Se n'è andato un vecchio comunista, che non poteva ritenersi altro posto che era nato nel 1917: di se diceva di essere un comunista tory [conservatore, nella dizione inglese]. A noi non sembrò tale quando leggemmo il suo libro 'I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale' Torino, Einaudi, 1965, dove emergeva la figura del bandito sociale, in seno al proletariato, quale motore del rifiuto organizzato dell'incedere capitalistico.
Quando nei sui lavori successivi riabilita il luddismo, interpretando il sabotaggio come strumento chiave della lotta di classe, tanto più quando si è in presenza di un cambiamento/sostituzione nella stessa composizione tecnica della classe operaia.
Tanto
meno quando uscì il suo lavoro 'Storia sociale del jazz' Roma,
Editori Riuniti, 1982, in cui raccoglieva i materiali sparsi che
aveva usato nel condurre per la BBC un programma sul jazz, dove tale
musica viene letta come rottura rivoluzionaria dei canoni
musicali dominanti, operata da una lunga teoria di musicisti neri,
interpreti del black power.
Lezioni di storia, da leggere con
attenzione, ieri come oggi.
B.Z
Rassegna stampa
* Da furiacervelli.blogspot.it
Dal 1917 al 2012, 95 anni pericolosamente passati nel cuore di quella “storia che si ricorda, così diversa della storia ufficiale dei manuali”: questo è Eric Hobsbawm, soprattutto ora che ci lascia.
La storia di banditi, ribelli e rivoluzionari; dell'autorganizzazione sociale e del movimento operaio; delle classi lavoratrici e delle età delle rivoluzioni in Europa, per evocare solo alcuni dei suoi titoli. E muore oggi, 1° ottobre, stesso giorno in cui, se le date non ingannano, nel 1964 nasce il Free Speech Movement, a Berkley.
Per questo ci piace ricordare Eric Hobsbawm anche con la parte finale del suo I banditi:
“Perché i banditi appartengono alla storia che si ricorda, così diversa dalla storia ufficiale dei manuali. Fanno parte di quella storia che non registra tanto i fatti e i loro autori quanto i simboli di quegli elementi, in teoria controllabili, ma in realtà incontrollabili, che determinano il mondo della povera gente: i re giusti e gli uomini che assicurano la giustizia al popolo. Per questo la leggenda dei banditi ha ancora il potere di commuoverci. La lasciamo in merito la conclusione a Ivan Obracht, che ha scritto in proposito meglio di chiunque altro: «L'uomo ha un bisogno insaziabile di giustizia. Nel proprio intimo si ribella a un ordine sociale che gliela nega, e qualunque sia il mondo in cui vive dà la colpa dell'ingiustizia o a quell'ordine sociale o all'intero universo. L'uomo ha in sé un impulso strano e ostinato a ricordare, a riflettere sulle cose e a mutarle, e inoltre porta in sé il desiderio di avere ciò che non può avere, se non altro sotto forma di favola. È questa, forse, l'origine delle saghe eroiche di tutti i tempi, di tutte le religioni, di tutti i popoli e di tutte le classi.» Comprese le nostre. Per questo Robin Hood è ancora il nostro eroe e tale rimarrà.”
Giuseppe Allegri
* Da Il manifesto del 2 ottobre 2012
All'età di 95 anni, scompare quello che è stato probabilmente il più
grande storico marxista del Novecento, certamente il più popolare e noto
al grande pubblico. Una popolarità, quella di Eric J.Hobsbawm,
relativamente recente e legata in grandissima parte alla fortuna e alle
controversie suscitate dal Secolo breve. Come ricordava nella sua
autobiografia Anni interessanti, per la stampa inglese era stato a lungo
soltanto «quello storico che è rimasto comunista e che ama il jazz».
Nato
ad Alessandria d'Egitto nel 1917, dall'incontro fra una ebrea viennese e
un ebreo polacco immigrato in Inghilterra e spedito in Egitto quale
funzionario - e da questa origine familiare, possibile solo nel mondo
degli imperi che andava declinando, trarrà l'incipit per il suo volume
The Age Of Empires - seppe utilizzare tanto il lascito cosmopolita
quanto quella «posizione leggermente angolata rispetto all'universo», di
cui si era parlato a proposito del poeta greco Kavafis, nato nella
stessa città. Il suo cognome era il risultato di una serie di
travisamenti della burocrazia imperiale attorno all'originario Obstbaum,
che il nonno ebanista polacco aveva portato con sé emigrando in
Inghilterra.
