Tanto tuonò che piovve. Messa a confronto con la
potenza della finanza internazionale, la situazione dell'Italia si
rivela ormai ben poco differente da quella della Grecia. Non importa che
i cosiddetti «fondamentali» dell'economia siano differenti. La finanza
internazionale ha ormai la forza e gli strumenti, se lo volesse, per
mettere alle corde persino la Germania. È da mesi che gli economisti lo
sanno (o lo temono). Ma non lo dicono, per scaramanzia. Al massimo lo
accennano: ma solo per chiedere più lacrime (le loro: di coccodrillo) e
più sangue (quello di chi non ne ha quasi più).
Il problema è che non
sanno che altro dire. Mario Draghi, per esempio, ha affermato che non
ci sono precedenti di fallimento (default) di uno Stato da cui trarre
insegnamenti. Intanto non è vero e, vista la posizione che andrà a
occupare, sarebbe meglio che anche lui - e non solo lui - studiasse
meglio il problema. Perché non c'è solo la Grecia, né solo gli Stati
membri più deboli - i cosiddetti PIGS, a cui ora si è aggiunta anche
l'Italia: PIIGS - a essere a rischio. Persino Obama teme il default: e
non ha solo il problema, anche lui, dei tagli di bilancio: tra un po'
deve rinegoziare una fetta di debito e potrebbe non trovar più
sottoscrittori disponibili come un tempo, poi deve confermare l'ultimo
stock di moneta creata dal nulla: una cosa (che adesso si chiama
quantitave easing) con cui gli Stati Uniti hanno dominato l'economia
mondiale per sessant'anni, ma che non è detto gli riesca ancora. Neanche
la Francia naviga in buone acque. E la Germania, locomotiva d'Europa,
vive di export verso il resto del continente e verso la Cina. Ma se metà
dei paesi membri dell'Ue sarà messa alle strette la bonanza tedesca
potrebbe finire. E neanche la Cina va più tanto bene: scioperi, rivolte,
aumenti salariali vertiginosi, inflazione, «bolle» finanziarie. Ben
scavato vecchia talpa, direbbe Marx. Se sullo sfondo non ci fosse una
crisi ambientale di dimensioni planetarie. Insomma: non c'è «aria di
crisi». C'è un uragano in arrivo. Per mesi gli economisti hanno
trattato Tremonti come un baluardo contro il default del paese: solo
perché lui sostiene di esserlo. Ma è un ministro - il secondo della
serie - che non si accorge nemmeno che la casa dove abita viene pagata,
vendendo cariche pubbliche a suon di tangenti, da una persona con cui (e
con la cui compagna) lui lavora da anni gomito a gomito. Affidereste a
quest'uomo i vostri risparmi?
Qualcuno però ha trovato la soluzione:
azzerare tutto il deficit pubblico subito. "Lacrime e sangue" ora e non
tra due anni: così Perotti e Zingales sul IlSole24ore di sabato scorso.
Tagliare subito pensioni, sussidi alle imprese, costi della politica; e
giù con le privatizzazioni. Che originalità! Segue un bell'elenco di
"roba" - aziende e servizi pubblici - da vendere subito (per decenza non
hanno citato anche l'acqua). Per le manovre "intelligenti", aggiungono
gli autori, non c'è tempo. Infatti la loro proposta non è una manovra
intelligente. Intanto, in queste condizioni, vendere vuol dire svendere.
E azzerare il deficit non è possibile, perché poi, anche se non si
emettono nuovi titoli, bisognerà rinegoziare quelli in scadenza; i tassi
li farà la finanza con le sue società di rating; e non saranno certo
quelli di prima. Così il deficit si ricrea di continuo, in una rincorsa
senza fine. Prima o dopo il default arriva. Naturalmente, per mettere
alle corde pensionati, lavoratori e welfare, e svendere il paese, ci
vuole il "consenso", ci avvertono gli autori. Per loro il consenso è il
"coinvolgimento dell'opposizione". Forse ci sarà; ma non servirà a
niente.
Perché il consenso è un'altra cosa: è il coinvolgimento
delle donne e degli uomini che hanno animato l'ultima annata di
resistenza nelle fabbriche, di mobilitazioni nelle piazze, di
occupazione di scuole e università, di campagne referendarie, di
elezioni amministrative, di processi molecolari per ricostruire una
solidarietà distrutta dal liberismo e dal degrado politico, morale e
culturale del paese. E' il popolo degli indignados, che ormai, con i
nomi e le proposte più diverse, ha invaso la scena anche in Italia:
forse con una solidità persino maggiore, dovuta a una storia più lunga,
che risale indietro nel tempo, fino al G8 di Genova; e forse anche a
prima. Un popolo che quel consenso non lo darà mai.
