Dopo le elezioni, lo stato della governance in Europa.

Un voto contro la crisi

Specificità italiane e il punto di vista dei movimenti sociali.

8 / 5 / 2012

In Europa la gente a votare ci va, eccome. Il calo della partecipazione popolare alle differenti tornate elettorali dell’ultimo fine settimana (dalle consultazioni locali in Gran Bretagna al secondo turno delle presidenziali francesi, da quelle tedesche del Land Schleswig-Holstein alle politiche in Grecia, fino alle comunali in Italia), che alcuni osservatori avevano previsto tradursi in un vero e proprio crollo, si è invece verificato essere contenuto all’interno di un fisiologico, per i tempi che corrono e nel solco di una strutturale crisi della rappresentanza politica, processo di disaffezione, di distacco dagli stessi meccanismi rappresentativi, che resta comunque ben lontano dalla dualizzazione verticale dello spazio politico-elettorale in un contesto, ad esempio, come quello statunitense.

 La gente è andata a votare soprattutto per esprimere e far pesare, al di là della natura e dell’ambito specifico ad ogni singola consultazione, il proprio punto di vista di rottura, di rifiuto delle politiche di austerity che hanno segnato lo scenario europeo nell’ultimo biennio della crisi. Un voto, ovunque, sulla crisi.

E contro la crisi, ovvero contro la gestione che, nello spazio dell’Eurozona, ne ha dato l’asse politico Merkel-Sarkozy, condizionando le scelte della Commissione di Bruxelles e attraverso lo strumento della Banca Centrale di Francoforte, di fatto al servizio delle logiche speculative dei mercati finanziari globali. Gestione che ha prodotto l’innesco di una fase recessiva a spirale, segnata dal ridimensionamento della disponibilità di reddito reale, dalla crescita dei fenomeni di disoccupazione, sottoccupazione e precarizzazione diffusa, dall’attacco ai diritti del lavoro e dal taglio della spesa pubblica dedicata al welfare, dal complessivo peggioramento delle condizioni di vita per milioni di europee ed europei, per nascita o per destino.

Anche il voto italiano, al di là come vedremo del suo carattere amministrativo, parla questa lingua.

Sono punite severamente le destre (PDL e Lega) che hanno governato nove degli ultimi undici anni di storia di questo paese. Certo pesano gli scandali, ma ancor più il giudizio sulle politiche economiche e sociali degli ultimi governi, le promesse mancate del sogno berlusconiano e, al Nord, della rivoluzione federalista e fiscale che non è mai avvenuta. In tanti piccoli e medi comuni di Piemonte, Lombardia e Veneto, ed è qui che bisogna guardare cioè dove il consenso si era negli anni radicato, la Lega crolla intorno al cinque per cento. Si conferma invece là dove è legato a singole personalità: Tosi a Verona ormai incarna un vero e proprio modello, che riesce a combinare le pulsioni più oscure della cultura della destra locale (tradizionalismo cattolico e naziskin) con un compatto, e democristianissimo, sistema di potere dalla Curia alla Fiera fino alle fondazioni bancarie e alla gestione della sanità regionale. Ma lo stesso si potrebbe affermare per la Cittadella degli eredi di Bitonci e per le “isole verdi-padane” che sopravvivono al Nord. Per non dire del PDL, ridotto intorno al dieci per cento e lontano da numerosi ballottaggi, a Genova come a Palermo.

L’unica vera forza politica che tiene a livello nazionale, pur subendo consistenti emorragie sia in termini di voti assoluti che di percentuali, soprattutto là dove ha governato, è il Partito Democratico. E l’unica ipotesi di alleanza politico-istituzionale che appare credibile a livello nazionale è quella di Centrosinistra con SEL e IdV, più o meno allargata ai “moderati” del Terzo Polo. In una corsa al ribasso e alla frammentazione, non scordiamolo. E a tenere meglio che altrove è quel Centrosinistra che si presenta in termini di “anomalia”, o perché rigeneratosi attraverso il processo delle consultazioni primarie (Doria a Genova), o perché incarnato da autorevoli figure di rottura (Orlando a Palermo).

