Tagli, tasse, imposte, debito, spesa pubblica tornano ad essere argomento di battaglia politica negli USA postelettorali

Obama alle prese col Fiscal Cliff

Dopo lo spread ecco pronto il cliff ad imperversare nel dibattito politico economico.

29 / 12 / 2012

Che gli Stati Uniti abbiano goduto ampiamente di una posizione privilegiata nel governo della finanza, interna ed internazionale, è un dato incontrovertibile, di cui hanno potuto beneficiare anche i cittadini americani. Buon per loro.
Che l'indebitamento interno ed internazionale sia stato procrastinato, stante la campagna elettorale pur essendone uno dei temi centrali - su cui si impappinò lo stesso Obama nel primo mach televisivo, è palese.
Ora è finita la ricreazione per tutti, i mercati politico finanziari vogliono sicurezze: il deficit statunitense non è tanto lontano da quello della Grecia, il debito pubblico è peggiore di quello italiano; gli USA, dunque, sarebbero sull'orlo del default economico se le scelte attuate non avessero un
chiaro supporto politico, appunto di politica economica.
Un brivido di piacere corre lungo la schiena degli speculatori finanziari:
la crisi economica tornerà a mordere anche negli Stati Uniti...
Per poterci orientare un po' proponiamo 2 pezzi: alcuni stralci dal 'Post' e un contribuito di Mario Pianta dal Manifesto.


Che cos'è il Fiscal Cliff


di Francesco Costa
dal Post

Negli ultimi tempi si è parlato molto del cosiddetto fiscal cliff, letteralmente baratro fiscale, e molto se ne parlerà ancora probabilmente nei prossimi giorni stando alle notizie che arrivano dagli Stati Uniti...........


Parte delle esenzioni fiscali in scadenza sono quelle approvate da George W. Bush a favore delle fasce più ricche della popolazione. Contemporaneamente, però, scadranno una serie di esenzioni fiscali approvate dall’amministrazione Obama col pacchetto di stimolo all’economia approvato all’inizio del 2009, dirette soprattutto alla classe media e ai disoccupati.

Un’altra serie di tagli scatterà automaticamente in ragione dell’accordo raggiunto faticosamente durante l’estate del 2011 da democratici e repubblicani, quando si trattò di alzare il tetto fissato dalla legge per le dimensioni del debito pubblico americano, concedendo così al governo di continuare a prendere denaro in prestito. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che il Congresso avrebbe dovuto approvare tagli alla spesa per 98 miliardi entro la fine del 2012, altrimenti sarebbero entrati in vigore dei tagli automatici e lineari su due capitoli di spesa: servizi sociali e istruzione, cari ai democratici, e l’esercito, caro ai repubblicani. A tale scopo si insediò un cosiddetto “super comitato” – composto da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani – che non riuscì a trovare un compromesso.

Di nuovo il tetto del debito
Un’altra scadenza si è accavallata a quelle di cui sopra: il ministro del Tesoro Timothy Geithner ha diffuso ieri una lettera in cui ha spiegato che il tetto massimo del debito pubblico statunitense, stabilito per legge a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre 2012 e non nel 2013, come era stato previsto mesi fa....

Ogni paese ha bisogno di soldi per pagare le proprie attività, gli stipendi ai propri dipendenti, i programmi di welfare, gli investimenti in infrastrutture, i programmi di assistenza sanitaria, eccetera. In teoria questi soldi dovrebbero arrivare dalle entrate: in primo luogo dalle tasse. In pratica, però, di questi tempi e per la maggior parte dei casi, i soldi in entrata sono meno dei soldi in uscita. A fronte di questa situazione, di norma i governi prendono del denaro in prestito – da banche, fondi e investitori, attraverso i titoli – e quindi si indebitano.

Anche gli Stati Uniti hanno un debito pubblico di proporzioni non indifferenti. Negli Stati Uniti, però, per prendere denaro in prestito e indebitarsi il governo ha bisogno dell’autorizzazione del Congresso. Fino al 1917, serviva un voto del Congresso per ogni prestito. Dal 1917 si è deciso per una pratica più agile: fissare un tetto massimo di indebitamento e permettere al governo di muoversi come meglio crede all’interno di quel tetto. Se non fosse che negli anni, un po’ per l’inflazione e un po’ per la situazione dell’economia, quel tetto è stato superato più volte: tutti i presidenti americani da Truman in poi hanno visto salire il tetto del debito statunitense. Il Congresso ha alzato il tetto del debito 18 volte durante la presidenza Reagan, 8 volte durante la presidenza Clinton, 7 volte durante gli anni di George W. Bush e 4 volte fino a ora con Barack Obama alla Casa Bianca......



