Costruire alternative di legno e fantasia

Appennino tosco-emiliano, anni Novanta: la fuga dalle città per recuperare il senso di comunità negli ecovillaggi.

4 / 2 / 2021

Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La quattordicesima puntata della rubrica "Suture, a cura di Valeria Andreolli.

Batti forte con il martello sul chiodo. Non sempre lo colpisci, a volte non prendi bene la mira e colpisci il legno inerte dell’asse che stai cercando di fissare al pavimento. D’altronde non è un mistero che tu non ti sia mai dedicato ad attività manuali prima di arrivare qui. A volte ti senti estremamente goffo, ma nessuno ha mai detto niente a riguardo. Qui tutte le mani, anche quelle meno esperte, sono ben accette, anche le tue, fino a poco tempo fa dedite solo a sfogliare pagine di mastodontici volumi accademici dentro a buie e silenti biblioteche, e destinate a sfiorare svogliatamente i tasti di qualche apparecchio dentro a polverosi uffici grigi, predisposte a non sentire mai la stanchezza dei muscoli di cui sono fatte, pronte per una vita comoda, tranquilla, dentro ad un appartamento di cinquanta metri al quarto piano di un palazzo grigio in una città caotica ed inquinata.

Nei mesi che avevano preceduto la tua laurea, la prospettiva della vita monotona e assolutamente ordinaria che si stava avvicinando aveva cominciato a metterti addosso un’inquietudine che non riuscivi a sopprimere né con le tue letture appassionate, né con le serate con gli amici. Più i giorni passavano e più la gabbia si faceva stretta. In qualsiasi circostanza di vita urbana in cui capitavi, ti sentivi circondato da persone alienate: ognuno diligentemente attento a non entrare nell’orbita dell’altro più di quanto non fosse socialmente richiesto, ognuno con la frase giusta da pronunciare in ognuna della limitata gamma di circostanze previste, e poi ognuno a rintanarsi nella propria solitudine domestica per il lasso di tempo concesso dagli obblighi lavorativi prima di ricominciare tutto da capo. Ogni giorno, per tutta la vita. Ripetere la medesima recita.

Sentivi addosso il peso, pesantissimo, delle aspettative che la tua famiglia, i tuoi amici, la società tutta, riponevano sulla tua schiena e non vedevi vie di fuga. La rassegnazione a questa vita imminente fatta di sveglie che suonano sempre alla stessa ora, di attese nel traffico, di pettegolezzi di ufficio, di ambizioni personali, di vette da raggiungere e ruoli da incarnare, ti faceva tenere gli occhi sbarrati tutta la notte, tutte le notti.

Finché una sera qualcuno non aveva casualmente raccontato la storia di amici di amici alla ricerca di uno stile di vita nuovo, diverso, che si erano ritirati dentro a ruderi di case abbandonate sulle montagne, le avevano ristrutturate, avevano riconvertito i terreni limitrofi in orti e ora vivevano in maniera autosufficiente.

Al tuo arrivo nel villaggio, sudato e stanco dall’ora di cammino che avevi dovuto fare per raggiungerlo, eri rimasto affascinato, prima che da ogni altra cosa, dal panorama verde e luminoso che si offriva ai tuoi occhi, dal silenzio e la pace, dall’aria pulita.

Mentre sollevi il gomito con il martello saldo in mano per colpire l’ostinato chiodo, non hai il minimo dubbio che questa sia stata la scelta migliore, anche se non puoi negare che il primo periodo sia stato abbastanza duro. Non è stato semplice disimparare a considerare necessarie tutte le comodità che avevi sempre dato per scontate. Individuarle tutte è stato quasi un gioco: quando appena sveglio volevi lavarti il viso, ti rendevi conto di avere sempre considerato l’acqua come un oggetto inesauribile e perennemente a disposizione; quando il sole calava, realizzavi che la notte l’unica fonte di luce naturale era quella, riflessa, della luna; quando in autunno le temperature cominciavano ad abbassarsi, ti accorgevi di non avere mai patito veramente il freddo.

E alla fine, confrontando ciò a cui avevi rinunciato con l’odore della terra e il cinguettio degli uccelli, è stato molto spontaneo capire da che lato pendesse l’ago della bilancia.

Colpisci di nuovo, con forza, il chiodo dentro il legno. Ormai è fatta. Come tenere in mano un martello non è la sola cosa che hai imparato dal tuo arrivo: hai imparato anche a distinguere le diverse sfumature di rosso delle bacche selvatiche, ad adagiare i semi nella terra, ad abbeverare le piante che vi offriranno pranzi e cene, a rubare le uova ancora calde dai pagliericci delle galline. Ma non solo. Hai imparato anche a conoscere ed apprezzare i diversi aspetti della vita comunitaria: il non sentirsi mai più del tutto soli, il lavorare gomito a gomito con persone provenienti dalle esperienze più svariate, il dividere il raccolto in modo che nessuno ne rimanga escluso, il confrontarsi su tutto e decidere insieme se la tecnologia vada tenuta lontana in tutte le sue forme o se un trattore semplificherebbe davvero il lavoro, se sia giusto o meno chiedere contributi, come debbano essere cresciuti i figli, cosa dire ai proprietari delle case quando si presenteranno, cosa rispondere alle forze dell’ordine.

Tra qualche giorno celebrerete la raccolta delle castagne ed arriverà molta gente, curiosa ed affamata, ad unirsi alla festa. Qualcuno fischietta in lontananza. Mentre ti sollevi da terra per andare a prendere una nuova asse di legno, guardi il chiodo che hai appena fissato al suolo e ti domandi se riuscirete a terminare i lavori di ristrutturazione della casetta in tempo per la festa.

** Pic Credit: Carlo Bevilacqua