In vista della presentazione del libro "La danza delle mozzarelle" (Alegre ed. - marzo 2015) durante il prossimo festival dell'Oltreconomia, abbiamo incontrato l'autore Wolf Bukowsky. E' stata l'occasione per discutere di cibo, grande distribuzione organizzata e alternative da costruire assieme, partendo necessariamente dal basso.
Insomma Wolf, tu eri tra quelli che snobbavano l'inserto “da cui tutto
ebbe inizio”, ovvero il Gambero Rosso, quello che a metà degli anni '80,
all'interno del Manifesto, parlava di buon cibo e buoni posti dove mangiare..
Eh già, tuttavia non era una questione di coscienza verso il cibo e la montagna
di soldi e interessi che già allora portava con sé, ma sostanzialmente perché
avevo 15-16 anni e delle questioni delle trattorie di qualità me ne fregavo!
Nessun presagio di quello che sarebbe stato dopo, ma proprio reale mancanza
d'interesse.
Sei contento di questo primo compleanno del tuo libro? Sei riuscito a
portare questi interrogativi anche all'interno dei grandi sistemi che citi,
ovvero Eataly, Slow Food e Coop?
E' stato un buon anno, ho incontrato persone che avevano bisogno di porsi
questi interrogativi sul cibo e la sua produzione ed uscire da questo circolo
vizioso colpevolizzante (“se mangi male è perché spendi troppo poco!”), quando
invece era il caso di criticare le politiche che governano questo settore. Per
quanto riguarda gli incontri, mi è capitato di discuterne con articolazioni
territoriali di Slow Food ma anche con un membro del consiglio di
amministrazione dell'università di Pollenzo, in Piemonte. Poi naturalmente sono
rimasti tutti sulle loro posizioni. Ho fatto anche un'intervista a tre voci con
il presidente di Slow Food Calabria (la trovi qui su Giap, il blog
di Wu Ming), che è stato disposto a parlare di questi temi. Questo può
succedere con Slow Food perché ha dentro anche tante persone diverse, non è
un'organizzazione monolitica e qualcuno che voglia mettersi a discutere su
questo esiste. Eataly e COOP invece sono aziende allo stato puro, a loro queste
critiche non interessano.
A quanto pare voci discordanti in Coop non esistono, non è come il
PD...
La partecipazione dei soci in Coop è inesistente, al di là del giornaletto che
viene loro distribuito, il socio non decide nulla e fa fatica a parlare, anche
lo volesse. Ma le contraddizioni all'interno di questi grossi sistemi stanno
emergendo a vari livelli, per esempio con il fallimento della “rete del lavoro
agricolo di qualità”, messa in piedi dal ministro Martina “per rafforzare le
iniziative di contrasto dei fenomeni di irregolarità e delle criticità che
caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo”. Alla Rete hanno
aderito solo
300 aziende e, visto che la campagna di Coop sul caporalato aveva tra i
suoi punti qualificanti l'adesione alla Rete, qualcosa evidentemente non ha
funzionato. E pensare che l'adesione alla rete è, alla fine, una semplice
autocertificazione.
Ma torniamo al libro. “La danza delle mozzarelle” è uno dei pochi
(forse l'unico?) libro che tratta specificatamente le narrazioni messe in atto
dalle grosse aziende italiane impegnate in ambito alimentare. Cosa ti ha spinto
a scriverlo?
L'occasione è stata da un lato la mia consuetudine con associazioni e gruppi
che hanno promosso Genuino Clandestino (rete di comunità in divenire che
propone alternative concrete al sistema capitalista in campo alimentare), che
ho frequentato e di cui tutt'ora sono compagno di strada. In secondo luogo, ho
deciso di occuparmene quando a Bologna c'è stato il delirio collettivo su
F.I.C.O., promosso da Segrè (presidente del CAAB – Centro Agroalimentare di
Bologna), Farinetti e dal Comune. Si tratta di una sorta di parco divertimenti
stile Disneyland dedicato al cibo, in costruzione alla periferia alla mia
città. Questo ha spinto me ed altri ad approfondire le dinamiche che stanno
dietro al cibo cosiddetto di qualità, Slow Food e simili. La volontà principale
era prendere in mano il discorso per capire cosa stava (e sta) succedendo.
Il nome di Segrè, che è anche presidente della Fondazione Mach, è
fortemente associato ai discorsi sullo spreco di cibo. Che è però visto spesso
solo in un'ottica in cui il cibo avanzato è un problema del singolo cittadino
che dimentica sempre lo yogurt scaduto in frigo e le patate germogliate in
cantina. La colpa è sostanzialmente solo della nostra sbadataggine e opulenza.
Di conseguenza, dovremmo promuovere il riutilizzo nelle mense dei poveri, il
riciclo dei prodotti vicini alla scadenza nei supermercati e così via, senza
nessun accenno alla sovrapproduzione figlia del sistema della GDO.
E' vero, ma non solo. La carta di Milano, il topolino partorito dal gigante
EXPO, molto propagandata, dice chiaramente che le politiche antispreco sono la
parte principale per la garanzia alimentare delle persone che non possono
permettersi niente altro. La questione dell'accesso al cibo e ad una nutrizione
decente viene “spostata” su una gestione caritatevole. Sono problemi
fondamentali di cui dovrebbero farsi carico le politiche pubbliche, non la
carità della GDO o la start-up che olia il meccanismo di gestione del cibo in
scadenza.