Il suo rapporto con l'ebraismo, mai praticato
religiosamente né riscoperto in età avanzata, come accadde a molti
intellettuali, si limitò al rispetto del principio fortemente ribadito
da sua madre: «Non fare mai qualcosa né dare l'impressione di far
qualcosa che lasci pensare che ti vergogni di essere ebreo»; un precetto
che dichiarò di aver sempre cercato di osservare «benché alla luce del
comportamento del governo israeliano, la fatica di attenervisi sia a
volte quasi intollerabile». Agli ebrei di San Nicandro Garganico è
dedicato uno dei suoi ultimi scritti, molto bello, uscito sulla London
Review of Books.
Ma era anche consapevole di essere un sopravvissuto
della «civiltà ebraica delle classi medie dell'Europa centrale dopo la
prima guerra mondiale». Tra Vienna e Berlino, dove visse da giovane, non
c'era molta possibilità di scelta, in quella Europa: si poteva
diventare o comunisti o sionisti, e il giovane Hobsbawm compi la scelta
del comunismo a cui rimase fedele per tutta la vita.
Nell'ambiente di
Cambridge, tra grandi storici come Dobb e Cole, maturò rapidamente un
personale ventaglio di interessi, uno stile e una forma di marxismo che
ne avrebbero contraddistinto l'opera, rendendola immediatamente
riconoscibile.
Una visione globale Chi
leggeva negli anni Sessanta The Age Of Revolution, che diverrà il primo
volume della grande quadrilogia sul mondo contemporaneo - non voluta né
pensata tale all'origine - si rendeva conto subito di trovarsi di fronte
a qualcosa di diverso rispetto a ciò che passava in genere per
storiografia marxista. In quel libro, che rimane forse il più bello tra i
suoi volumi d'insieme, non c'era il plumbeo economicismo di tante
trattazioni, pur occupandosi in gran parte di economia, ma non solo: il
mondo nuovo emergeva dall'intreccio di una «duplice rivoluzione», quella
industriale che muoveva dall'Inghilterra e quella politica che dopo
avere debuttato negli Stati Uniti trovava il suo pieno dispiegamento in
Francia. Le due rivoluzioni confluivano e cambiavano tutto il mondo, non
solo nel modo di produrre, ma in quello di pensare, di vivere, di
sentire. Colpivano i capitoli sull'evoluzione della cultura, delle arti,
delle scienze, della musica, che poi diverranno caratteristica abituale
nella quadrilogia. Colpiva la dimensione internazionale della
trattazione, in un libro dove c'era più Toissant Louverture che Danton o
Saint-Just, dove si cercava di dar vita a una storia collettiva, basata
sull'interdipendenza tra civiltà europea e atlantica e quelle degli
altri continenti; effettivamente globale molto prima che qualcuno
immaginasse un termine come «globalizzazione».
E in questo modo,
soprattutto, si riscopriva il vero Marx del Manifesto, non un filosofo
regressista che deprecava un indistinto «capitalismo», ma l'esaltatore
della portata rivoluzionaria che l'industrializzazione capitalistica
aveva portato nel mondo, e che rendeva possibile anche il suo
superamento. A «questo» Marx Hobsbawm si richiamerà anche nelle sue
ultime opere, e in particolare nel recentissimo Come cambiare il mondo.
Perché riscoprire l'eredità del marxismo.
Colpiva la leggibilità
dell'opera, che non derivava da un compromesso con il rigore e la
completezza. Né poteva parlarsi di «divulgazione», ma di una nuova
interpretazione e di una nuova sintesi, completa anche nel dettaglio ma
senza inutili sfoggi di erudizione.
Hobsbawm era del resto uno dei
pochi storici che si era posto realmente il compito di «tentare almeno
di comunicare con i cittadini comuni», senza che ciò comportasse uno
scarto stilistico tra produzione storica e contributi giornalistici. «Mi
sembra - affermava in una intervista degli anni Settanta - che sia
molto importante scrivere storia rivolta non soltanto all'accademia.
Nell'arco della mia vita la tendenza dell'attività intellettuale è stata
quella di concentrarsi in modo crescente nelle università e di farsi
sempre più esoterica, tanto da consistere nel lavoro di professori che
parlano per altri professori, ascoltati distrattamente da studenti che
devono ripetere le loro idee per poter superare i programmi di esami
fissati da professori. Questo restringe considerevolmente la disciplina
intellettuale».
