questo, ed è uno spazio aperto, in cui c’è contraddizione. E non dobbiamo assolutamente tornare alla normalità, perché era la normalità il problema, come dicono i nostri compagni dell’America Latina.

Di fronte alle difficoltà Toni ha sempre indicato di non distogliere lo sguardo, ma di guardare nel cuore della catastrofe; lo ha fatto negli anni ’80 con il postmoderno, lo fa anche oggi. Parliamo quindi di spazi che si aprono, del lato positivo delle moltitudini. Anna Clara, Rise Up For Climate Justice, il movimento di cui fai parte, scommette che uno dei terreni privilegiati proprio per il rilancio della produzione del comune sia quello della giustizia climatica. Dal tuo punto di vista, perché una prospettiva anticapitalista, che guarda quindi alla costruzione del comune, non può fare a meno di investire in questo terreno di lotta?

ANNA CLARA BASILICO’

Non credo sia possibile concepire una lotta per la giustizia climatica che non contempli un elemento intrinsecamente anticapitalista. Per articolare meglio questo concetto, che da una prospettiva situata come la mia pare un’ovvietà, forse basta partire dalla mission, che è un termine che piace al capitale, del capitalismo stesso: l’accumulazione infinita di valore. Un’accumulazione che passa dall’estrazione di valore dai corpi, dai territori, dagli animali umani e non umani. Se noi partiamo da questo paradigma, inevitabilmente ci rendiamo conto che il terreno della giustizia climatica si sottrae a questa logica, perché prevede che l’ecologia e il sistema ecologico venga mantenuto e venga sottratto dalla logica dell’accumulazione di valore. Per questo mi viene da dire che è un’ovvietà: forse non completamente recepita, o quantomeno non maggioritaria. Sempre più spesso, infatti, il concetto di ambientalismo viene associato alla resilienza, per cui la resilienza si fa strumento ad uso e consumo della governance, e perciò di fatto possiamo scendere a patti e accettare delle forme di compromesso e di mitigazione della crisi climatica, in attesa che il capitalismo raggiunga uno stato tale per cui è possibile continuare a produrre, svilupparsi e crescere, ma in maniera sostenibile. Questa è la favola bella con cui il capitalismo tenta di rispondere.

È un argomento su cui si potrebbe discutere moltissimo. Un’ultima cosa utile a tracciare il quadro è una risposta storica. Il dibattito specifico sull’origine del capitalismo è ampissimo, che trova diverse posizioni. Altrettanto aperto è il dibattito sull’origine del Capitalocene, ovvero quell’era geologica in cui il capitale si fa maggior agente modificante sulla natura. All’interno di questo dibattito una delle posizioni vede l’origine di questa era nello sviluppo massivo dell’attività mineraria in Germania agli inizi del ‘500. Un’altra testimonianza coeva è quella della rivolta dei contadini guidata da Thomas Müntzer. Nei suoi scritti, in cui osteggia il potere dei principi e l’assetto governativo che la Germania sta prendendo, e rivendica il diritto a liberare l’acqua, l’aria, gli animali tutti. Da un lato, quindi, nasce e si sviluppa quel modello estrattivista che produce ed esaspera la crisi climatica, dall’altro nasce una rivendicazione che è assolutamente attuale.

Forse, quindi, anticapitalismo e giustizia climatica sono una coppia antinomica che nasce fin dalle origini.

Il tema del Capitalocene è un terreno di alternativa in cui la produzione del comune deve ingaggiare una battaglia dentro al caos a cui continuiamo a riferirci.

