Voglia di fiducia

11 / 12 / 2011

Quanto meno hanno fiducia in se stessi e nel governo tanto più i tre grandi blocchi parlamentari (Pdl, Pd, Terzo Polo) supplicano Monti di porre la fiducia sulla manovra, per costringersi a votarla senza frantumarsi al proprio interno e senza assumersi responsabilità per gli effetti depressivi e sperequativi. Si replica la farsa già inscenata dall’agonizzante governo Berlusconi: lo vuole l’Europa, lo vuole la Bce. Altrimenti, la catastrofe. Adesso lo vogliono i “tecnici”. Domani lo vorrà Baal, nelle cui fauci roventi gettare i pensionati troppo longevi e gli adolescenti senz’arte né parte. Con corredo televisivo di lacrime ministeriali.

L’auto-svuotamento della democrazia rappresentativa e concertativa (ah, la flebile arrendevolezza con cui i sindacati hanno rinunciato ai teatrini di un tempo) ha completato la riforma dall’alto imposta da Napolitano, con un’alterazione radicale della costituzione materiale, in attesa di qualche probabile formalizzazione in senso semi-presidenzialista, di cui una nuova legge elettorale potrebbe essere il segno prognostico. Un passaggio importante potrebbe consistere nella disgregazione dei blocchi tradizionali di centro-destra e di centro-sinistra, magari con un corposo ispessimento di un’area centrista più o meno cattolica, nel segno di Todi. Lo smontaggio del bipolarismo è confluente obbiettivo di Monti e Casini. La voglia di suicidio non manca a quei soggetti, come appunto mostra l’ansia di porre la fiducia, ed è ripagata dalla crescente sfiducia degli italiani, che ha toccato il record storico dell’86%, contro il 75-80% dell’epoca di -Tangentopoli. Più complicato che tale disordinata aspirazione dia vita a una formazione consistente che faccia da corpaccione politico all’anima tecnocratica e da base parlamentare a un nuovo potere presidenziale –cui, fra l’altro, verrà presto a mancare un attore determinante quale Napolitano, forte del consenso popolare e dominus del Pd.

Gli ostacoli, inoltre, che si frappongono alla riforma dall’alto o rivoluzione passiva che dir si voglia, sono due e di non poco conto. Il primo è il persistenza aggravamento della crisi economica mondiale e l’incombere della recessione in un’Europa mai come oggi divisa e rissosa. Il secondo è la carenza di qualsiasi nuovo progetto di recupero riformista delle vittime della crisi. Ogni rivoluzione passiva si è fatta carico degli effetti dei sommovimenti in cui si inseriva: fusione di rivoluzione e restaurazione nel primo Ottocento, ristrutturazione fordista della produzione industriale, riforme keynesiane alla vigilia e all’indomani della II Guerra mondiale. Oggi invece l’ideologia neoliberista sopravvive stancamente al fallimento delle sue pratiche e dei proclami dissennati sull’esportazione bellica della democrazia e su meno Stato più mercato.

Come configurare un’alternativa di medio periodo, che vada oltre la resistenza alle misure più sanguinose e impopolari che ci stanno piovendo addosso, senza escludere ulteriori aggravi per lo sfacelo dell’euro e la logica dell’art. 8 ancora tutta da implementare? Al pragmatismo dei tecnici occorre rispondere con un pragmatismo dei movimenti che vada ben oltre la retorica dell’opposizione e della resistenza e non si affidi troppo a un politicismo marginale al “grande gioco”. Almeno dall’inizio dell’anno l’occasione delle primarie di coalizione e di programma si era fatta nebulosa e proprio lo straordinario successo di quelle comunali di Milano e Napoli l’aveva allontanata in modo irreversibile, palesando che il Pd non aveva nessuna intenzione di mettere in gioco i propri equilibri interni e tanto meno di precludersi la strada di un’alleanza con il centro moderato. Le concessioni di Vendola in cambio di un accordo a tre con Bersani e Di Pietro (la foto di Vasto) erano destinate al fallimento, mentre l’IdV –grazie al fiuto rustico del suo leader– si precipitava a inscenare un’opposizione populista, facendo dell’esclusione oggettiva una scelta soggettiva.

In un intervento al convegno fiorentino del 9 dicembre su La via d’uscita. L’Europa e l’Italia, crisi economica e democrazia, è stato detto con efficacia che il conflitto non è mediabile da un sistema già in atto ma assume il terreno scivoloso della crisi della forma partito e sindacato, esprimendo quella vita politica e in generale che sta fuori del recinto della rappresentanza e aspirando a riscriverne le regole. Ecco, si tratta di un’opzione allo stesso tempo pragmatica e costituente. Pragmatica, perché prende atto degli effetti irreversibili dell’impasse delle sinistre e della “rivoluzione” semi-presidenziale dall’alto. Costituente, perché addita un terreno di vera contrapposizione alla governance costituente su scala europea e nazionale senza subalternità alle residue illusioni rappresentative, sgonfiate da un Parlamento passato dal voto a maggioranza per dichiarare Ruby nipote di Mubarak all’unanimità per Monti, zio della patria (con re Giorgio, padre genetico della stessa). Fuori dal recinto rappresentativo.

Ci permettiamo di aggiungere: secondo altre modalità di rappresentanza e riorganizzando i rapporti di potere, non semplicemente rinunciando a inserirsi in esso, a “prenderlo”. Qui il pragmatismo si fa sperimentale al massimo grado. I referendum e le innovazioni gestionali di Milano e Napoli sono forme di rappresentanza non standard, ambigue e precarie quanto si vuole, ma dotate di requisiti di partecipazione dal basso e di dislocazione del potere. Il potere è una relazione, molare e molecolare; che non lo si “prenda” non vuol dire astenersi dal modificare quei rapporti. Ciò non avviene solo nei luoghi decentrati del potere centrale, ma soprattutto costruendo altri luoghi istituzionali, occupando spazi e forme di vita. C’è vita fuori dal recinto. E, come ogni forma di vita, si dà regole dunque si rappresenta senza delega, senza trascendenza e obbligazione. Di questo parliamo quando assumiamo la novità di #Occupy, quando riflettiamo sulla corrispondenza di proprietà comune e potere comune (due concetti da de-strutturare e ri-strutturare), sul rapporto simultaneo fra tumulti e istituzioni, su una riscrittura costituzionale dal basso per una Terza Repubblica dei movimenti e dei beni comuni. Un esperimento pragmatico che la governance tecnocratica e la crisi finanziaria mettono all’ordine del giorno, nei modi della sfida e dell’urgenza.