Una giornata particolare

17 / 1 / 2011

Il 14 gennaio si è aperto con il micidiale colpo sferrato dalla Procura di Milano all’icona family day che Berlusconi stava costruendosi in vista delle elezioni (un corruttore di minorenni circondato da papponi, altro che il patriarca con figli e nipotini belanti), è proseguito con le notizie sulla fuga ingloriosa di Ben Ali, si è chiuso con l’incredibile proporzione dei NO al referendum di Mirafiori. Sappiamo bene dalla Poetica di Aristotele che le coincidenze temporali (in quel caso fra le battaglie di Imera e di Salamina, lo stesso giorno del 480 a.C.) non indicano il senso recondito della storia ma offrono solo lo spunto a un’efficace narrazione, proviamo dunque a proporne una la cui verità venga attestata dagli effetti. Una narrazione performativa. Per dirla più semplice, mettiamo insieme dei segni del tempo e organizziamoli in modo da far crescere e vincere le forze che si sono confusamente manifestate in felice concomitanza e a rovesciamento delle tendenze che finora avevano trionfato. Scommettiamo sull’inversione di corrente, autorizzati dal fatto di averla sollecitata, nel nostro piccolo, con le lotte sulla scuola, l’università e l’acqua, fino alle importanti scadenza di fine 2010, 14 e 22 dicembre. Diciamo che anche il nuovo anno non è iniziato proprio male.

L’evento decisivo è stato di sicuro il voto alla Fiat, con cui la maggioranza degli operai ha respinto il ricatto marchionnesco, lasciando nelle mani del finanziere con maglione la patata bollente delle promesse di investimento su una fabbrica ingovernabile e senza spaccarsi più di tanto con chi è stato costretto per paura a votare sì. Anzi, sospettiamo che proprio questi ultimi saranno i più incazzati e indocili, strozzati perfino nella protesta. Diciamo che io su quei Suv montati in futuro a Mirafiori (il pregiato motore resta a Detroit) non mi ci fiderei mica tanto a salire. La spaccatura è passata invece fra stragrande maggioranza operaia (ben al di là di iscritti e votanti Fiom) e i sindacalisti venduti o vigliacchi che hanno sostenuto le tesi del padrone, schiamazzando alle porte e convocando riunioni deserte in locali adiacenti alla fabbrica. Come ha scritto con involontario umorismo il «Foglio», cercando di spacciare l’esito del referendum per un successo del nuovo sistema di relazioni industriali, «adesso anche i metalmeccanici di Mirafiori hanno aggiunto il loro timbro sulla realtà». Eh già, ma proprio nel senso opposto a quello auspicato dal fogliaccio di Giuliano Ferrara. Parentesi: la cooperativa che lo edita è presieduta da Giuseppe Spinelli, l’ufficiale pagatore delle partecipanti ai bunga-bunga!

Gli effetti del referendum, indeterminabili nei rapporti con la Fiat, le cui scelte dipendono più degli esiti della scalata finanziaria alla Chrysler che dai risultati produttivi in Europa –basti pensare che ci sarà ancora un anno e mezzo di cassa integrazione negli stabilimenti italiani, latitano nuovo modelli e piani industriali e le vendite continuano ad essere in caduta libera–, sono invece ben evidenti rispetto agli altri sindacati, che escono sconfitti e sputtanati dalla battaglia referendaria e dal successivo disimpegno di Marchionne. Quanto all’infida casa madre Cgil, essa è stata obbligata a una più matura riflessione sulla gestione della vertenza e alla rinuncia all’avventurosa proposta del firma “tecnica” del contratto. La Camusso ha avuto abbastanza buon senso per desistere e rinviare il rientro in fabbrica a una trattativa sulla rappresentanza di lunga e malagevole prospettiva. Di assoluto rilievo è il fatto che la Cgil non solo non ha potuto farsi forza dello stato di necessità e del moderatismo del Pd per “domare” la Fiom, ma è stata messa in difficoltà dall’oltranzismo di Marchionne e Sacconi (per non parlare delle sbrasate berlusconiane) e ha dovuto constatare l’assoluto spappolamento del Pd, sul quale non possono più contare né posizioni “riformiste” né “radicali”. Infatti un ulteriore effetto collaterale dell’offensiva marchionnesca (oltre lo sfascio di Cisl-Uil e le ferite inflitte a Confindustria) è stata la morte del Pd, sganciato da ogni riferimento alla realtà e diviso irreparabilmente fra opzioni tutte subalterne (al padronato e ai centristi) ma in reciproca incompatibilità. Dire poi che Bersani costituisca un punto di mediazione sarebbe azzardato eufemismo.