Parliamo di diritto alla salute. Credo che l’ordine del discorso imposto da alcune piazze, dai media, dai governi neoliberali sia profondamente deprimente. La salute è ridotta a fatto individuale, e in questo senso sanità neoliberale e movimento no vax si trovano paradossalmente a coincidere. Eppure, la storia del movimento operaio è ricchissima di lotte che hanno interpretato la salute come questione di classe, come le lotte di Porto Marghera nel ciclo della chimica, contro la nocività, oppure come questione di genere, ad esempio nel femminismo italiano delle origini. A Toni Negri chiedo, cosa bisogna recuperare di queste storie, per imporre un diverso ordine del discorso? Per spostare il fuoco sui brevetti dei vaccini, sull’asimmetria decoloniale della loro distribuzione, sulla necessità di una sanità pubblica all’altezza, a misura di territorio e in grado di tenere insieme dimensione sanitaria e dimensione sociale… c’è qualcosa che ci stiamo dimenticando, della storia dei movimenti, della classe operaia, del movimento femminista, e che potrebbe essere utile per riattivare dei percorsi di costruzione del comune?

TONI NEGRI

Mi sembra molto bella la storia citata prima, di Thomas Münzter. Quando prima citavo Spinoza, dicevo che oltre il popolo c’è la moltitudine che nasce nel caos della guerra, del mercato, dell’accumulazione originaria. Questa moltitudine ha dietro di sé la parola francescana, del Cristo, ma anche delle sette protestanti che derivano il loro discorso insieme a Münzter. All’inizio del ‘600 vi è un nodo centrale sull’accumulazione primitiva da un lato, e dall’altra parte su una grande apertura alla natura, alla libertà della natura. Non dobbiamo però dimenticare che la libertà della natura è sempre in discussione: anche la malattia è natura. Nel rapporto che l’uomo ha con la natura c’è sempre un filtro, che può diventare assassino.

Le lotte operaie, in particolare quella che abbiamo vissuto noi, negli anni ’70 in Veneto, ci ricordano di una lotta condotta non dal movimento operaio, perché i sindacati facevano i contratti, e per 50 lire si accettava di farsi avvelenare dall’impianto chimico. Il comitato operaio, invece, fece una battaglia feroce, fino a impiantare un Gesù Cristo davanti alla porta di Marghera, contro la nocività. Inoltre, tutto il lavoro fatto dalle compagne, ad esempio Maria Rosa Dalla Costa, su questo terreno è stato un lavoro enorme, contro il femminismo identitarista, oggi diventato la frangia più importante del femminismo internazionale. Tutto il discorso era fondato sulla struttura della sanità delle donne, con i primi nuclei contro il divieto d’aborto.

Mi vengono in mente molte cose importanti su questo terreno, per uscire da questa fosca moltitudine.

Pensiamo ad esempio la lotta contro l’AIDS, che ha contribuito a determinare l’inversione tra medicina e attività del malato; ha sancito la conquista della capacità di cura da parte del malato. Un altro ricordo fondamentale riguarda un grande sciopero delle infermiere nel mio primo periodo in Francia, negli anni ’80, legato alla realizzazione di consultori nei quartieri accanto agli ospedali. Era un ulteriore passo verso l’umanizzazione della cura. Tutto questo era un tentativo di recupero dei movimenti, della loro ricchezza umana della capacità umana di cura.

Il capitale si estende su tutta la società, e ovunque estrae valore, e dobbiamo ricordare che è fatto di due elementi, il capitale fisso e il capitale variabile, ovvero il lavoro vivo. La nostra capacità di far vivere il lavoro vivo a fronte a tutte le regole che stanno intorno ci indica la strada in cui possiamo muoverci in questa battaglia. Dobbiamo recuperare la memoria delle lotte, e il senso collettivo del diritto alla salute. Questo si fa solamente esaltando quelle cose che sono state già fatte da parte dei movimenti; qui in Francia queste cose sono state enormi. Interi quartieri sono stati seguiti da giovani antifascisti, o da brigate di compagni che aiutavano chiunque non potesse farcela da solo durante il lockdown.

Tutto questo è possibile, dovremmo essere capaci di rovesciare lo stato di accettazione in resistenza, è l’unica strada che abbiamo da percorrere.

