La svolta di Trump - Gerusalemme capitale: "Scelta necessaria per la pace"

7 / 12 / 2017

La notizia secondo cui il presidente statunitense Donald Trump avrebbe spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e proclamato - quest’ultima - capitale israeliana è divenuta realtà nelle ultime ore. 

Il presidente americano ha annunciato, nel pomeriggio di mercoledì 6 dicembre, che "è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele", criticando la scelta dei suoi predecessori che hanno sempre rimandato una decisione del genere. Per il presidente statunitense il suo annuncio "segna l'inizio di un nuovo approccio nel conflitto tra Israele e i palestinesi". In pochi minuti, Donald Trump è riuscito a semplificare 70 anni di storia, a violare il diritto internazionale, a negare ai palestinesi il diritto alla propria autodeterminazione e a legittimare contemporaneamente i prossimi soprusi israeliani. 

L'attesissimo annuncio è arrivato dopo ore di preoccupazioni da parte dell'intera comunità internazionale. 

La questione ha scomodato anche il nostro ministro degli Esteri, Angelino Alfano, il quale aveva già dichiarato di seguire con attenzione le vicende che arrivano dal Medio Oriente. Tuttavia, qualche giorno dopo il respingimento di Leila Khaled all’aeroporto di Roma, le testate giornalistiche nazionali avevano già riaperto la questione su Gerusalemme, in quanto prima tappa della 101esima edizione del Giro d’Italia che partirà a maggio del prossimo anno. 

Il problema verteva sulla dicitura “Gerusalemme Ovest” presente nei comunicati ufficiali del Giro d’Italia: per il governo israeliano Gerusalemme è unificata e non esistono differenze tra la parte orientale e occidentale della Città Santa. Così, di fronte al diktat israeliano di eliminare il punto cardinale dalla dicitura,  l’Italia ha prontamente ubbidito, legittimando così la politica coloniale israeliana e rinnovando il suo supporto al governo di Benjamin Netanyahu.

Va ricordato che l’Italia, lo scorso maggio, aveva respinto la mozione dell’Unesco la quale negava la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme. 

In quell’occasione, lo stesso Alfano diceva di volersi dissociare da quelle che ai suoi occhi erano “risoluzioni politicizzate su Gerusalemme”.

Qualche mese prima, nel dicembre 2016, mentre gli Stati Uniti dell’ex presidente Obama tentavano, astenendosi, l’ultima mossa politica nel panorama mediorientale, il nostro governo si esprimeva in maniera contraria alla risoluzione 2334 approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la quale condanna apertamente “ogni misura intesa al alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est.” 

Proprio in quell’occasione Donald Trump, intervenne in maniera preoccupante e chiese a Israele di pazientare fino al 20 gennaio, data del suo insediamento ufficiale nella Casa Bianca. Fu proprio Benjamin Netanyahu, alla fine dello scorso anno, a rispondere al segretario uscente John Kerry, il quale invocava la soluzione dei due stati, accusandolo di condannare “la politica che autorizza gli ebrei a vivere nella loro storica patria e nella loro eterna capitale, Gerusalemme.” Subito dopo la vittoria di Trump, David Friedman noto avvocato ebreo statunitense, vicino ai movimenti estremisti rabbinici e da sempre consulente del biondo Donald, fu nominato ambasciatore americano in Israele e dichiarò di non vedere l’ora di lavorare a Gerusalemme. 

Cosa ci fa capire questo breve salto temporale nel recente passato? 

La risposta non richiede molta fatica: Donald Trump è  sicuramente un uomo che sa mantenere le promesse. 

Del resto, il presidente americano non poteva tradire la fiducia di quella cerchia di magnati ebrei statunitensi che hanno supportato e finanziato la sua campagna elettorale fin dall’inizio. Non serve l’intervento di lucide menti geopolitiche per capire che in ballo ci sono interessi economici e finanziari di due delle più grandi potenze mondiali: i diritti ancora una volta negati al popolo palestinese possono aspettare, come è sempre stato. 

L’amministrazione Trump con la sua imminente decisione rischia di alterare gli equilibri geopolitici, motivo per cui molti capi di stato stanno esprimendo le proprie preoccupazion. C’è da chiedersi come mai lo facciano solo oggi e non quando c’era ancora possibilità di dare agli eventi storici una piega diversa. 

Sono anni che Israele va avanti con la sua politica di occupazione e colonizzazione ai danni del popolo palestinese, anni in cui ha violato trattati internazionali e risoluzioni Onu, arrestando minori, imponendo ceck-point, demolendo case, confiscando risorse e terreni e continuando a espandere le proprie colonie: tutto ciò è avvenuto nella maggior parte dei casi con il beneplacito di quegli stessi paesi che oggi, ipocritamente, sono terrorizzati dalle tragiche conseguenze di una scelta del genere. 

Eppure, il governo israeliano ha servito su un piatto d’argento diverse occasioni in cui la comunità internazionale avrebbe potuto prendere, a livello pratico e non solo teorico, posizioni diverse. 

Nurit Peled-Elhanan, insegnante israeliana presso la facoltà di Scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme, da tempo denuncia i processi di legittimazione della politica israeliana a partire dai libri scolastici adottati nel suo paese. 

