Magliette a strisce

5 / 7 / 2010

In attesa di vedere come, da lunedì 5, Berlusconi ghe pensa lü, celebriamo il rovesciamento di un tiranno da operetta giusto 50 anni fa.

Fu l’estate della magliette a strisce. Si è detto che le mettevano, in quel luglio 1960, perché costavano poco, ma naturalmente erano anche di moda, un precoce casual di successo. I giovani edili romani le indossavano a fine giornata (staccati i lavori che oggi si rifilano a romeni e marocchini), ma io avevo fresco negli occhi il rigato in bianco e nero di Jean Seberg che strillava giornali sugli Champs-Élysées. Era appena uscita la versione italiana del godardiano À bout de souffle –a Parigi tiravano dunque sin dall’anno prima. A Porta San Paolo portavo una sobria camicia jeans rosa slavato e Superga piattissime –ero segretario romano dei giovani comunisti e il Partito ci raccomandava un minimo di tono, anche in piazza– e in teoria avrei dovuto svolgere un certo ruolo operativo, ma mi accadde come allo stendhaliano Fabrizio del Dongo a Waterloo, di perdermi in un angolo della battaglia, come è destino di ogni protagonismo soggettivo... Grande attività organizzativa era stata dispiegata nei giorni precedenti: propaganda a man bassa, castigo capillare di nuclei di fasci al suono ossessivo del degüello di Fort Alamo in ogni jukebox di periferia, scioperi nelle scuole e alla Sapienza, blocchi mobili alle stazioni per impedire la partenza dei delegati al congresso genovese del Msi, raccolta di chiodi a tre punte (per le gomme non tubeless delle camionette della Celere), olio bruciato e cuscinetti a sfera (che rimorso mi è restato per i cavalli azzoppati), bottiglie vuote e fiammiferi antivento (gli innesti chimici erano una rarità). Qui la finiamo con le tentazioni biopic e cerchiamo di ricostruire lo evento della cosa.

Beh, tenuto il debito conto della confusione, della paura (la nostra e quella che visibilmente incutevamo all’apparato repressivo), dello spropositato ingombro di due squadroni a cavallo di carabinieri e uno di polizia, degli idranti che sparavano acqua e colorante per marchiare gli rastrellati –insomma del sottofondo di adrenalina e puzzo di merda equina, che mai più si ripeté in anni avvenire di lacrimogeni e limoni o nel ’77 di cordite– in complesso avevamo la precisa impressione di esserci messi di traverso al corso della storia, deviandola verso una direzione nuova e felice. Illusione, certo, di fatto stavamo versando sangue per il passaggio dal centrismo al centro-sinistra, ma di quelle illusioni che corrispondono a una svolta i cui esiti non corrispondono alle intenzioni, a una rivoluzione dirottata. L’inceppamento dei dispositivi di potere è vissuto nella soggettività collettiva, nello stato d’eccezione degli oppressi, come interruzione del tempo –sarebbe successo ancora alla nostra generazione a Valle Giulia nel marzo 1968, durante la cacciata di Lama dalla Sapienza nel febbraio 1977, capiterà ad altri a Genova 2001, infine nelle migliori giornate dell’Onda. Avvertire nella mente e nel corpo –sentimus experimurque– di essere eterni, invulnerabili...

In quella sospensione miracolosa confluivano temporalità diverse, uno zenith estatico di ritmi contrastanti. Molti soprattutto nel Nord Italia rivivevano nel giugno-luglio 1960 l’epopea partigiana, sognavano di completare una rivoluzione interrotta. La base partigiana era formata in gran parte dei diciottenni renitenti alla leva del 1943, dunque da persone che avevano nel 1960 intorno ai 35 anni –uno scarto d’età di poco superiore a quello intercorrente fra alcuni manifestanti di Genova 2001 e i più pischelli della leva dell’Onda. Il giugno 1960 a Genova fu essenzialmente questo, con il contorno della retorica di Pertini e l’affaccendarsi delle frazioni del Pci riluttanti all’VIIII congresso, che magari conservavano in cantina qualche arma non riconsegnata e di sicuro guardavano a Secchia più che a Togliatti. Il momento saliente del 6 luglio romano, la guerriglia a Testaccio, era egemonizzata da quel tipo di quadri intermedi. Tre dei cinque martiri di Reggio Emilia del 7 luglio erano ex-partigiani. C’era poi un ribellismo meridionale, che rinviava alle grandi battaglie bracciantili dei ’40-inizio ’50 per la riforma agraria più che alla Resistenza. Buona parte del proletariato agricolo e dei contadini poveri prodotti dalla Riforma si erano già riversati al Nord e iniziavano a ribellarsi alle condizioni discriminatorie in cui vivevano i migranti interni del boom economico. Non è un caso se all’esplosione politica e di piazza seguirà immediatamente la ripresa del conflitto operaio, un rosario sgranato di vertenze dentro e fuori le strutture sindacali. Dopo anni di stanca, le ore di sciopero passano dai 55 milioni del 1960 ai 130 del 1961 e ai 378 del 1962. Elettromeccanici milanesi, tessili in Val di Susa, siderurgici dell’Iri, via via fino a investire in forme sempre più eversive il sacrario Fiat: piazza Statuto si confermò vertice del triangolo magico nel luglio 1962... Molti edili romani, il cui sciopero precedette di poco gli scontri di Porta San Paolo, erano anch’essi migranti irregolari, privi di residenza, provenienti da tutto il Lazio e alta Campania, che abitavano gli infernali borghetti abusivi della cintura prima del raccordo anulare.