Importantissime esperienze di mutualismo si sono date in tutta Italia, e anche qui al Nord-Est è stata messa in piedi una vera e propria rete regionale di mutualismo, che ha coinvolto sette città. È stato un momento in cui la resistenza, la produzione di comune e l’assemblaggio positivo si sono resi possibili, anche all’interno della pandemia. Ti riferivi al manichino con maschera antigas davanti al Petrolchimico, vorrei ricordare quell’intervento. È stata una performance creata dall’Assemblea Autonoma di Porto Marghera, insieme a Giovanni Rubino, intitolata Mortedison, proprio per denunciare la nocività del petrolchimico. Un altro dei concetti chiave della tua relazione è stato il tema della sussunzione del limite da parte del rapporto di capitale; concetti quali green economy e capitalismo sostenibile indicano in realtà un terreno di nuova accumulazione, la resilienza che Toni chiamava in causa. Puoi approfondire questo tema?

ANNA CLARA BASILICO’

Quando si parla di green economy e di capitalismo sostenibile il primo esempio che mi viene in mente è questo: se noi guardassimo alla produzione pubblicitaria oggigiorno dovremmo pensare sostanzialmente di aver vinto. Con questo intendo dire che se noi guardiamo le pubblicità delle case automobilistiche scopriamo che per salvare il mondo basta comprare una nuova auto elettrica, se ascoltiamo quello che ci dice Whirlpool scopriamo che per salvare il mondo basta comprare un nuovo frigorifero, o ancora che fare la raccolta differenziata è veramente l'orizzonte rivoluzionario verso cui tendere, eccetera.

Perché dico che guardando tutto questo sembra che abbiamo vinto? Perché di fatto tutto ciò è l'impianto comunicativo che il capitalismo porta avanti in questo momento e che ci dice sostanzialmente: il vostro futuro è sostenibile, tutto quello che dovete fare per vivere meglio, più felici, in una società più giusta, è prendere una serie di provvedimenti che noi vi mettiamo a disposizione. A partire da questo dato esperienziale che possiamo fare tutti osservando i grandi cartelloni sulle nostre autostrade o accendendo la televisione, ascoltando alcune radio, si apre uno scenario più profondo e decisamente più preoccupante, e che fa riferimento a una vera e propria sistematica ristrutturazione del capitalismo intorno a nodi che via via vengono definiti oggigiorno come sostenibili.

Noi non ci troviamo davanti a un meeting di tutti i petrolieri, una cosa di questo tipo la governance non la può fare anche perché altrimenti sarebbe molto facile proporre forme di assemblaggio sociale in quella direzione. Oggi la governance propone una COP all’interno della quale si discute di come gli investimenti sul metano e sull'idrogeno che gli Stati hanno già fatto possano a posteriori essere definiti sostenibili.

Ma c'è di peggio: un’altra delle frontiere della cosiddetta green economy è il commercio di emissioni. Il capitale ha aperto un fronte di scambio di flusso finanziario per cui ogni paese ha a disposizione un tot di gettoni per emissioni clima alteranti; i gettoni avanzati grazie allo sviluppo di tecnologie sostenibili che abbattono o riducono queste emissioni, possono essere venduti su altri mercati, ad esempio a Paesi che potremmo definire del Sud Globale. Quello che è stato costruito è un mercato in cui ci arroghiamo il diritto di inquinare altrove e quell'altrove è la zona di sacrificio, che infine coincide inevitabilmente con i territori colonizzati e da cui è stato estratto valore, soprattutto in termini di lavoro schiavizzato. Sono queste effettivamente le frontiere verso cui la Green Economy o il cosiddetto sviluppo sostenibile tende. Non sono delle frontiere realmente sostenibili; per immaginare delle frontiere realmente sostenibili, serve oggettivamente un ribaltamento del modello di sviluppo e del modello di produzione.

