Precarietà dilagante e assenza di fondi. Tendenza che accomuna l'Italia all'Europa e agli Stati Uniti, mettendo a verifica le analisi sedimentate sulla fabbrica del sapere. E nei prossimi giorni, Mariastella Gelmini presenterà un provvedimento al consiglio dei ministri che sancirà il definitivo scadimento dell'offerta pubblica a tutto vantaggio della crescita dell'Università privata.
Le conseguenze della crisi economica sulla industria culturale sono difficili da quantificare. Da una parte le statistiche descrivono una contrazione della produzione e dei consumi culturali. I cahiers de doléances delle case editrici potrebbero ad esempio riempire un'enciclopedia. Ma quegli stessi dati segnalano che di fronte all'alternativa tra un prodotto culturale e uno no, la scelta va al libro, almeno tra chi entra in libreria. Più semplice, invece, è addentrarci nel funzionamento in quella particolare «fabbrica del sapere» che è l'università. Qui i dati sono più semplici da decifrare e attestano che la crisi economica ha accentuato l'erosione dei fondi nazionali e statali destinati alla formazione. Così in Europa, la percentuale del prodotto interno lordo, fatte poche eccezioni, è di gran lunga inferiore a quanto stabilito nel «processo di Bologna», quando i paesi dell'Unione europea hanno deciso che il tre per cento dei bilanci statali fossero destinati all'università, mentre alla ricerca la percentuale non dovesse mai andare al di sotto del due per cento. Al di là dell'Atlantico la tendenza al disinvestimento non è stata diversa, anche se gli Stati Uniti sono stati sempre molto prodighi nel finanziare università e progetti di ricerca, seppur con modalità alquanto diverse da quanto avviene in Europa.
Durante «l'era neoliberista», il fiume di dollari verso la formazione ha infatti subito un rallentamento, seppur in misura minore rispetto a quanto accadeva in Europa. Questo non ha però impedito a Barack Obama di affermare con nettezza che la green economy da lui prospettata per uscire dalla crisi sarà sicuramente basata su un rinnovato impegno federale nel finanziare la ricerca scientifica di base e le università, sia pubbliche che private. Quello che però le statistiche e i dati non chiariscono è come sia cambiata la produzione di sapere e di conoscenza, così centrali nel capitalismo contemporaneo. Un lavoro di inchiesta da mettere al più presto in cantiere, senza disperdere quell'accumulo di pensiero critico che negli ultimi anni ha visto nell'università una «fabbrica del sapere» dove la precarietà e la sua gestione come impresa era fattori paradigmatici dello sviluppo capitalistico.
Tra vassalli e royalties. Di questo accumulo di pensiero critico fa sicuramente parte La produzione del sapere vivo di Gigi Roggero (Ombre corte, pp. 152, euro 14), saggio che ha il pregio di affrontare proprio la trasformazione dell'università in «fabbrica del sapere» e, allo stesso tempo, di proporre elementi per andare «oltre» questa acquisizione teorica da parte dei movimenti che, dagli Stati Uniti alla Francia all'Italia, hanno contestato la trasformazione del sapere in merce.
In questo invito ad andare «oltre»,
l'autore dà il meglio di sé nel primo capitolo, laddove ricostruisce
l'analisi del capitalismo cognitivo a partire da un uso «creativo» dei
postcolonial studies quando mettono a tema la critica la concezione
storicista dello sviluppo economico e la centralità degli scritti di
Karl Marx sull'accumulazione originaria per cogliere alcune
caratteristiche del capitalismo contemporaneo.
È noto il rinnovato
interesse per quelle pagine marxiane da parte non dei teorici
postcoloniali. L'autore sostiene che nel capitalismo l'accumulazione
originaria c'è ogni qual volta la produzione di merci coinvolge ambiti
della vita associata fino ad allora considerati «non capitalistici».