Adesso il ruolo politico della Fiom è ingigantito, anche se la giornata del 28 resta molto delicata, perché allo sciopero di categoria arriva una base operaia stremata e in molti casi ibernata nella cassa integrazione –a cominciare dai principali stabilimenti Fiat dove si è lottato. A maggior ragione occorre il coinvolgimento dei settori studenteschi e precari e soprattutto l’elaborazione di una strategia che metta insieme la resistenza all’aggressione marchionnesca contro il sistema di relazioni industriali, la battaglia salariale e la questione della precarietà e di un nuovo welfare. Si tratta di supplire completamente a ogni sponda partitica e di contare al massimo sulla neutralità della centrale Cgil e su qualche fluttuante appoggio di altre federazioni sindacali. Comunque molto meglio di prima del referendum, quando i nemici sembravano più forti e i normalizzatori più agguerriti. L’impasse in cui si è ficcato Berlusconi –un attacco giudiziario inatteso e ben lungi dalla prescrizione, soprattutto un attacco che, per il carattere infamante delle accuse, non si presta al vittimismo elettorale– rende più debole il potere e forse allontana una prospettiva di consultazioni anticipate che sarebbe insidiosa per i movimenti, spostando l’asse del dibattito su temi irreali e introducendo rischi di subalternità alle forze partitiche esistenti. Inoltre un Presidente della Repubblica pappone, perfino in Italia sembra poco futuribile. Così infine i (le) migranti, oltre a contribuire al Pil e alla demografia, porteranno il centrismo al potere.

Ricordiamo infine che, indipendentemente dall’enorme significato che sta assumendo per tutto il Maghreb e il Medio Oriente la rivolta tunisina (vedi lo sgomento di Israele e il peloso interessamento Usa in chiave anti-europea), per noi sono particolarmente interessanti la forma e la composizione di quei moti, di cui non sfugge la somiglianza con analoghi eventi italiani. In piazza è scesa una generazione molto scolarizzata (percentualmente alla popolazione, più di quella italiana), in pratica senza sbocchi occupazionali, con ridotte possibilità di emigrazione e insofferente di un regime politico poliziesco. Non ci sono vistose interferenze fondamentalistiche. Di qui il carattere molto avanzato del movimento e la sua spontanea consonanza con i tumulti che hanno di recente percorso l’Europa. Dietro immagini simili (anche se più sanguinose) emerge una realtà comune di crisi della società della conoscenza, cui si unisce un impoverimento più drammatico del nostro perché parte da livelli già minimi di sussistenza. Il carattere più esplosivo delle contraddizioni tunisine rispetto all’Algeria (politicamente più libera) e all’Egitto (meno scolarizzato) fa capire perché i regimi arabi stanno tremando e i governi europei, in primo luogo la Francia di Sarkozy, sono rimasti tiepidi, salvo a schizzare Ben Ali una volta rovesciato. Specialmente vergognoso è stato il ruolo dell’Italia, che considerava il regime tunisino non una pedina del gioco internazionale (secondo la tradizione francese), ma semplicemente una terra per fare affari mafiosi, reclutare migranti controllabili ed escort per il Papi, piazzare pacchetti di controllo della Tv –sempre per il Papi e l’ineffabile suo complice Tarak Ben Ammar. Come un verme il ministro degli esteri Frattini ha sostenuto fino all’ultimo Ben Ali, baluardo di democrazia laica (Craxi, per riconoscenza familiare, aveva addirittura garantito la regolarità delle elezioni!), salvo a dimostrare entusiasmo per le successive scelte del popolo tunisino e i vari reggenti che cercano di frenare la rivolta dopo la fuga del tiranno. Chissà perché, ma ci pare una prova generale di altre cadute e fughe. Stavolta, però, non ci sarà una comoda Hammamet.