È molto interessante questo parallelismo, per rendersi conto di come effettivamente i territori colonizzati vanno ancora una volta a configurarsi come dei luoghi di estrazione di valore: qui a Venezia negli anni 70 si denunciavano gli effetti sulla salute delle emissioni del petrolchimico, pochi anni fa è stata fatta una manifestazione e un blocco nei confronti sempre di una raffineria, questa volta di Eni, che era appena stata trasformata in bioraffineria. La narrazione dominante era che quello fosse un sito sostenibile e avanzato. In realtà nascondeva il fatto che nel frattempo in Nigeria la stessa compagnia stesse distruggendo un intero ecosistema, causando guerre civili, migrazioni di massa e flussi migratori, che dirigono al Nord Globale. Questa serie di reazioni viene innescata dal capitalismo che prova a mantenere il proprio stato di salute, sussumendo i propri limiti.

La pandemia ci ha dimostrato molto bene, il fatto che il capitalismo abbia come obbiettivo la propria sopravvivenza. E’ stata innescata da uno spillover, il quale avviene in un ambiente in cui il rapporto ecosistemico viene completamente alterato, perché gli interessi produttivi sono di altra natura. La situazione a cui abbiamo assistito e in cui siamo ancora purtroppo immersi mette a repentaglio l’esistenza stessa della vita sul pianeta. Posto che la crisi climatica fa esattamente la stessa cosa, il capitalismo da questo punto di vista è stato la matrice che ha innescato la crisi pandemica: pur di mantenere la propria vitalità e la propria esistenza è disposto a mettere a repentaglio l'esistenza della vita stessa nel pianeta.

Siamo passati al tema dell'estrattivismo, Anna Clara ha citato la divisione tra Nord Globale e Sud Globale e lo spostamento verso sud delle zone di sacrificio.

L’ultima domanda a Toni Negri si collega a questo, e nasce da un'esperienza recente che abbiamo avuto qui a Venezia: la recente visita di una ventina di compagni e compagne dal Chiapas, in occasione della Gira Zapatista. Nel vostro libro intitolato “Comune” affermavate l'importanza dello Zapatismo in quanto lotta che rompe il binarismo modernità-anti modernità e in cui non si rivendica il diritto di essere ciò che si è, ma quello di diventare ciò che si vuole. Alla luce della crisi climatica, e anche di una nostra inabitudine a leggere il capitalismo in quanto regime ecologico, non pensi che le epistemologie di diversi popoli indigeni caratterizzate non da un rapporto estrattivo, ma diplomatico con la natura non umana oggi acquistino una nuova centralità, una nuova luce che ancora più rende queste epistemologie protagoniste di un altermodernità?

TONI NEGRI

Sono completamente d'accordo su questa capacità capitalista di rioccupare spazi, che indica come spazi liberi. Mi sembra che lo sviluppo capitalistico sia fatto in questa maniera: c'è una normalità che viene normalmente oltrepassata e ricostruita, questo mi sembra che sia l'elemento da tenere presente in modo assolutamente fondamentale e a cui si può collegare l’insieme dei fenomeni climatici. Ho qualche dubbio, sul fatto che l'alternativa consista in un rapporto diplomatico con Pachamama. Sono abbastanza convinto che la Natura vada rispettata fino in fondo, sono anche convinto che le tecnologie debbano essere piegate al volere delle popolazioni tramite una discussione continua e democratica. Una soggettività come Pachamama deve essere inserita come soggetto all'interno della discussione.

Purtroppo, non ho mai avuto l’occasione di andare in Chiapas. Però sono stato a lungo sia in Bolivia che in Equador. In quello che è stato il processo costituzionale boliviano, le associazioni e le popolazioni indigene erano assai impegnate nella difesa di alcuni elementi che non potevano essere superati così dai processi estrattivi. Anche Equador, dove non ho fatto parte dei lavori costituzionali, ho partecipato a discussioni con i rappresentanti delle popolazioni indigene: voi sapete che nella costituzione dell'Equador era stata assunta la Natura come soggetto col quale trattare, il rapporto non è più diplomatico ma è costituzionale. Purtroppo poi ci sono stati tradimenti, mistificazioni, rovesciamenti, la situazione si è offuscata in maniera totale. Bisognerebbe essere capaci di introdurre questo discorso in maniera non mitica ma collegandolo a quello che è il vero problema del rapporto tecnica vitale-natura.