Tra ribelli e banditi I
soggetti privilegiati nella sua lunga ricerca saranno ribelli,
rivoluzionari, anche banditi, nell'intreccio tra idee rivoluzionarie e
forme primitive di rivolta, dai ribelli del Monte Amiata a quelli del
latifondo siciliano. Gente non comune, come recita il titolo di una sua
raccolta, ma anche common gentry. E, anche e soprattutto, operai e
lavoratori. Anche qui si nota la concretezza dell'approccio di Hobsbawm
alla storia sociale, che per lui deve essere pienamente storia della
società, e non sociologia retrospettiva.
Respingeva come schematica
l'idea di una classe operaia come «una sorta di sottosuolo passivo e
qualunquista... o come un immenso ghetto comprendente gran parte della
nazione, o al più come una forza capace di mobilitarsi solo in difesa di
interessi economici più o meno corporativi».
Era storia anche di
«mestieri» e della loro trasformazione, talvolta rapida, a volte
lentissima nel tempo; ma era anche storia «culturale», a pieno titolo,
evoluzione di forme di coscienza e consapevolezza. La diffusione delle
idee di Marx e il loro acclimatamento nei vari ambiti nazionali, di cui
aveva parlato in sintesi nella Storia del marxismo Einaudi, erano parte
integrante di questa storia.
In quello che è il profilo più
aggiornato ed esaustivo in lingua italiana, Aldo Agosti aggiunge che
Hobsbawm «vede affermarsi soprattutto dopo il 1890 una forte coscienza
di classe nelle aree urbane, non identificabile però semplicemente con
quella delle avanguardie di attivisti e militanti socialisti. I
caratteri fondamentali di questa emergente coscienza di classe sono un
profondo senso della separatezza del lavoro manuale, un codice non
formulato ma molto forte basato sulla solidarietà, la "lealtà", il mutuo
aiuto e la cooperazione; e si accompagnano alla formazione di modelli
di comportamento, di abitudini e di stili di vita sui quali Hobsbawm
proietta rapidi ma efficaci squarci di luce: l'affermarsi del football
come uno sport proletario di massa, lo sviluppo di un luogo di vacanza
frequentato quasi esclusivamente dai lavoratori e dalle loro famiglie
come Blackpool, la diffusione degli spacci di fish and chips, e persino
l'adozione dell'"inconfondibile copricapo" del proletariato britannico,
il berrettino reso poi celebre dalle vignette di Andy Capp degli anni
'60» (Aldo Agosti: Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm,
Passato e presente, n. 82, 2011).
Un altro tema assolutamente
originale introdotto da Hobsbawm sarà la demistificazione dei miti di
fondazione delle nazioni moderne (le tradizioni inventate), che aprirà
un filone di interessi e di ricerca tuttora non esaurito.
Abbiamo
detto che fu si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche
dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso
degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party,
fortemente critico tanto della rigidità «classista» dell'era di Kinnock,
incapace di comprendere i mutamenti della società, quanto del New
Labour di Tony Blair, null'altro che «un Tatcher con i pantaloni». Ma la
svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un
rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico
marxista).
In realtà Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a
partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano
alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine
«italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità e
condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario
Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche
di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò
nel 1976, quando la breve fiammata dell'«eurocomunismo» aveva acceso
interessi e speranze destinate a declinare).
C'è in rete una
«videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si
rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di
ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e
teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva
vicina alla sua sensibilità.
La frana dell'Occidente La
sua popolarità presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato,
derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of
Extremes, volume che brevemente e forse un po' bruscamente concludeva il
ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi
che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più
discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà gli ultimi
anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle
interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il
quadro del mondo descritto nell'ultimo capitolo: la Frana, che seguiva
improvvisamente all'Età dell'Oro dell'Occidente. Ora la frana si è
approfondita, rischia di travolgere tutto, e l'Occidente che si sentiva
trionfante nell'Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo
americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi
al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della
sua autobiografia dieci anni fa.
In quella che è una delle sue
ultime interviste, nel maggio 2012, l'interlocutore gli chiedeva: Cosa
rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né
di socialismo né di comunismo... E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che
neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma
neanche di capitalismo. Scriveva della società borghese. Rimane la
visione, la sua analisi della società. Resta la comprensione del fatto
che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune
previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori
devono organizzarsi in quanto partito di classe».
Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:
«Non
ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne
rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono
certo centrali nella società».
Gianpasquale Santomassimo
Il commento di Sherwood.itsulla morte di Hobsbawm