Se per Perotti e
Zingales il problema è "far presto", per altri economisti continua
invece a essere la crescita: non quella che permette di ricostituire
redditi e occupazione strangolati; ma quella necessaria per ricostituire
un "avanzo primario" nei conti pubblici, con cui azzerare il deficit e
cominciare a ripagare il debito ai pescecani della finanza
internazionale; ben nascosti dietro chi ha investito in Bot qualche
migliaia di euro. Questi economisti li rappresenta tutti Paolo Guerrieri
sull'Unità del 10.7: "Il paese è fragile - spiega - ma la ricetta per
la crescita la conosciamo tutti". E qual è? "Concorrenza, nuove
infrastrutture (il Tav?), ricerca (di che?), liberalizzazione (forse
voleva dire "privatizzazione") dei servizi (anche dell'acqua?). Cose che
sappiamo - aggiunge - ce l'hanno consigliate tutti". Paolo Guerrieri ha
appreso questa ricetta dall'economia mainstream e probabilmente
continuerà a insegnarla ai suoi allievi per tutto il resto della sua
vita. Pensa che per tornare alla crescita, che per lui è la "normalità",
basti premere un bottone; perché il disastro attuale è solo una sua
momentanea interruzione: non si sa se dovuta agli "eccessi" della
finanza o all'inettitudine di Berlusconi.
Ma le cose non stanno
così. In un mondo al cappio, è la finanza internazionale che fa le
"politiche economiche". Quelle che vedete. Gli Stati non ne fanno più; o
ne fanno solo più quel poco che la finanza gli permette di fare; a
condizione di poter continuare a speculare e a mandare in malora il
pianeta. Anche "la crescita", ormai, le interessa solo fino a un certo
punto; se non c'è, poco male: per lo meno finché restano pensioni,
salari, welfare, servizi pubblici e beni comuni da saccheggiare. Non è
la prima volta nella storia che questo succede. Anche Luigi XIV, il Re
Sole, diceva: dopo di me, il diluvio.
Adesso sta a noi - a tutti gli
"indignati" che non accettano questo stato di cose e questo futuro -
ricostruire dal basso quello che Stati e Governi non sono più in grado
di promuovere; e nemmeno di concepire. Cioè il progetto di una società,
di un sistema produttivo e di modelli di consumo condivisi, più equi,
più sobri, più efficienti, più onesti; ma soprattutto le strade da
percorrere - itinerari mai tracciati - per realizzarli. E tutto in un
mondo che sarà sempre più - e a breve - cosparso di macerie: sociali,
ambientali e morali. Ma anche di reazioni furibonde e, verosimilmente,
violente (basta pensare all'occupazione militare della Valle di Susa per
imporre il "loro" modello di crescita; o a quella della Campania per
imporre la "loro" gestione dei rifiuti). Non sarà una passeggiata per
nessuno.
Un programma per realizzare quel progetto oggi non c'è; e
non c'è il "soggetto" - per usare un'espressione ormai logora - per
elaborarlo e portarlo avanti. Non a caso. Perché è un programma
irrinunciabilmente plurale; che può nascere solo dal concorso di mille
iniziative dal basso, se saranno in grado di tradursi in proposte che
consentano un coordinamento e se avranno la capacità di imporsi con la
forza della ragione e dei numeri. Ci aiuta il fatto che per ciascuno di
noi l'agire locale è sempre orientato da un pensiero globale. L'opposto
di quello che fanno i Governi e le forze che li sorreggono. Provocano
disastri globali in nome di convenienze dettate da un meschino pensiero
locale. La disfatta delle cosiddetta governance europea non è altro.
Tra
i criteri ispiratori della nostra progettualità c'è innanzitutto un
salto concettuale: nell'era industriale lo "sviluppo" economico è stato
promosso e diretto dall'aumento della produttività del lavoro. Che è
andata talmente avanti che oggi è praticamente impossibile misurare il
valore di un bene con la quantità di lavoro che esso contiene, anche se
ci sono ancora - e sono tanti - dinosauri come Marchionne che lasciano
credere di poter battere la concorrenza tedesca o cinese rubando agli
operai dieci minuti di pausa, qualche ora di straordinario, o qualche
giorno di malattia. Tutto ciò è avvenuto a scapito dell'ambiente e delle
sue risorse, saccheggiate come se non avessero mai fine. Da ora in poi,
invece, si tratta di valorizzare le risorse ambientali e renderle
sempre più produttive: con la condivisione, la sobrietà, l'efficienza,
il riciclo, le fonti rinnovabili, la biodiversità (ecco un modo di
distinguere la ricerca che vogliamo dalle vuote declamazioni in suo
favore). Perché è dall'uso più accorto delle risorse che dipenderà anche
la produttività del lavoro, che non può più essere misurata in giorni,
ore, minuti e secondi; ma solo con il grado di cooperazione e
condivisione che quell'uso saprà sviluppare.
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Uragano in arrivo
12 / 7 / 2011