Quando si dice tecnica non si parla dei grandi impianti dello sviluppo tecnologico petrolifero o minerario, ma della tecnica di vita e fra queste ci sono anche tecniche minerarie, riguardo le quali il problema sta nel capire fino a che punto esse possono essere portate. In che modo? Democraticamente, come predicava Thomas Müntzer. La Natura è nostro fratello, nostra sorella, nostra madre, ci siamo dentro e dobbiamo rispettarla fino in fondo. Dobbiamo però fare attenzione, perché l’indigenismo identitario è pericoloso tanto quanto l'operaismo identitario, o qualsiasi cosa rimandi all’identità. Anche la Natura va considerata dentro la discussione sull'intersezione dei movimenti. Bisogna però farlo fuori dai miti, perché altrimenti si rischia di fare sul terreno opposto la stessa cosa che fa il capitalismo, cioè coprire i misfatti considerandoli novità.

Concordo pienamente rispetto alla grande attenzione nei confronti di qualsiasi pulsione identitaria, pensavo piuttosto a costruire un regime di eguaglianza epistemologica. Mi sembra che sia invece necessario un lavoro proprio sulle epistemologie

Sì ci sono già lavori fatti in proposito in Brasile, in particolare dal punto di vista delle epistemologie etnologiche. Si tratterebbe ora di farli rispettare, ma con un presidente come Bolsonaro è tutt’altro che semplice.

Sappiamo bene che accoglienza gli abbiamo riservato a Padova Lunedi 1 Novembre. Di certo non parliamo di epistemologia con Bolsonaro, ma ne parliamo tra di noi, siamo anche noi parte in causa. Ultima domanda ad Anna Clara, ti abbiamo presentata non solo come studiosa e ricercatrice, ma anche in quanto attivista, quali sono i prossimi passi di Rise Up for Climate Justice?

ANNA CLARA BASILICO’

Se veramente individuiamo il terreno della giustizia climatica come un orizzonte all'interno del quale costruire forme del comune, (e la risposta è sì! Lo individuiamo come tale!) uno dei primi passaggi organizzativi e produttivi, nel senso etimologico del termine, è la costruzione di un sapere che sia condiviso e collettivo. Un sapere e un episteme che accolga una decostruzione di questo paradigma antropocentrico e che accolga tutti i saperi e i paradigmi trans-femministi. Alla luce di questa considerazione come Rise Up for Climate Justice l'obbiettivo che ci siamo dati è la costruzione di un meeting, che sarà ospitato qui a Venezia l'11 e il 12 di Dicembre e che ha l'obbiettivo di mettere sul piatto una serie di prospettive di intersezione, per usare un termine che abbiamo già usato stasera e che è assolutamente pregnante. Se, dal nostro punto di vista, è vero che la contraddizione climatica non è gerarchicamente superiore alle altre contraddizioni capitaliste, essa permette quantomeno di avere una lettura molto chiara di tutte queste e di metterle effettivamente in rete. È anche vero che la narrazione sulla crisi climatica, almeno da un punto di vista egemonico, manca ancora di molte di queste connessioni. Per cui il primo obbiettivo che ci diamo è la costruzione di tavoli di lavoro, di momenti di discussione che puntino a mettere in luce quali sono le connessioni tra giustizia climatica, giustizia sociale, giustizia razziale e provare, a partire da questo ragionamento, a produrre le forme del comune che vadano davvero nell'ottica di dispositivi, di connessioni reali, di forme anche comunitarie dello stare insieme che siano immediatamente anticapitaliste e si spera durature.

