L’estate
ci ha consegnato uno scenario delle lotte sociali nel paese
probabilmente inaspettato. Oggi possiamo sostenere ironicamente di
essere passati ad uno “sviluppo
verticale delle vertenze”,
ovvero dalle piazze e dalle strade ora si sale sui tetti, verso
l’alto, da una gru al tetto della fabbrica, dal tetto del
provveditorato a quello di un museo. L’esperienza della Innse a
Milano ha senza dubbio segnato uno spartiacque per quelle che sono le
lotte che si svilupperanno. Come tutti gli anni i movimenti si
sforzano di annunciare autunni caldi, caldissimi, bollenti, fino ad
esaurire gli aggettivi. La recente propensione dei metereologi a
considerare l’estate con un mese in più potrebbe venir incontro a
molti. Questo per dire che di autunni freddissimi ne abbiamo vissuti
diversi, e negli ultimi anni solo grazie all’onda e grazie ai
movimenti in difesa dei beni comuni c’e’ stata più calura o
quanto meno temperature miti.
Ma andiamo con ordine, in una
riflessione pre-autunnale che prova a svilupparsi sulla fase e la
tendenza e sull’approccio al conflitto sociale che ne deriva. La
fluidità delle dinamiche della crisi ci portano a misurarci con una
dinamica del tessuto sociale che invece di costruire comune si
rinchiude nella risoluzione della propria personalissima condizione
davanti al depauperamento globale.
Noi
la crisi non la paghiamo….certo,
senza dubbio…
Ma molti lavoratori (spesso anche studenti)
smettono di iscriversi ai sindacati (tutti) e smettono anche di
percepire loro stessi come soggetti in conflitto, vivono come
normalità la rifunzionalizzazione lavorativa e la riqualificazione
professionale, il precariato si tramuta in disoccupazione e lavoro
nero, ed i lavoratori autonomi, principalmente legati al settore
manifatturiero, si tramutano in disoccupati con l’aspettativa di
esserlo per lunga durata, spesso cinquantenni e quindi espulsi dai
processi produttivi, tutto questo senza un elemento che ci porti a
constatare la tendenza ad una ricomposizione di classe che permetta
la costruzione di una dinamica di conflitto adeguata davanti alla
crisi.
Insomma, piuttosto che rappresentare l’accelerazione di
un processo di trasformazione della società in termini di
costruzione di comune, la crisi ed una dinamica di gestione
videocratica del dominio, che ha portato ad un mutamento biopolitico
del paese, ci raccontano altro. Ci parlano di un tessuto sociale
incapace di opporsi ad una gestione della crisi fatta di
smantellamento dello stato sociale e trasformazione/espulsione
del/dal mercato del lavoro e davanti alla quale l’italiano medio si
ipersoggettivizza rendendo evidente un meccanismo di sussunzione del
lavoro al capitale che assume una ulteriore complessità perché
avviene anche in termini biopolitici.
In sostanza viviamo in un
paese di merda.
Nonostante l’onda ed i movimenti in difesa dei
beni comuni, il nodo centrale delle condizioni materiali di vita e
quindi i nodi legati al lavoro/reddito/welfare restano in termini di
conflitto nel nostro paese poco in salute. La fase dunque ci mette
davanti all’impossibilità, al momento, di costruire percorsi di
trasformazione sociale che siano immediatamente incompatibili con il
quadro generale che analizziamo o che siano, più semplicemente,
profondamente rivoluzionari rispetto all’esistente. Davanti a ciò
dobbiamo avere la capacità di riaggiornare pratiche, codici di
linguaggio, modelli organizzativi del conflitto sociale e
specialmente avere un’ idea differente dei termini vertenziali
dello scontro sociale.
Davanti a questo scenario piombano, tra
agosto e settembre, nell’ordine : i gruisti di Milano, i vigilantes
capitolini, le leonesse del Sannio, ancora gli sfrattati capitolini e
con in mezzo la Manuli, la Lasme, la Cnh, ecc. ecc.
