L’ultimo giorno di occupazione, sarà il primo giorno di pace

Il brutale attacco a sorpresa lanciato da Hamas nei territori israeliani, oltre il confine della striscia di Gaza, offensiva per molti versi inedita, apre nuovi scenari nel fragilissimo equilibrio della regione e più in generale per quello mediorientale, con rilevanti implicazioni di scala anche globale. Un documento dei centri sociali del Nord-Est e di Ya Basta Êdî Bese.

13 / 10 / 2023

Colpisce un particolare della strage al Rave di Re'im: sembra un attacco stile Bataclan. L'incursione di Hamas appare quasi come una ricerca di “punizione” di un immaginario, dell’esigenza di instillare terrore in una generazione e in un contesto sociale che dimostra però come la guerra e la paura siano ormai armonizzate, se chi vive a Gaza è consapevole di correre il rischio di morire sotto le bombe, c’è chi ha normalizzato il potersi divertire liberamente, sentendosi ovunque al sicuro. A quasi una settimana dai fatti continuano a susseguirsi notizie drammatiche, non ultima la richiesta di Israele di evacuazione di chi abita nel nord della Striscia di Gaza. L’ordine riguarda 1,1 milioni di persone (quasi la metà di tutta la popolazione locale), che dovrebbero fuggire a sud, un’operazione che già di per sé avrà delle conseguenze umanitarie devastanti.

La “radice del male”

Tutto questo ha una spiegazione, esiste una “radice del male”, che nel corso dei decenni ha fatto germogliare e ha regolarizzato una delle più grandi ingiustizie contemporanee: l’occupazione illegittima da parte dello Stato di Israele dei territori assegnati alla popolazione palestinese dal “piano per la ripartizione della Palestina”, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine del 1947. Questo “male” non possiamo leggerlo né con le lenti del diritto internazionale, né (solo) con quelle che per oltre quarant’anni hanno dettato gli equilibri bipolari della Guerra Fredda. È il continuo sopruso, la presunta superiorità di un popolo nei confronti di un altro, la presenza perpetua di un atto di forza che trova la sua ragione d'essere nella legittimazione internazionale che costituiscono lo sfondo di una guerra coloniale - di per sé squilibrata - che in quasi ottant’anni ha cambiato forma, ma mai essenza. Ed è solo avendo chiaro questo contesto, che riusciamo a interrogarci sulle conseguenze politiche di ciò che è accaduto, nel breve (anzi brevissimo, visto che la “risposta” di Israele è già in atto) e lungo periodo. Soprattutto a partire dalla rottura dall’asimmetria che ha da sempre condizionato il conflitto israelo-palestinese e di come questa rottura determinerà un cambio di paradigma sia negli equilibri regionali e globali, sia nell’opzione politica legata alla resistenza palestinese.

Il contesto geopolitico regionale: gli Accordi di Abramo

La stretta di mano sugellata da Bill Clinton fra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca, il 13 settembre 1993 è una delle fotografie più iconiche del secolo scorso. Era l’anno degli Accordi di Oslo, che istituivano l’Autorità Nazionale Palestinese, sottoscrivevano l’impegno di Israele di ritirarsi dai Territori occupati nel 1967. Arafat, dal canto suo, avrebbe rinunciato a oltre il 70% della Palestina storica, riconoscendo il diritto di Israele a esistere e promise di rinunciare all’uso della violenza per creare uno stato palestinese. Meno di due mesi dopo, Rabin venne ucciso da un fondamentalista ebreo. È l’inizio della stagione del terrorismo ebraico, dopo la rinuncia del Sinai, i coloni non erano intenzionati a lasciare anche la Cisgiordania. A Hebron, Baruch Goldstein fa irruzione nella Moschea di Abramo e apre il fuoco sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 persone, più altri 26 massacrati dall’esercito. Nel 1995 i coloni trovano un fido alleato in quello che viene eletto a Primo Ministro, un politico che aveva più volte definito quei compromessi un errore: Benjamin Netanyahu. Se gli accordi del ‘93 avevano garantito l’accesso di Israele a nuovi mercati e il miglioramento delle relazioni con l’Europa, che in precedenza aveva imposto diverse limitazioni economiche, dopo quasi trent’anni lo stesso premier stava per completare il suo capolavoro: la normalizzazione delle relazioni di Israele con il mondo arabo. Gli Accordi di Abramo, una trattativa iniziata nell’estate del 2020, fortemente sostenuta dall’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, avrebbero definitivamente isolato il popolo palestinese privandoli di una delle loro ultime carte di scambio e basi di sostegno, la solidarietà dei paesi arabi.

