'orcodio

4 / 10 / 2010

Il doppio voto di fiducia alle Camere è stata la più squallida barzelletta di Berlusconi nell’ultima settimana, peggio delle due infelicissime sugli ebrei e su Rosi Bindi. Tanto che lui stesso raccontandola, cioè ascoltando il dibattito, si è addormentato a due riprese, una per Camera. Valga ad attenuante il fatto che la prima volta stava salmodiando Cicchitto. La seconda si è tirato su, ignoriamo grazie a quali sostanze, inventando di aver salvato la Georgia dai carri armati russi e le banche americane dalla crisi. In conclusione, illuso (bis) da troppo zelanti procacciatori di ascari, ha una maggioranza alla Camera dipendente dal voto di Fini e Lombardo e una maggioranza autonoma solo al Senato –cosa che impedirebbe un governo tecnico e un cambiamento della legge elettorale. A meno che qualche senatore non defezioni. Pisanu, per esempio, con seguito Dc doc. Il bello è che da questo (inaspettato) stallo non si può sfilare tanto facilmente ricorrendo alle urne, proprio perché ha incassato di fresco la fiducia. Dunque allo stesso tempo vanta la stabilità del governo e avvia la campagna elettorale per primavera, cercando qualche pretesto. Una bella serie di incognite, con i sondaggi in caduta libera e un evidente accorpamento dell’area centrista rivale, mentre la Lega scalpita e il Vaticano ritira l’appoggio, salvo a contrattare nuovi vantaggi con un premier assediato e disperato.

In complesso a mettere in difficoltà Berlusconi sono i futuristi di Fini, forti per il retroterra centrista e il virtuale appoggio siciliano (nell’Isola sono già saliti al governo estromettendo i berlusconiani), mentre il Pd è irrilevante e continua il lento deflusso verso Udc (ultimo l’ex-prefetto Serra) e Api, in piccola parte addirittura verso il Pdl (l’ineffabile Calearo, cocco di Veltroni). Le manifestazioni del popolo viola rafforzano la pirateria finiana come effetto principale, ma sempre più vi si inseriscono interessanti elementi di contestazione dell’assetto sociale e rivendicazioni che esorbitano il giustizialismo. Con la conseguenza di una perdita di egemonia di Di Pietro e di una frammentazione dei consensi verso De Magistris e Vendola o addirittura di un dissolvimento della mitologia leaderistica. L’imminente contesa elettorale e le difficilmente scansabili primarie riserveranno sorprese anche a sinistra.

Tuttavia a dominare lo scenario politico non sono più barzellette, case monegasche e intrighi a Santa Lucia, bensì le consistenti avvisaglie di un dilagare del conflitto sociale e l’intrigante reciproco posizionamento delle rappresentanze industriali e sindacali. Fallito l’attacco frontale di Marchionne alla Cgil e rivelatasi troppo debole l’operazione scissionista imperniata su Bonanni, la Confindustria (seguita dal ceo Fiat, sempre sbruffone ma reso più cauto dall’ulteriore “previsto” calo delle vendite) ha ripiegato sulla vecchia strategia del patto sociale complessivo con i sindacati, visibilmente preoccupata dalla totale assenza di governance del gabinetto Berlusconi. L’ineffabile profeta del dopo-Cristo a Pomigliano è arrivato a evocare la fuga delle belve dallo zoo per giustificare il ritorno sotto l’ombrello della Marcegaglia o più probabilmente il suo ritiro a Detroit, dove i sindacati (per ora) sono bravi. La Cisl è rimessa al suo posto (utile ma subalterno), tanto che Bonanni comincia a sganciarsi dagli improbabili Brunetta e Sacconi si dedica a ripescaggio dei moderati popolari del Pd traghettandoli nel centro di Casini. La Cgil ha tirato un sospiro di sollievo, dato che la crisi aveva fatto saltare l’unità sindacale e disattivato l’arma tradizionale degli scioperi, ma il prezzo da pagare per tale legittimazione è la tensione con la Fiom, pesantemente bastonata nei settori auto e cantieristica e quindi obbligata a radicalizzarsi.

Interviene a questo punto la logica del conflitto, che costringe oggettivamente la Fiom a farsi carico di un ampliamento di orizzonti: la precarizzazione delle fabbriche rende evidente la crescente loro omogeneità con il mondo del precariato e il parziale isolamento sollecita la ricerca di nuove alleanze con i settori sociali non garantiti e i movimenti. Come Adam Smith non si aspettava il pranzo dalla benevolenza del birraio o del fornaio ma dallo considerazione del loro proprio interesse, così non dobbiamo attenderci una svolta di dirigenze fordiste da una conversione ideologica ma dalla loro capacità di prendere atto del mutato interesse dei lavoratori che rappresentano. E sta bene così. Vale pure per l’attivismo precario, che ora si sviluppa in un quadro più realistico di composizione di classe e di pratiche materiali di solidarietà e alleanza. Per questo la manifestazione dei metalmeccanici del 16 e tutte le iniziative che l’accompagnano nella scuola e nell’università rioccupano il centro della scena politica, destituendo l’emergenza mediatica di voti di fiducia, compravendita di deputati, trasloco di cucine e società off shore, legge elettorale alla francese o alla tedesca, porcellum o provincellum. Per non parlare di misteriosi attentatori invisibili dotati di tecnologia stealth, minacce apocalittiche no-global e altre maronate. ‘orcodio, non sarà mica che comincia l’autunno caldo?