Un partito della Paura e dell'Amore

21 / 12 / 2009

Partito dell’Amore? Calma, fratelli e sorelle, non incazzatevi subito per la nuova trovata berlusconiana. Che ognun* sia gelos* della propria esperienza di amore, che sobbalzi chi ricorda la spinoziana laetitia causata da un’altra persona o l’immagina a coronamento del processo di produzione del comune –beh, evidentemente non si tratta di questo. Ma il nuovo slogan del Papi ferito, del Presidente con le palle, segna l’avvio di una campagna ben strutturata con cui fare i conti. Possiamo sorridere dell’isteria collettiva, con palesi risvolti repressivi, che ha accompagnato l’incidente milanese fino al delirio cristologico del “sofisticato” Il Foglio: «Mi domando come non si rendano conto che Silvio Berlusconi dalla faccia massacrata è Gesù Cristo flagellato e coronato di spine dopo essere stato picchiato (proprio in volto) durante l’interrogatorio del Sinedrio. Due maschere di sangue perfettamente sovrapponibili» (C. Langone, 16.12.2009). Possiamo del pari deplorare la sconsiderata enfasi tirannicida dei dipietristi e del partito di Repubblica (Raparelli ne ha spiegato benissimo i motivi). Resta una strategia abbastanza coerente, di fronte a cui le opposizioni sono disarmate e balbettanti, incastrate nel paradosso che ogni rifiuto del partito dell’Amore le schiaccia sulla figura poco appetibile del partito dell’Odio. Si paga così il prezzo di una politica sinistrese tutta nutrita di rancore, gossip e risentimento, sganciata dalle lotte sociali e dalle alternative internazionali (Afghanistan, Palestina, ambiente).

Andando più indietro constatiamo che la dissoluzione irreversibile dei grandi schieramenti di classe (o anche soltanto di grandi blocchi coesi di interessi) di epoca fordista ha generato, passando per le pratiche neoliberiste e la frammentazione postfordista del lavoro, una segmentazione di strati sociali e di interessi cui corrisponde il declino dei partiti di massa e un sensibile affievolimento della forza dei sindacati, per di più strutturalmente disuniti. Il vuoto è stato colmato, un po’ dovunque ma in Italia con forme esasperatamente populistiche, dalla personalizzazione della politica. Orientamenti, come le privatizzazioni e le ideologie neoliberiste, cavalcate con entusiasmo dalla sinistra parlamentare (il partito dei sindaci, il sindaco d’Italia, ecc.) fino a quando è apparso chiaro che la destra era molto meglio attrezzata alla bisogna e non esisteva nessun leader “democratico” all’altezza della demagogia berlusconiana. Della sorte della sinistra “personalizzata” (Rutelli, Veltroni, Bassolino, Bertinotti, Vendola) è meglio tacere. Personalizzazione, da subito, ha significato in Italia violenza verbale, volgarità, esasperazione mediatica del conflitto, gusto per lo scontro senza contenuto reale –proprio per cancellare il reale e il conflitto. O di qua o di là, era già uno slogan del 1994. Lo schermo televisivo ha dato l’impronta al resto: il povero Funari, Sgarbi, Ferrara sono stati i prototipi, la tecnica dell’interruzione e dell’urlo (il cui campione, sempre su schemi reality, è l’ineffabile Castelli) si rivela il modello vincente. I triplici Vergogna! di Berlusconi ne sono l’ultimo sprazzo. La costruzione del nemico da odiare (bizzarramente definito “comunista”) è il prodotto docg della personalizzazione populista. Il rimbalzo subalterno dell’antiberlusconismo non solo fa abboccare le opposizioni a un gioco sterile ma conferisce all’aggressore l’aureola della vittima. A volte tumefatta.

Dov’è che Berlusconi ha fatto un passo avanti, oltre al vittimismo e alla pratica astuta dello stop and go per disorientare avversari già abbastanza rintontiti? La sussunzione della cooperazione nella valorizzazione non passa più esclusivamente nella rappresentazione statale delle volontà degli autori (modello hobbesiano di autorizzazione) ma anche nella captazione dei desideri, come ben mostra Berlusconi spifferando il segreto della sua innovazione politica: tutti gli italiani vogliono essere come me. Il Capo diventa l’attore compulsivo e l’utilizzatore finale dei sogni repressi dei molti autori, il sequestratore nell’Uno della sviata potenza moltitudinaria. Occorre dunque fare appello alle pulsioni affettive, non solo agli interessi. Alla sicurezza minacciata ma anche al positivo dell’amore. Ecco dunque il partito della Paura e dell’Amore. Dell’odio impaurito per il diverso incontrollabile (comunisti, gay, migranti, popolo di Facebook) e dell’amore gregario per il Capo. Funziona sempre il meccanismo dell’autorizzazione dal basso che è il segreto di ogni potere governamentale (il desiderio di servitù come forma perversa del desiderio inappagato). In primo piano vengono però le passioni, non le volizioni espressive di interessi. Le passioni tristi, s’intende, la paura, l’amore fondamentalista per il leader, per la comunità immaginaria, per la razza inventata, per la simbologia religiosa positiva (campanile, crocefisso, burqa). Dietro le passioni tristi ci sono interessi, certo, ma interessi dispersi, oligarchici, inconfessabili. I dispositivi di governance con queste emozioni ignobili ci vanno a nozze, se ne nutrono: il termine tecnico è crowdsourcing, prelievo e storno di risorse moltitudinarie.
Malgrado le apparenze ringhiose e patetiche, nulla è più astratto del partito dell’Amore (quindi, fratelli e sorelle, è giusto incazzarsi), perché stacca e deforma in delega di potere verso l’alto la potenza dei corpi reali, chiama amore il disamore, vitalità il sesso mercenario, protagonismo la serialità dello sciame, cultura del fare la passività privata. Un embodiment alla rovescia, cioè la messa in campo del corporeo per farlo meglio fuori. Il pianto sulla statuina del Duomo per giustificare lacrimogeni, manganelli e censura sulla Rete. Al melenso appello «l'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio» non si risponde con la frenesia dell’inciucio. L’alternativa è allora la conflittualità che nasce dal desiderio e dai bisogni, non l’evocazione del merito e della legalità –varianti obbrobriose e mendaci di un risentimento destinato a perpetua sconfitta.