In uno dei tanti sussidiari da lei analizzati si legge: “Se questa cartina fosse stata disegnata cento anni fa, non si troverebbe riportato un colore particolare per gli ebrei perché la maggior parte di loro viveva altrove, in vari Paesi (gli ebrei sono stati in esilio per duemila anni). La Terra di Israele è la terra degli ebrei. Durante il lungo periodo in cui sono rimasti lontani (…) gli ebrei non hanno mai smesso di desiderare di ritornare e stabilirsi nel proprio Paese. Nei loro cuori hanno portato il detto (Salmi, 137:5). Da quando gli ebrei sono tornati ed è stato fondato lo Stato di Israele, la nostra capitale Gerusalemme è ridivenuta il più importante centro ebraico per il popolo ebraico”.

“Ma Gerusalemme era già capitale di Israele, l’ho studiato a scuola!”, dirà oggi qualche ex giovane bambino ormai cresciuto e diventato soldato pronto a difendere il proprio stato!

La stessa frase che potremmo sentirci dire da qualche nostro giovane connazionale, vista la presenza di informazioni storiche scorrette e imprecise segnalate anche nei nostri libri di storia e geografia. 

Se da una parte è vero che la propaganda sionista passa anche per la giudaizzazione della geografia e della storia che per anni ha fatto in modo che le persone si abituassero all’idea di Gerusalemme come capitale israeliana, dall’altra va ricordato che non vi è alcun trattato giuridico o risoluzione internazionale che dichiari una simile affermazione (fatta eccezione per la Jerusalem Law, varata nel 1980, respinta dall'Onu e valida solo per Israele).

Ma già prima delle elezioni israeliane del 1996, che videro la prima vittoria di Netanyahu, Dore Gold, consigliere del capo della Knesset da più di 25 anni, aveva dichiarato che Israele avrebbe dovuto fare il possibile affinché Gerusalemme rimanesse sotto il totale controllo israeliano, grazie a un processo di giudaizzazione della Città Santa e al supporto diplomatico americano. 

E il possibile, a distanza di anni, è stato fatto. 

Lo stesso Gold, il mese scorso, durante un congresso sui benefici e i cambiamenti del ricollocamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, si diceva molto sicuro dell’onestà di Trump che avrebbe sicuramente mantenuto la promessa fatta durante la campagna elettorale. Durante lo stesso congresso, come riporta il quotidiano Haaretz, anche il repubblicano Ron DeSantis si diceva indignato in quanto “è assurdo che Israele sia l’unica nazionale al mondo in cui la nostra ambasciata non si trova nella capitale. Non è così che si trattano gli alleati, soprattutto se parliamo di uno dei nostri alleati più importanti”.

DeSantis continua affermando che lo status quo di Gerusalemme secondo cui essa è territorio sotto protezione internazionale deve essere modificato poiché Israele è l’unico stato in grado di difendere i luoghi sacri che la città conserva.

Tuttavia, la storia delle operazioni militari degli ultimi anni insegna che il governo israeliano ha un concetto molto particolare di “difesa”. 

Non dovremmo quindi sorprenderci se in un domani non troppo lontano il governo israeliano decidesse, per motivi puramente difensivi, di chiudere per sempre l’accesso ai palestinesi alla Spianata delle Moschee, luogo simbolico e fondamentale nella memoria collettiva palestinese. 

Lo stesso sito che, grazie a una recente app promossa dall’organizzazione sionista Aish HaTorah, è possibile distruggere per lasciar spazio alla costruzione di un nuovo tempio ebraico. 

A poche ore dall'annuncio ufficiale, Benjamin Netanyahu può festeggiare la notizia assieme ai suoi ministri con la sfacciataggine e l’arroganza di chi sa che può agire indisturbato nella sua subdola strategia di cancellazione del popolo palestinese. Esattamente come quando aveva permesso a Miri Regev, ministra israeliana della Cultura e dello Sport, di partecipare all’inaugurazione del festival di Cannes dello scorso maggio con un abito sulla cui ampia gonna bianca era disegnata Gerusalemme con la Cupola della Roccia e la Torre di Davide in primo piano. 

Poche ore fa, il capo della Knesset ha dichiarato che la decisione di Trump è già vista come un grande passo avanti per il riconoscimento dell’identità storica e nazionale di Israele. In tutto ciò la politica interna palestinese deve fare i conti con decenni rinchiusi nelle stanze del potere distaccati dalla realtà dei fatti a tendere la mano prima a uno poi all'altro politico. Anni in cui l'Autorità Palestinese è stata ben lontana dal salvaguardare i diritti dello suo stesso popolo, in nome di trattative di pace fittizie che invece di trovare soluzioni, non facevano altro che regalare un metro di terreno in più a Israele. Abu Mazen che ora si appella alla comunità internazionale, è lo stesso che nel maggio scorso ha ringraziato Trump per la sua visita a Betlemme, la quale avrebbe portato una ventata di ottimismo. Mahmud Abbas ancora una volta si è dimostrato incapace di leggere il quadro politico dentro il qualche si muove e resiste il suo popolo. 

Ora, dopo l'annuncio del Tycoon non resta che riporre le speranze nelle nuove strategie che dovranno adottare i comitati popolari palestinesi, ormai consapevoli del fallimento della politica istituzionale e dei cosiddetti "processi di pace". 

Nel frattempo,  sono migliaia i palestinesi che in queste ore stanno protestando per le strade di Gaza e di tutta le West Bank dopo aver proclamato tre giorni di collera che vedranno sicuramente un exploit nella giornata di Venerdi.

Così come sono migliaia i palestinesi in diaspora che, dalla Giordania al Libano, stanno dimostrando la propria solidarietà e la propria rabbia consapevoli di dover scrivere un’altra pagina di resistenza. 

Un po’ come un vecchio uomo palestinese che alla mia domanda su cosa pensasse dell’imminente decisione di Trump ha risposto in questo modo: “Ma Donald, chi?”