Hamas con la sua offensiva senza precedenti, con tutta probabilità sperava di fermare la normalizzazione con l’Arabia Saudita, ormai alle porte, che avrebbe sbilanciato irrimediabilmente gli equilibri del Medio Oriente e avrebbe accelerato inevitabilmente l’annessione dei territori occupati. Allo stesso tempo, demolendo il mito dell’invincibilità e della superiorità militare di Israele, avrebbe lanciato un segnale alla debole e corrotta Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, presentandosi agli occhi del popolo palestinse, continuamente vessato dalla violenza degli occupanti, come l’unica rappresentanza credibile, sottolinea Michele Giorgio su “Il Manifesto”.

Il contesto geopolitico globale: la guerra in Ucraina come spartiacque

È chiaro che gli attacchi di sabato scorso fanno chiaramente saltare la possibilità di una pacificazione regionale, con un livello della tensione che si eleva giorno dopo giorno; allo stesso tempo non ci si può sottrarre dal fatto che quanto successo ricompatta il fronte pro Israele in un’ottica di conservazione di uno status quo.

In un contesto di guerra globale, nel quale non si può non citare il Nagorno-Karabakh e il fiancheggiamento dell’Azerbaijan da parte della Turchia, occorre anche considerare le note implicazioni della guerra in Ucraina, che già ha segnato uno spartiacque negli assetti globali accelerando la tendenza verso un nuovo “bipolarismo” nel quale USA e Cina rappresentano i principali assi. Se da un lato abbiamo assistito nell’ultimo anno e mezzo a un allargamento sempre più deciso della NATO verso Oriente, dall’altro l’ingresso di Argentina, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran nei BRICS segna un punto di non ritorno anche per l’evoluzione del cosiddetto multipolarismo. E in questo caso, come in quello dell’Ucraina e delle altre decine di conflitti sparsi nel globo, l’alternativa non può che essere interna a una visione di mondo “che non solo si oppone alla guerra, ma ne decostruisce la funzione nell’attuale riassetto del capitalismo”.

Quale opzione politica in Palestina

Quello che è certo è che ci sarà ben poca compassione in Occidente mentre, ancora una volta, chi vive sotto assedio viene bombardato. Non c'è dubbio che questa sia la prima volta che quella parte del popolo palestinese, ingabbiato nell'enclave costiera, è riuscito a infliggere un colpo significativo a Israele. Una mossa vagamente paragonabile alla ferocia che i palestinesi di Gaza hanno subito ripetutamente da quando sono stati rinchiusi in gabbia, quando Israele ha iniziato il suo blocco per terra e per mare nel 2007. È la resistenza armata, direbbe qualcuno. Ma come ben spiega Amira Hass, è un grave errore associare la resistenza esclusivamente all'uso delle armi, poiché si delegittima una vasta fetta di persone che, in modi non violenti, lottano per resistere all'oppressione. Un altro grave errore sarebbe sganciare il legittimo processo di liberazione di un popolo dall'opzione politica che lo sta guidando o si presume di farlo. Sono finiti da un pezzo - semmai ci siano mai stati - i tempi di “Palestina libera, Palestina rossa!” e l’ascesa di Hamas è da leggere nel quadro dell’islamizzazione dell’intero mondo arabo, che è per certi versi il prodotto del colonialismo occidentale nel tempo del neoliberismo. Non è giusto fare i conti in tasca alla popolazione palestinese oppressa, chiedendo loro di fare dei bei distinguo tra una “buona” e una “cattiva” resistenza. Troppo radicato è l'odio per tutti questi anni di crimini subiti da parte di Israele e le resistenze sono di per sé spazi di contraddizione. Ma è proprio nello stare dentro questa contraddizione, in un’ottica che proietta come non mai la battaglia palestinese nell’arena globale, che il ruolo e la funzione di Hamas sono un problema che ci tocca ancora più da vicino.

La popolazione palestinese ancora una volta vittima sacrificale

Un governo fascista come quello israeliano sta già rispondendo con una ferocia inesprimibile. L'intera società israeliana si è ricompattata dopo mesi di divisione. Se negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di israeliani hanno marciato per la "democrazia e l'uguaglianza" in tutto il Paese, e molti hanno persino dichiarato di voler rifiutare il servizio militare a causa delle tendenze autoritarie di questo governo, adesso al confine di Gaza sono già stati ammassati centomila soldati con rispettivi mezzi pesanti e altri trecentomila riservisti sono stati mobilitati. Le parole di Netanyahu arrivano a scomodare i testi sacri e lasciano presagire una nuova Sodoma e Gomorra: «ridurremo Gaza in macerie», gli fa eco il ministro della difesa Yoav Gallant «niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza».