Qual è il rapporto tra parole e azioni, ovvero tra narrazioni e
pratiche in campo alimentare? Perché è importante saper narrare bene
quindi riconoscere le narrazioni tossiche e le grandi contraddizioni dentro le
narrazioni?
Come in tutto, il linguaggio costruisce la realtà, una narrazione che ci mette
in evidenza alcuni aspetti e ne nasconde altri ci impedisce di vedere la realtà
dell'industria agroalimentare. Un'azione in senso positivo da parte nostra, ad
esempio quella dei GAS che è sicuramente positiva, ma che spesso non si dà
delle chiavi di lettura, rischia di essere autoreferenziale, ovvero rischia di
non fare quel salto in avanti e riconoscere dove sono le contraddizioni
importanti, quelle strutturali del sistema. Spesso si limitano invece ad
evidenziare quelle più piccole e dal significato secondario.
Qual è il rapporto tra le scelte individuali e le politiche
industriali? Se magicamente tutti smettessero di mangiare carne e derivati il
mondo sarebbe migliore, meno inquinato, con uno spreco di risorse molto minore?
Le aziende sono davvero pronte a modificare le proprie scelte in base alle
decisioni “etiche” del consumatore?
Questa domanda va affrontata a vari livelli. Se la scelta è veramente
individuale, rimaniamo all'interno delle logiche di supermercato e non cambia
nulla, i meccanismi di domanda/offerta rimangono gli stessi. E' tuttavia chiaro
che è impressionante la quantità di carne che viene consumata nel mondo e rende
insostenibile la dieta carnea a questo livello. Tuttavia, anche se tutti
smettessero di mangiare carne, se questo non è accompagnato da una modifica nei
rapporti di forza tra chi consuma e chi produce gli alimenti, non è detto che
porti dei cambiamenti sul piano sociale.
Io non mangio carne, tuttavia non sono vegano e mi rendo conto che non risolve
la contraddizione in maniera decisiva, in quanto i derivati animali sono
comunque fonte di inquinamento, spreco di risorse e causa di sofferenza e morte
animale. Uno dei punti di accordo (per così dire) che potrebbero essere
raggiunti nei movimenti che si pongono il problema del rapporto tra noi e le
altre specie animali è il riconoscimento che i metodi di allevamento degli
allevatori di Genuino Clandestino (per esempio) non sono al livello di
sofferenza di quelli dell'allevamento industriale, né nei confronti
dell'ambiente circostante né nei confronti degli animali. Forse questo è un
punto di equilibrio (precario) che prova a risolvere le polarizzazioni, se non
le contraddizioni; forse nemmeno questo. Rimane necessario provare a lavorare
uniti sulle filiere e contro i meccanismi della GDO, e quindi è urgente capire
come...
Io personalmente sono stato vegetariano per una decina d'anni e poi sono entrato in una sorta di crisi, perdendo fiducia nel potenziale trasformativo di questa scelta individuale. Mi sembrava che il problema fosse un altro, ovvero quello di andare e fondo e contrastare il sistema di produzione capitalista, che trasforma gli animali in oggetti di cui disporre senza alcun scrupolo, e non diversamente da altra merce come pomodori, banane e arance.
Il problema è anche quello del consumo di carne e derivati, ma dipende dall'ordine di priorità che ci diamo. Io penso che socialmente l'obiettivo è cercare di costruire un blocco che metta i pali tra le ruote al meccanismo di produzione del cibo che è disumanizzante in tutti i suoi aspetti, non solo in quello della macellazione. Quindi l'urgenza è costruire un blocco sociale che si opponga a questo mostro che è pervaso di violenza da tutti punti di vista, verso il pianeta, le persone e anche gli animali. Abbiamo di fronte qualcosa di enorme, potenzialmente e concretamente dannosissimo.
Nel recente “Babel Food” Franco La Cecla scrive “E' tempo che rimettiamo il cibo e la pasta nel posto che compete loro, adesso che la kermesse è quasi alla fine, dopo il chiasso un po' fallimentare degli expo, le fiere intellettuali di vino e mozzarelle e i gelatai a chilometro zero. Ritorniamo sulla terra. Forse chilometro zero significa proprio questo, umiltà e meno voli pindarici, a meno che non vogliamo continuare ad usare il cibo per altre cose, un sistema stanco dell'arte mercantile, un'intellettualità accademica e disincarnata, un approccio modaiolo per cui i piatti non sono altro che invenzioni di stilisti con la mani sporche di farina. Cerchiamo di salvare il cibo e noi stessi da mosse del cavallo troppo avventate che ci conducono a uno scacco matto”.
Quanto scrive La Cecla è sicuramente vero, il momento di mettere il cibo da parte è giunto perché la bolla mediatica da un lato sta già calando, dall'altro invece è ben incistata in quanto le politiche alimentari favoriscono l'export del cibo italiano, rinunciando di fatto al soddisfacimento della domanda interna. Insomma, la sbornia mediatica sta passando, ma le conseguenze politiche rimangono.