Quando passa il tornado, niente può essere più come prima

Dopo i ballottaggi, riflessioni e proposte oltre il voto.

31 / 5 / 2011


Sui barometri di una volta la scritta “tempesta” indicava lo scatenarsi della furia degli elementi. Così è stato, nei ballottaggi del voto amministrativo degli scorsi 29 e 30 maggio, quando i venti che avevano spirato da più direzioni al primo turno, hanno soffiato ancora più forte abbattendosi come una vera e propria tempesta sul quadro politico-istituzionale italiano.

I dati assoluti sono impressionanti: Giuliano Pisapia diventa sindaco di Milano ottenendo quasi cinquantamila voti in più rispetto al primo turno; per Luigi De’ Magistris i consensi sono più che raddoppiati, passando da 128.303 voti ai 264.730 del ballottaggio. Ma quanto è accaduto negli altri capoluoghi, da Cagliari a Trieste, da Novara a Pordenone, rende bene l’idea della forza del tornado che ha investito il governo ed i partiti che lo sostengono.

E’ un quadro che conferma quanto scrivevamo quindici giorni fa. Con qualche ulteriore elemento di riflessione e di proposta. Ogni situazione territoriale, metropolitana o cittadina che sia, fa caso a sé e la genesi di ogni singola vittoria origina in ogni singola situazione locale, nella combinazione tra le sue contraddizioni sociali, le esperienze di governo urbano degli ultimi anni e le caratteristiche di ogni candidatura e dei relativi schieramenti. Ma ciò che oggi balza agli occhi, rispetto a due settimane fa, è il significato generale del voto. La tempesta più che annunciare, sancisce il cambio di stagione politica. Più che segnalare, certifica il mutamento in quello che Ilvo Diamanti ha definito il “clima d’opinione.”

Questa volta possiamo affermarlo senza timore di smentita: il “berlusconismo”, inteso come fenomeno di medio periodo, come particolare forma di governance capitalistica dello spazio nazionale italiano, come inedita ricombinazione di neoliberismo economico e populismo postmoderno, utilizzo dei media e gestione della corruzione politica, costruzione cesaristica del partito e capacità di federare interessi territoriali, è irreversibilmente avviato sul viale del tramonto. Semplicemente perché – fondandosi in ultima istanza su una grande “promessa redistributiva”, da compiersi, in termini paradossali, senza mettere in discussione il feroce accumulo, polarizzato ed ineguale, della ricchezza – si è rivelato inadeguato, sul piano interno così come su quello internazionale, a gestire il carattere sistemico della crisi globale e la profondità dei suoi effetti sociali. Inadeguato ai tempi che stiamo vivendo. Ma non sbagliamoci: in questa temperie, l’ “anomalia berlusconiana” è in tutta Europa in buona compagnia, con le Merkel e gli Zapatero, con i Cameron e i Sarkozy, a condividere la verticale caduta di consenso di tutti quei governi che, indipendentemente finanche dai risultati macroeconomici, affrontano le conseguenze sociali della crisi con ricette e strumenti tradizionali.

Immersi nelle piazze di lunedì sera, in piazza del Duomo così come a piazza Plebiscito, conviene allora darsi un pizzicotto. Ricordare a tutti noi che, nella buona così come nella cattiva sorte, non vi è una relazione lineare tra dinamica sociale e dato elettorale, tra sviluppo dei movimenti e vicenda istituzionale. Tuttavia ...

Sì, tuttavia è difficile immaginare l’esito delle amministrative di Milano e Napoli, e della tempesta perfetta che si è più in generale scatenata, senza ritrovarne la genealogia nella cronaca sociale degli ultimi mesi. Sarebbe impossibile comprendere Pisapia e De’ Magistris senza la corsa iniziata davanti ai cancelli di Pomigliano e poi a Mirafiori; senza i ricercatori indisponibili, in aula come sui tetti, senza le scuole e le facoltà in lotta; senza la piazza romana del 14 dicembre scorso e senza le piazze delle donne, e non solo, del 13 febbraio; senza tutto ciò che si è messo in movimento intorno alla difesa e alla riconquista dei beni comuni, con l’acqua prima e il nucleare poi.

C’è un accumulo di energia sociale, una carica di rottura e di innovazione che alimenta le vittorie di Milano e Napoli. E che le rende un dato tutt’altro che effimero. Che spiega, ad esempio, il consenso raccolto da Pisapia in tutti gli strati del lavoro cognitivo metropolitano, dal precariato diffuso a quelle che, in termini imprecisi, vengono definite le “nuove professioni” e, insieme, l’intelligenza collettiva che ha animato la sua campagna. Che spiega, ad esempio, il sommovimento “di popolo” che determina il plebiscito per De’ Magistris, di un “popolo” che è moltitudine attiva, che domanda partecipazione alla decisione politica a partire dal protagonismo di tutti i movimenti sociali, che sulla scena napoletana hanno saputo, negli ultimi tempi in termini originali, coniugare conflitto e costruzione di alternativa.

C’è una diffusa domanda di cambiamento, che ha appena iniziato a trovare risposta. C’è un “cantiere”, che - a partire dalla forza di alcune differenze territoriali - ha appena aperto alla grande i suoi battenti. E che attende ora di essere allargato, come ampia è quella pretesa di innovazione democratica.

Ora bisogna battere il “golpe istituzionale” sul quesito nucleare, conquistare il quorum e vincere i referendum. Poi rilanciare, come sta suggerendo anche Nichi Vendola, ad ogni livello e come elemento di sostanza, quello spazio delle consultazioni primarie che ha determinato l’ambiente dove domanda di cambiamento sociale e intuizione politico-istituzionale possono felicemente incontrarsi. Lo spazio dell’evento. E ancora: bisogna fare sul serio, nelle città dove queste combinazioni hanno vinto, per avviare sperimentazioni autentiche, misurandosi con l’orizzonte della pratica democratica come “bene comune”. Fare di ognuno di questi territori, a partire dalle differenze che ciascuno di essi esprime, un laboratorio vero. E infine, riprendendo la produttiva suggestione che il percorso di “uniti contro la crisi” ci consegna, rimettere in moto ed allargare i confini di uno spazio pubblico in movimento, includente ed unitario a partire dai nodi, anche quelli più problematici del confitto sociale: il nesso tra condizione di generalizzata precarietà e conquista di un reddito dignitoso per tutte e tutti; quello tra difesa dei beni comuni e sperimentazione concreta di processi di riconversione ecologica di segmenti del sistema produttivo; quello tra accoglienza di chi migra e costruzione di una nuova sfera della cittadinanza.

Perché quando passa un tornado, il panorama non è, non potrà e non dovrà più essere quello di prima. Vae victis, guai ai vinti dunque. Ma guai anche ai vincitori, se non si comprende che il declino del “berlusconismo” libera certo il terreno dall’anomalia negativa, ma che la crisi non può che essere afferrata nel segno dell’innovazione. Perché “amm’scassato”, l’occasione è propizia, ma il lavoro da fare è ancora davvero tanto.