Senza dubbio
queste esperienze hanno avuto il merito importante di rappresentare
una destrutturazione della logica di dominio del capitale: la
fabbrica si chiude e si vende – no, la fabbrica la occupiamo e tu
non vendi. Un paradigma semplice ma che tiene in sé un meccanismo di
destrutturazione ed al tempo stesso una auto valorizzazione delle
lotte che non si tramuta immediatamente in incompatibilita’. La
Innse ha avuto il merito di cominciare, e anche di vincere….dicono.
Sono sempre dell’idea che sia complicato parlare di sconfitte e
di vittorie.
La Innse rappresenta un modello di auto
valorizzazione delle lotte importante, rappresenta la speranza per
centinaia di migliaia di operai del settore manifatturiero che vedono
scomparire il proprio lavoro perché l’azienda non riaprirà,
oppure perché si troveranno alla fame perché finisce la C.i.g, e
non ci sono ammortizzatori sociali. Ma infondo la Innse cosa ha
significato? Al di là della scommessa profondamente azzeccata delle
pratiche di lotta, resta da fare una considerazione di carattere
vertenziale. Gli operai licenziati occupano la fabbrica e sono loro
stessi a trovare un altro padrone. Al di là delle considerazioni
sulla “gioia del lavorare in fabbrica”, ed anche sulla necessità
di trasformazione profonda del tessuto produttivo industriale del
nostro paese, nonché del sostituirsi ad un compito proprio del
capitale, ma i paragoni con l’argentina Zanon sono eccessivi da
questo punto di vista. Siamo ancora lontani dall’autogestione delle
fabbriche e dalla costruzione di reti di cooperative autogestite
capaci di essere un’anomalia affermata, come le esperienze di “bajo
controlo obrero”
in argentina. Lontani anni luce.
Innse no
es del pueblo.
Ma la Innse ci da un esempio oppure no ?
Ci racconta del conflitto
sociale ai tempi della crisi e di come dobbiamo provare a cimentarci
oggi nel conflitto capitale/lavoro. Quegli operai hanno costruito
comune, hanno avuto la forza e la consapevolezza di cosa
rappresentavano in quel momento ed hanno dato un esempio di come si
possa affrontare oggi, ai tempi della crisi, il nodo delle condizioni
materiali. Essere licenziati senza prospettive con un rischio
altissimo di espulsione dal mercato del lavoro per i più e di
perenne ed incerta riqualificazione per altri, rimanere senza reddito
assoluto e senza prospettive di ammortizzatori sociali, oppure
attraverso il protagonismo vero prendere in mano in termini
collettivi le sorti della propria sopravvivenza senza piegarsi ad una
fine triste ed inenarrabile. La Innse non ha chiuso, ha un nuovo
padrone, i costi di questa operazione probabilmente ricadranno sulle
condizioni di lavoro e di salario degli operai stessi, ma quel
protagonismo che c’e’ stato significa mantenere aperto un terreno
di conflitto, mantenere viva una resistenza, non piegarsi tout
court
alla logica dominante di gestione della crisi. Gli operai avranno
ancora un salario.
L’andamento di quella lotta non può essere
che merito degli operai stessi, della loro capacità di decisione
collettiva e di autogestione. La Fiom senza dubbio ha avuto un ruolo,
ma non per questo rappresenta oggi la punta avanzata del conflitto.