Vi erano dunque componenti il cui vissuto prendeva la forma di un volgersi all’indietro per riscattare una condizione di sofferenza o il cui anelito rivoluzionario veniva a essere coinvolto nei processi di modernizzazione industriale (il pieno avvento del fordismo) e politica (il centro-sinistra Dc-Psi). Processi mal gestiti dal ceto politico di governo, che si arroccava con Gronchi e Tambroni in un’intempestiva alleanza con il fascismo più becero, benedetta con toni profetici da Baget Bozzo, alla sua prima trucida comparsata, e che poi, come il clown kinghiano di It, sarebbe puntualmente rispuntato in tutte le disgrazie nazionali, come cappellano-consigliori di Craxi e da ultimo di Berlusconi. Mal gestiti dal Pci, spaventato per aver perso per la prima volta dal dopoguerra il controllo della piazza e a giusto titolo timoroso dell’allentamento virtuale della subalternità del Psi implicito nella nascita del centro-sinistra. In ogni caso la tensione immediata fu risolta con un compromesso alto: il congresso del Msi era saltato subito e l’avventuriero Tambroni, dopo un lugubre pranzo d’addio, se ne andò a casa il 26 luglio. I caduti di Reggio Emilia, Palermo, Catania, Licata fecero da staffetta fra le stragi scelbiane dell’immediato dopoguerra e quelle degli anni di piombo. I responsabili restarono impuniti, come lo saranno Kossiga e De Gennaro.

La doppia incertezza strategica di maggioranza e opposizione e l’incontrollata crescita industriale liberavano però spazio a una ripresa indipendente delle lotte, configurando quella che si sarebbe poi rivelata una congiuntura favorevole e di eccezionale durata, un ciclo quasi ventennale di sovversione e aggiustamenti riformistici. Cominciarono a liberarsi forze minoritarie che si rendevano conto della rottura epocale degli assetti strategici del dopoguerra, in sostanza del declino della guerra fredda e dell’uscita dell’Italia dall’arretratezza, ma continuavano a pensare dentro il quadro dei partiti e sindacati esistenti, increduli che un movimento quale pure avevano visto e in parte diretto potesse svilupparsi in modo del tutto autonomo. L’occasione del 1960 venne colta virtuosamente da una parte degli attori –parlo per l’esperienza vissuta, in pratica il nucleo dirigente della Fgci di Roma e del settimanale «Nuova generazione», ma lo si potrebbe affermare anche per le forze raccolte intorno a Raniero Panzieri nell’impresa di «Quaderni rossi»– senza nessun nostalgico riferimento al passato resistenziale, dunque secondo una temporalità “moderna”, all’altezza e a contrasto del fordismo trionfante, nondimeno con il persistente miraggio di una trasformazione dall’interno del movimento operaio esistente. Illusione brevissima, perfino razionale se si considera che la forza di quei gruppi era tutta intellettuale e interna agli apparati, mentre le masse a grandi linee seguivano le indicazioni Pci e Cgil. Non durò comunque oltre la prima metà dei ’60 (le cadenze si erano fatte tumultuose, dopo la scossa di luglio), tanto che i più giovani quadri di quelle due esperienze citate, più tanti altri di diversa origine, si trovarono in prima fila nel 1967-1968, quando il movimento, conseguendo una composizione propria, ruppe con le strutture consolidate della sinistra e avviò una stagione di autonomia conclusa solo alla fine dei ’70, con un’eredità ancora suscettibile di fruttuosa citazione se non di improbabile continuità.

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