Le notizie che arrivano sono di vera e propria
guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi
aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo
popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne
vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione
di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che
con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da
quarantuno anni. È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di
democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non
il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare
diveramente quel mondo e insieme le nostre società blindate.
Ora che
finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel
popolo e quel paese non può tacere. Come fa il governo italiano che si
nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione
europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei
popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre
a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare
quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008. Lo
sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è
rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come
Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di
carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione
dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non
politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo
trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non
hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a
chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai
fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe
essere la richiesta precisa.
Ma i fatti che si affollano mentre
scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un
certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua
politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la
Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar
- quello impiccato dagli italiani E i dimostranti inneggiano a el
Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato
l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km
da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù
della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli
italiani nel 1911. Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste
componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di
liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per
decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla
guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso
Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e
contraddice il regime del Colonnello.
Se solo pensiamo a pochi mesi
fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei
carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la
domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo
che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a
presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva
nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si
consumava nella sua patria.
Eppure Gheddafi non è stato solo un
fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak. Quando fu protagonista del
colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole
organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un
anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i
20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo.
Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la
Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo
sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che
doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del
popolo» voluti dal regime.
Qui ha fallito. Quando si è
autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del
colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una
persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni
diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe
anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva,
come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato
l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società
politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più
grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la
resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.
La
situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai
tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù
della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della
svolta nel precipizio. Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che
bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo
alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani
degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani
di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a
Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica
della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una
conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella
Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È
una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che
hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della
generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno
fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima
disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona
redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di
un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del
Colonnello. La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare
l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione.
Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro
Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è
anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima
volta.
Libia - Nel precipizio
22 / 2 / 2011
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