La stessa Fiom che alla Innse è stata al fianco del protagonismo
operaio, alla Lasme di Melfi fa scendere gli operai dai tetti. Giusto
per intenderci. Questo ci racconta che non possiamo guardare a queste
lotte a partire dalla considerazione sulle organizzazioni sindacali
che vi partecipano, ma solo ed esclusivamente dalla capacità di
autorganizzazione e di autonomia degli operai stessi. C’e’ da
sperare, ne sono certo, nella volontà non solo della Fiom, ma anche
dei sindacati di base, di investire in esperienze come queste che
vedano il protagonismo vero dei lavoratori. In particolar modo i
sindacati di base portano nel loro dna questa tendenza. Tutto questo,
che è volontà in potenza, deve però sempre misurarsi con il reale
radicamento dei soggetti sindacali in questione. La stessa crisi
delle organizzazioni sindacali tutte, potrebbe essere superata in
avanti da un tale protagonismo. Perché, infatti, dalla Innse si sono
poi sviluppate con le stesse pratiche altre lotte. La Manuli e la
Lasme senza dubbio, ma anche i precari della scuola che a Benevento
occupano il tetto del provveditorato ad oltranza e che rappresentano
un settore sociale e lavorativo diverso dal mondo operaio, ed è
proprio per questo che oggi le lotte dei precari della scuola possono
contribuire ulteriormente a quella tendenza alla ricomposizione di
classe che tutti auspichiamo. Ma anche qui dobbiamo guardare alla
Innse per capire che 57 mila precari senza incarico, davvero come
dicono i sindacati di base il più grande licenziamento di massa,
dovranno misurarsi con la stessa dinamica avuta alla Innse. Non hanno
bisogno di un nuovo padrone, ma di reddito o salario che venga
garantito attraverso una serie di misure che siano il più durature
possibile. In questo modo potremmo parlare di generalizzazione delle
pratiche, di spinta positiva delle lotte sociali, di consolidamento
di una resistenza sociale dal basso, ed anche di una nuova militanza
che bisognerebbe mettere a valore.
In questo scenario quindi,
senza dubbio non stiamo parlando della trasformazione definitiva e
completa dell’esistente…ci mancherebbe, ma stiamo parlando dello
sviluppo di lotte che passano per un protagonismo sociale vero e che
vertenzialmente portano qualcosa a casa, ed in questo il segno è
positivo. Inoltre la diffusione delle pratiche, l’occupazione, il
blocco, il salire sui tetti, rappresenta di per sé una costruzione
di comune tra segmenti diversi della moltitudine, ed è questo un
altro segno positivo.
Davanti a questo quadro non lo so se
dobbiamo ripetere la solita prosopopea di aggettivi per descrivere
l’autunno, ma senza dubbio c’è qualcosa di interessante che si
muove.
Il patchworking,
ovvero il mettere insieme i pezzi, è una delle priorità dei
movimenti oggi. Rispetto a questo duro e complesso lavoro sociale e
politico, ognuno fa anche i conti con la propria inadeguatezza.
Viene semplice per l’Onda, fortunatamente, provare a costruire un
terreno di lotta comune con i precari della scuola, seppur tenendo
conto delle “temperature”
diverse che ci sono in questo preciso periodo, ma la sfida è
costruire comune in maniera molto più ampia. Se è vero come detto
che esiste una crisi complessiva della forma sindacato che investe
tutti, dai confederali a quelli di base, ovviamente caratterizzati da
una prefigurazione di via d’uscita diversa dai primi, è pur vero
che il resto delle strutture di movimento, a cominciare dai presidi
territoriali rappresentati dai centri sociali, devono fare i conti
con la loro composizione e con la loro capacità di stare dentro i
termini del conflitto di cui stiamo parlando e dei suoi nodi
centrali. Nonostante ciò, proprio perché l’Onda ed i movimenti in
difesa dei beni comuni hanno prodotto tanto, sia in termini di
soggettività sia in termini di trasformazione dei territori
politici, oggi più che mai è necessario consolidare queste
posizioni per provare ad avere un ruolo proprio in quel percorso di
ricomposizione descritto prima.
E lo stesso vale per i centri
sociali attraversati più che mai da questi movimenti.
Fermo
restando che la fluidità della moltitudine ci consente di conoscere
la lotta alla precarietà, la lotta per i beni comuni, per la
formazione e per la casa spesso nello stesso luogo politico e nello
stesso territorio.
Tettologia marxista
6 / 9 / 2009