Ci sono tante cose che mi hanno dato spunti in questo dibattito. Toni Negri è sempre estremamente illuminante. Diceva ad un certo punto che bisogna rompere sull'idea di ineluttabilità, che a mio avviso è contenuta sia nel concetto di resilienza neoliberale, di programmazione del capitalismo come se avesse interiorizzato la fine della storia; ma è contenuta anche nel concetto di Necropolitica. In tutto questo io credo che come movimenti sociali, come soggetti che hanno una visione, una tensione a cambiare il mondo, bisogna ragionare probabilmente sul concetto di transizione. Non è solamente una fase dell'accumulazione, ma, a mio avviso, è una fase della storia dentro alla quale iniziamo ad immergerci. È stata posta una questione sul caos, ma allo stesso tempo sulla ricchezza dell'intersezione: probabilmente su queste coordinate dobbiamo ragionare proprio perché siamo immersi in una fase di transizione. In Francia è emerso molto un concetto: quello della convergenza delle lotte, non intesa solo come un'architettura del politico, cosa che molto spesso in Italia abbiamo solo scimmiottato. In questa fase, come sul piano strategico, possiamo ragionare in termini di convergenza delle lotte tra movimenti proprio cercando di superare questo caos?

TONI NEGRI

Parlando di transizione è un po’ come se avessimo un ponte che non sappiamo dove porti, non sappiamo neppure se arrivi. Ciò non è che ci chiarisca molto della situazione nella quale siamo. Ma sappiamo che non possiamo tornare indietro, che tutti gli elementi dentro i quali siamo spingono avanti. Se facessimo questo discorso semplicemente dal punto di vista della trasformazione dei modi di produzione o di un'antropologia del lavoro potremmo essere più chiari, potremmo anche spiegare la moltitudine come un insieme di singolarità caratterizzate da un forte sentimento, da una forte tensione a un'associazione indipendente. Il fatto è che tutto questo è difficile da verificare: siamo dentro una transizione che ci porta fuori, immersi in una confusione dentro la quale le tensioni moltitudinarie a presentarsi in maniera nuova sono molto combattute, sono molto ferme.

Con Michael parlavamo del fatto che è finita la società del modo di produzione fordista, e che siamo passati a questa situazione multitudinaria dentro la quale la capacità di lavorare, il modo di lavorare, la prestazione, il general intellect, il lavoro immateriale formano un caos. Tutti questi elementi mescolati potevano produrre probabilmente un movimento politico, polimorfo, molteplice, capace però di ricostruire una prospettiva di potere. Ma questa possibilità, mi sembra, è stata duramente colpita dalla crisi pandemica: siamo nella transizione, ma non siamo in un punto felice della transizione. Per arrivare a una composizione più ampia si devono vincere delle battaglie, in particolare quella legata a questo momento di soffocamento che deriva dall'estensione, dalla profondità, dalla pesantezza della pandemia e dalla capacità di eternarla, che la scienza capitalista della governance e del potere potrebbe avere. È questo ciò che si tratta di battere in qualche maniera attraverso quello che è un compromesso che rompa, non un compromesso che ci distrugga.