Un discorso a parte va fatto per il Movimento Cinque Stelle: i candidati di Grillo paiono, soprattutto al Nord, raccogliere il consenso di una parte più che significativa dell’elettorato di Berlusconi e della Lega, oltre a catturare, seppur in forma distorta e mistificata, una diffusa e genuina domanda di cambiamento. Sono fenomeno nazionale, nella misura in cui poco importa il profilo dei singoli aspiranti sindaci, sia che essi spuntino dal nulla sia che essi esprimano questa o quella specifica ed autentica vicenda locale. Ciò che conta è l’alone mediatico, sapientemente costruito da Grillo stesso e dai suoi ben pagati consulenti, e quel mix inedito dall’inequivocabile sapore di populismo, capace per il momento di tenere assieme odio anti-Casta e ambientalismo (purché oggettivo e tecnocratico), generica chiacchiera partecipativa e insofferenza anti-rom e anti-immigrati. Grillo è l’anomala variante italiana di un discorso antieuropeista (e, in ultima analisi, sovranista) che si sta strutturando in forme diverse in ogni paese del Continente. E soprattutto, questa è e resta variabile del tutto interna e compatibile con il gioco della rappresentanza in crisi: altro che “forza anti-sistema”, la retorica sviluppatasi intorno ad una lettura epifenomenica del tema della corruzione, perdendo di vista il nesso strutturale tra di essa e la crisi della democrazia, ha già ampiamente dimostrato (Tangentopoli e Lega docent!) di svolgere un ruolo di rafforzamento dei dispositivi di potere e non di loro destrutturazione.

Ecco perché, in questo quadro e in via di prima sintetica approssimazione, il punto di vista dei movimenti sociali che guardano alla costruzione ampia, coalizionale, di una possibile alternativa radicale allo stato di cose esistenti e alla sua crisi, non può che essere piuttosto semplice.

Come la maggioranza dei cittadini europei, avremmo ed abbiamo votato anche noi: contro la crisi e la sua gestione. Non già perché siamo convinti che le forze politico-istituzionali che si misurano sul terreno squisitamente elettorale possano, per ragioni strutturali, tradurre in azione di governo l’alternativa di modello e di sistema che, con urgente necessità, dovrebbe rivoluzionare le relazioni sociali date. Chi dovesse raccontare una storia del genere, si rivelerebbe per quel che è: o un baro o un idiota.

Ma perché, invece, siamo consapevoli che il successo di alleanze elettorali critiche nei confronti di quelle politiche neoliberiste, che hanno caratterizzato la totalità dei governi in Europa e orientato la gestione egemone della crisi, e una loro alternanza alla guida di quegli stessi governi nazionali e, di conseguenza, delle istituzioni europee, pur nel contraddittorio balbettio delle concrete soluzioni che sono e saranno in grado di articolare, possa creare e allargare crepe profonde nel blocco fin qui costituito dalla governance della finanza, che ha assunto la specifica forma della dittatura commissaria di oligarchie tecnocratiche in nome e per conto dei “mercati”.

La cronaca della dinamica sociale e politica reale degli ultimi anni si è premurata di dimostrare, per chi ancora non l’avesse capito, che nell’epoca della crisi che stiamo vivendo il “tanto peggio tanto meglio” proprio non funziona, che la cappa dell’austerity calata sull’Europa non ha prodotto la simmetrica reazione insurrezionale del “novantanove per cento”. Insomma, senza coltivare alcuna illusione, abbiamo ben chiaro che dall’altra parte del tavolo, di un tavolo che ambiremmo rovesciare, è per le istanze di trasformazione sociale più conveniente vi sia una governance flessibile e aperta, condizionabile e permeabile dalle spinte del conflitto. Conflitto che sta a monte e a valle di qualsiasi passaggio elettorale e da cui solo dipende la concreta possibilità di modificare i rapporti di forza sociali. Conflitto che può verificarsi tanto più efficace, quanto più sarà in grado di costruire coalizioni sociali larghe e tendenzialmente maggioritarie, intorno ai nodi del reddito e della redistribuzione della ricchezza, dei diritti del lavoro/non-lavoro, dei beni comuni e dell’ambiente, assumendo lo spazio europeo come immediata dimensione dell’azione politica.

Da qui bisogna ripartire.

Sapendo che molte e diverse sono le contraddizioni aperte con cui provare a misurarsi. Ne citiamo una, cui gioco forza sarà presto necessario tornare. A proposito di elezioni amministrative in Italia è stato osservato come i sindaci eletti lunedì scorso e quelli che usciranno dai prossimi ballottaggi si troveranno ad operare in una condizione ben diversa da quella degli amministratori che hanno governato le nostre città negli ultimi quindici anni: da “attori”, protagonisti delle vicende politiche del nostro paese, rischiano di ritrovarsi tutti ridotti al ruolo di semplici “esattori”, tutti sceriffi di Nottingham per conto delle politiche europee di compressione della spesa pubblica e della loro variante italiana del cosiddetto Patto di Stabilità. Un’osservazione che ripropone nella sua dirompente attualità, Lega o non Lega, la contraddizione materiale tra pressione centralista e tensione all’autonomia e all’autogoverno locale. La strada dell’alternativa passa anche per di qua ed è un’altra contraddizione che vale certo la pena agire fino in fondo.