È necessario però snocciolare anche un po’ di dati, a partire dal fatto che nell'ultimo anno sono stati uccisi più palestinesi e israeliani che in qualsiasi altro anno dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000. L'esercito israeliano fa regolarmente irruzione nelle città e nei campi profughi palestinesi. Il governo di estrema destra sta dando ai coloni piena libertà di creare nuovi avamposti illegali e di lanciare pogrom nelle città e nei villaggi palestinesi, con i soldati che accompagnano i coloni e uccidono o mutilano chi cerca di difendere la propria casa. Il vero problema è che sembra che tutto il mondo si sia dimenticato o abbia sempre scientemente ignorato come i civili palestinesi di Gaza hanno affrontato le ripetute e reiterate furie di Israele. Se i morti di sabato scorso scatenano l’opinione pubblica, non si può dire che le migliaia di vittime cadute in Palestina destino anche solo una piccola percentuale di preoccupazione ai leader occidentali. Le uniche risposte che i governi israeliani hanno offerto al problema degli attacchi palestinesi da Gaza sono state sotto forma di cerotti: “se arrivano da terra, costruiremo un muro; se arrivano attraverso i tunnel, costruiremo una barriera sotterranea; se lanciano razzi, installeremo degli intercettori; se uccidono alcuni dei nostri, ne uccideremo molti altri e così via”, come ha scritto Haggai Matar in un recente editoriale. In questa situazione, sempre più giovani gazawi tentano nei modi più disperati di recarsi in Turchia per affrontare la via del mare, sperando in un futuro che spesso si interrompe sui fondali della Fortezza Europa o nei centri di detenzione che vengono spacciati per accoglienza. Chi, oltre al futuro, non ha i mezzi nemmeno per sperare, finisce per ingrossare le già altissime statistiche dei suicidi all’interno dell’enclave.

Dalla parte di chi resiste

Nove anni fa, durante l’invasione di Gaza del 2014 la Premier Giorgia Meloni che oggi si schiera a fianco di Israele e persegue ogni forma di dissidenza twittava: “Un'altra strage di bambini a Gaza. Nessuna causa è giusta quando sparge il sangue degli innocenti”.

Nove anni fa Meloni si limitava a un’opposizione becera. Non stringeva accordi energetici e militari con le dittature più sanguinarie. Non nominava al Ministero della Difesa Guido Crosetto, lobbista di Leonardo Finmeccanica, che dall’inizio dell’escalation ha visto le sue azioni in borsa schizzare alle stelle; la società controllata dal ministero dell’Economia e leader nel settore degli armamenti ha fatto di Israele, assieme alla Turchia, i suoi principali partner commerciali. È proprio la decantata eccellenza made in Italy che in questo momento sta massacrando centinaia di civili a Gaza e in Rojava.

Il primo invio di armi italiano a Israele risale al 1947, contribuendo alla guerra che avviò l’occupazione dei territori palestinesi: da allora, più Israele bombarda, più l’Italia fa affari, in un’ottica di guerra permanente che ha continuamente il bisogno di alimentarsi e che altro non fa che radicalizzare le opposizioni. Israele è uno stato belligerante a tutti gli effetti, non si limita alle offensive a Gaza e in Cisgiordania, ma conduce vere e proprie operazioni di guerra in Libano, Siria e Iran, finalizzate a fare aumentare l’influenza occidentale in Medio Oriente. Le immagini drammatiche degli ultimi giorni dovrebbero convincerci a fermarci, a mettere in discussione quegli accordi che nel nome del libero mercato capitalista, prima con l’Europa e poi con gli Stati Arabi, impongono una cosiddetta pace sulla Palestina senza aver mai preso in considerazione il suo popolo.

La lezione dell’Iraq, dove dalle macerie dell’invasione americana è nato Daesh non ci ha insegnato nulla. La lezione dell’Afghanistan e del terrore dei Taliban non ci ha insegnato nulla. E quest’ultimo attacco continuerà a non insegnare nulla. Dopo 75 anni di abusi, Israele e l'Occidente si preparano a cancellare l’inferno che loro stessi hanno creato: l’inferno di Gaza, che non ha conosciuto un solo giorno di pace e oggi vive un assedio totale.

Ma bisogna anche dire che Hamas e tutte le sue ramificazioni riconducibili alla fratellanza musulmana hanno sempre trovato la nostra opposizione, nelle piazze e nelle nostre alleanze. Quando Hezbollah massacrava i curdi, supportato dalla Turchia che sperava di indebolire il Partito dei Lavoratori di Ocalan. Quando l’Iran reprimeva con il terrore le manifestazioni di chi urlava dalle piazze “jin, iyan,azadì”.

Come ha scritto il movimento curdo “oggi tutti i problemi del Medio Oriente, compreso quello curdo, derivano dalla mentalità dello Stato-nazione. Alla base del conflitto israelo-palestinese c'è la mentalità dello Stato-nazione”. Ed è anche per questa ragione che non saremo mai con Israele, mai con Hamas ma sempre dalla parte di chi resiste. Il peggio ci attende e mai come oggi è necessario schierarsi dalla parte di chi, come il popolo palestinese, oggi come ieri rivendica libertà di tornare, rimanere nelle proprie terre e autodeterminare il proprio destino.