ANNA CLARA BASILICÒ

Volevo concentrarmi più che sulla premessa, quindi sul concetto e sulla declinazione di transizione, su quello che tu domandavi potesse essere un orizzonte possibile, ossia quello della convergenza. Credo che siamo di fronte a uno scarto in qualche misura (passatemi il termine e la semplificazione brutale) generazionale, e lo dico molto semplicemente a partire da un dato materiale che è quello delle piazze e dei movimenti che si sono dati negli ultimi anni. È sempre più facile verificare come nelle generazioni più giovani il nesso immediato tra una rivendicazione per la giustizia climatica, una battaglia decoloniale, una lotta che possa dirsi trans-femminista sia immediato, “scontato”. Prima Marco accennava all'accoglienza che abbiamo riservato a Bolsonaro a Padovail 1° novembre 2021. Contestare Bolsonaro in quell'occasione ha voluto dire dare voce a posizioni che fossero ovviamente antifasciste, ma è stato anche accogliere le voci dei popoli indigeni che subiscono le violenze di Bolsonaro ormai da anni, dare voce al modo in cui i popoli indigeni effettivamente si sono posti per secoli a difesa di quella che alcuni di loro definiscono Pachamama. E’ stato anche un modo di dare voce alle battaglie per i diritti della comunità LGBTQIA+ e delle donne. Nelle piazze e nei movimenti che esistono oggi giorno mi sembra sempre più spontaneo l’emergenza di queste forme di convergenza. Forse non sono quelle che esattamente intendevi prima con la tua domanda, però in una qualche misura credo che lo spazio da questo punto di vista si apra. Dicendo che è un fattore generazionale, non voglio dire che quelle che sono storiche battaglie, o che vedono impegnata una composizione di una generazione diversa dalla mia, siano battaglie destinate a morire o che non possono trovare linfa vitale con altre, anzi. Credo che banalmente l'esempio della GKN ci dia una testimonianza in questo senso. Li abbiamo visti intervenire al Climate Camp a Milano in veste di operai metalmeccanici e in quella sede sono venuti a cercare un'alleanza con quello che è, o quelli che sono, i movimenti climatici. Forse sono anch'io ammalata di ottimismo, però delle prospettive positive ce le vedo da questo punto di vista.

TONI NEGRI

Per quanto riguarda il tema delle convergenze in Francia era stato sviluppato soprattutto in riferimento alle lotte dei Gilets Jaunes, sorte dal 2019 in poi e che sono di recente scomparse dall’agenda politica. Oggi ci sono ancora movimenti che più o meno si collegano ai Gilets Jaunes, ma sono movimenti no-vax o affini, che non hanno più nulla a che fare con quelli che erano i comportamenti, il pensiero, l'organizzazione e l'estensione dei Gilets Jaunes. La convergenza che avevano costruito i Gilets Jaunes andava esattamente nei termini post-generazionali, non era la convergenza che era determinata dal metalmeccanico più lo studente più la femminista ecc. Era la convergenza di chi combatte contro l'estrazione capitalista sul terreno sociale. Le due indicazioni di fondo iniziali erano: 1) per un reddito garantito 2) per un meccanismo di referendum continuamente aperto su tutti i provvedimenti economici popolari del governo francese. La democrazia diretta accompagnata ad un reddito garantito. Questi sono obbiettivi che sono adatti anche per chi vuole abbattere il Capitalocene.


[1] Art of Assembly è una serie di conversazioni curata da Florian Malzacher. Ci sono stati molti incontri con ospiti del calibro di Judith Butler, Nora Sternfeld, Chantal Mouffe, Didier Eribon.

[2] Toni Negri è filosofo e attivista. A partire dagli anni ’60 è stato uno dei maggiori teorici del marxismo operaista e un punto di riferimento per quanto riguarda Potere Operaio e tutta l’area dell’Autonomia Operaia per tutto il cosiddetto lungo ’68 italiano. Dagli anni ’80 è stato uno dei protagonisti della riscoperta di Baruch Spinoza. A partire dal 2000, in collaborazione con Micheal Hardt ha scritto libri molto influenti e globalmente dibattuti come Impero, Moltitudine, Comune e il più recente Assemblea, pubblicato nel 2017.

[3]Anna Clara Basilicò è ricercatrice universitaria e attivista climatica. È impegnata da anni nelle lotte per l’ambiente. Fa parte di Rise Up For Climate Justice, una piattaforma anticapitalista che raccoglie soggetti e gruppi ecologisti radicali, e affianca alla lettura della crisi climatica come contraddizione cruciale del sistema capitalista la pratica dell’obiettivo attraverso azioni dirette. In ambito accademico è dottoranda dell’Università di Padova e di Ca’ Foscari. Si occupa di Storia Sociale della scrittura e di Storia delle prigioni.