Dall'altra, è questo l'aspetto più interessante di questo libro, è che
il capitalismo contemporaneo usa tutte le forme di lavoro finora
sedimentate, da quello servile a quello «dipendente» a quello
«indipendente», senza assegnare centralità a nessuna di esse. Per
quanto riguarda l'università e, va aggiunto, la produzione culturale,
questo significa che la «fabbrica del sapere» è una fabbrica, ma che
funziona diversamente dalla fabbrica di spilli di Adam Smith o la Ford
modellata dall'organizzazione scientifica del lavoro di Frederick
Taylor.
La precarietà, la gestione «feudale», la spinta
all'innovazione e alla creatività sono quindi aspetti rilevanti nella
«fabbrica del sapere». Da qui la necessità appunto di andare «oltre» la
retoriche dominante di pensare alla figura dello studente come a una
condizione esistenziale transitoria. Ciò che è rilevante nella
«fabbrica del sapere» è infatti far diventare produttiva una forma di
vita. Così le università producono profitti - possono infatti
brevettare i risultati delle ricerche scientifiche, facendosi così
pagare le royalties o trasformare le università in società di
consulenza delle imprese - ma la trasformazione più rilevante è semmai
la gestione delle «fabbriche del sapere» come imprese.
Inclusi e
precari Le università svolgono infatti un doppio ruolo. Sono
organizzazioni produttive, mettendo al lavoro anche gli studenti, ma
anche dispositivi di controllo sociale. Da qui le condivisibili
annotazioni dell'autore sui meccanismi di «inclusione differenziale»
nell'università o la sua altrettanto sottoscrivibile critica alle
teorie sulla «classe creativa» di Richard Florida che tanto successo
hanno nei campus statunitensi.
Il volume non fornisce
tuttavia soluzioni. Preferisce un altro metodo, quello della
condivisione della propria riflessione. È cioè aperto a definire
collettivamente il percorso da intraprendere. L'autore ha inoltre
partecipato all'esperienza di Edu-factory, gruppo transnazionale di
ricercatori e docenti che ha prodotto il saggio Università globale
(manifestolibri), nel quale diversi testi sottolineano le diversità ma
anche le similitudini tra i diversi modelli di «fabbrica del sapere».
Le acquisizioni teoriche di cui dà conto, e che hanno costituito un
importante spinta allo sviluppo, ad esempio, dell'«Onda anomala» in
Italia, vanno messe a verifica dopo la crisi economica. Una crisi che
non è certo finita con le misure dei diversi governi per fronteggiare
gli scossoni tellurici della finanza, ma che sta già adesso
terremotando la produzione del sapere. Ne sta cioè cambiando la
geografia, come mostra la maggiore rilevanza di paesi come India,
Brasile e Cina nella formazione di forza-lavoro qualificata; ne
modifica quindi la divisione internazionale del lavoro, accentua la
circolazione dei cervelli, accelera le enclosures della conoscenza
attraverso le leggi nazionali e le norme sovranazionali sul copyright e
i brevetti. Tutti fattori che hanno la precarietà del rapporto di
lavoro elevato a sistema. Da qui la pregnanza politica del tema delle
«alleanze».
Tutto ciò non significa alleanze tra forze
organizzate, bensì il tentativo di aggredire la frammentazione della
forza-lavoro senza attendere una teleologica ricomposizione della
«classe». Questo significa riconoscere che l'università, la formazione
e l'industria culturale sono nodi di una rete produttiva dove la
ricomposizione è resa impossibile proprio dalla dimensione reticolare
dell'organizzazione produttiva stessa. Il tema delle alleanze serve
allora a misurare l'agire politico dentro la «fabbrica del sapere» con
le differenze all'interno della forza-lavoro.
In una situazione di
crisi economica, alleanza vuol dire quindi attivare relazioni con
figure lavorative che ancora credono nell'aura dell'intellettuale che
illumina la caverna, ma anche con chi nella «fabbrica del sapere» non
lavora e ancora crede nella preminenza politica del lavoro manuale e
chiude gli occhi su tutto il resto.
di Benedetto Vecchi