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FISCAL CLIFF

Tasse, spesa, moneta. Tre lezioni dagli Usa
di Mario Pianta

L'impasse politica di Washington sulle misure fiscali offre tre lezioni sui rapporti tra economia e politica, utili per l'Europa e l'Italia. La prima è che la politica fiscale - la tassazione e la spesa pubblica - viene interpretata in due modi opposti. Per il presidente americano Barack Obama - e, diciamo, il centro-sinistra - è uno strumento per fornire servizi pubblici distribuendo equamente il prelievo delle imposte. Per la destra - i repubblicani che hanno il controllo della Camera dei Rappresentanti Usa - l'agenda è ancora il taglio del welfare e l'arretramento dello stato. È per questo che hanno rifiutato l'altroieri anche la modesta proposta dei democratici (in maggioranza al Senato) di aumentare le tasse su chi guadagna più di 250 mila dollari l'anno. Redistribuire o tagliare? È uno scontro tra paradigmi contrapposti, non tra proposte su cui si può mediare. Obama ha passato gli ultimi due anni del suo primo mandato a cercare compromessi con i repubblicani su un terreno in cui non sono possibili. Ha offerto grandi tagli al welfare, respinti come inadeguati dai repubblicani, inamovibili sugli sgravi fiscali ai ricchi e ai ricchissimi, le misure introdotte da Reagan e Bush (padre e figlio) che hanno riportato le disuguaglianze negli Usa ai livelli del 1929. Questo scontro politico tra paradigmi diversi sul ruolo dello stato può essere risolto solo da una vittoria politica. Quella di Obama nel novembre scorso non è bastata a riconquistare la Camera, ma l'occasione si ripresenta con le elezioni intermedie del 2014. A Washington (ma anche a Roma) il centro-sinistra può ridefinire su queste basi il terreno dello scontro elettorale - per una politica di giustizia economica e sociale - anziché inseguire l'agenda dell'avversario sul terreno che non gli appartiene.
La seconda lezione riguarda la riscoperta americana della politica economica. Gli Stati Uniti sono stati finora alla larga dall'austerità imposta all'Europa e hanno così una disoccupazione in calo (7,9% a novembre, due punti in meno che in Italia) e un'economia che cresce (oltre il 2% di aumento del Pil 2012, quattro punti e mezzo più che in Italia). Sono i risultati che hanno riportato Obama alla Casa bianca, grazie a politiche «keynesiane» espansive che hanno sostenuto l'economia. Quelle fiscali hanno portato il deficit pubblico a circa 1.100 miliardi di dollari (il 7,5% del Pil); quelle monetarie hanno visto la Fed stampare dollari a tutto spiano fin dall'inizio della crisi finanziaria nel 2008. Ma il 12 dicembre scorso è avvenuta una vera rivoluzione: la Federal Reserve ha annunciato che manterrà i tassi d'interesse vicino allo zero fino a quando la disoccupazione non sarà scesa sotto il 6,5%. La politica monetaria abbandona l'ossessione di limitare l'inflazione e diventa uno strumento per creare posti di lavoro. È una svolta che potrebbe chiudere il paradigma monetarista su cui è stata costruita la Banca centrale europea e l'Unione monetaria. Dal luogo più inatteso - la Fed Usa - viene la lezione che dalla crisi di questi anni si esce soltanto con il ritorno della politica. Una lezione fatta apposta per Draghi, Barroso e Merkel, ma anche per l'Spd in Germania e il Pd in Italia.
La terza lezione è che, se la politica non agisce, l'economia rischia davvero il baratro. Se Obama non fa votare le sue misure dal Congresso, il 1 gennaio scatteranno 600 miliardi di dollari di tagli automatici di spesa e nuove tasse, una manovra che pesa per il 15% della spesa pubblica Usa e che precipiterebbe il paese nella recessione. Lo stesso vale per il debito pubblico Usa, destinato a raggiungere il 31 dicembre 2012 i 16.400 miliardi di dollari (oltre il 100% del Pil), il limite finora autorizzato dal Congresso. Senza un accordo politico, lo sfondamento del tetto all'indebitamento e le mani legate della Casa bianca potrebbero portare alla fuga dai titoli del Tesoro Usa (in parte significativa comprati da investitori stranieri) e a un crollo di Borsa. Con un debito privato pari al 250% del Pil e i flussi finanziari che negli ultimi mesi hanno cessato di far affluire capitali a Wall street, la posizione finanziaria Usa si fa precarissima. Una nuova grande depressione è dietro l'angolo, se la politica non riesce a imporsi al comando dell'economia.