Il talquale

8 / 11 / 2010

Il “talquale” è la monnezza indifferenziata non trattata, piena di liquami, sostanze nocive e orrido trasudante percolato. Realtà invasiva di Napoli e dintorni, metafora adeguata per la maggioranza complice e succuba del delirio senile berlusconiano. Fini la rimpalla con precauzione, i poteri forti studiano come riciclarla in un sistema virtuoso di comando e sfruttamento, ma per ora si sono fermati alle ecoballe del governo tecnico. Il Pd vorrebbe tanto maneggiarla, ma per ora si è limitato a rimboccarsi le maniche –che schifo, te credo! L’Italia tutta ne è appestata. Intanto si discetta di un Papa straniero, del Cavaliere come comeback kid (Dio ne scampi), di discese in campo di industriali decotti e manager in fuga, Superciampi e agenti della Goldman Sachs. A quando Calisto Tanzi in riserva della Repubblica? Quale futuro per Messina Denaro?

Le grandi manovre che si stanno approntando e che con il discorso finiano di Bastia Umbra hanno subito un’indubbia accelerazione mostrano tutte un fiato corto e registrano il malessere strisciante più che la rivolta sociale. Certo, in termini parlamentari Fini, con raffinata abilità da quasi giovane superstite della Prima Repubblica, ha messo Berlusconi con le spalle al muro evitando di compromettersi con la sfiducia: con la sua offerta irricevibile lo costringe a subire l’iniziativa mettendolo nell’alternativa di dimettersi in vista di un Berlusconi-bis (ammettendo il proprio fallimento) o di incassare l’uscita dei ministri futuristi con fluttuante appoggio esterno e a questo punto di dimettersi senza garanzie di un rinnovo del mandato. Botta dura per il PdL, che annaspa infuriato ma poco loquace. Per ragioni diverse e per guai interni (non solo per tatticismo) Casini e Bossi si sono acquattati dietro il cespuglio, in attesa dell’esito del duello. Il rottamando Bersani è tutto impegnato nel Cappello di paglia di Firenze con l’attor giovane Renzi.

Resta invece nel vago il programma di autonomizzazione di Fli rispetto sia a un governo tecnico che a una competizione elettorale, o meglio tale programma ricalca implicitamente quello che stanno allestendo i poteri forti e ne ricalca, appunto, i limiti e le aporie di breve periodo. Non a caso il riferimento più concreto in positivo nel discorso di Fini è la richiesta di «un nuovo patto sociale, a partire per esempio dagli stati generali sull'economia e il lavoro nel Paese», cioè dal coinvolgimento della Cgil in un accordo, che registri il fallimento delle aggressioni in stile Marchionne e Brunetta (limandole, non sopprimendole) e dello scissionismo sindacale Sacconi-Bonanni per tornare alla logica concertativa. Sotto ricatto della crisi, beninteso. Per uscirne remando tutti insieme, come armatori, aguzzini e schiavi nelle galere. Il semi-clandestino “tavolo” fra Confindustria e sindacati confederali su welfare, decentramento contrattuale e apprendistato viene citato ad esempio. Poche idee, quelle finiane, ma allarmanti. Che magari non dispiacciono a Susanna Camusso, ma alla Fiom sì e parecchio.

Chi più si è esposto in materia è stato il Governatore di Bankitalia Draghi (il redentore ex Goldman Sachs), che ha proposto di evitare il calo della produttività stabilizzando gradualmente i precari. Dopo aver constatato il dualismo sempre più accentuato del mercato del lavoro, dove l’occupazione irregolare è stimata in circa il 12% (oltre 2 milioni e mezzo!) del totale delle unità di lavoro. Le riforme Treu e Biagi (tanto care a Sacconi) hanno leggermente incrementato l’occupazione negli anni precedenti la crisi, ma hanno comportato tra il 1998 e il 2008 un calo disastroso della produttività del lavoro e della competitività rispetto ai principali partner europei, fin quando la crisi ha azzerato e fatto regredire i livelli di quell’occupazione marginale e precaria. «Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità», per non parlare della mobilità sociale che pure è un indice di efficienza concorrenziale –ha lamentato dal punto di vista capitalistico il Governatore. Come se il problema fosse il sano profitto (e la “giusta mercede”) e non il declassamento quale controllo dell’eccedenza nella società globalizzata della conoscenza. L’attenzione alla gestione delle risorse umane rischia di essere solo vaselina con salari metalmeccanici di 1200 € –il riformismo rampante richiede almeno i livelli tedeschi, più che doppi.

Ci sarebbe in realtà da osservare che la situazione è ancor più pesante di quanto dichiarato nei dati aggregati Istat e Bankitalia. Secondo analisi più fine della Cgia di Mestre fra contratti a termine, part time, collaboratori e partite Iva a committente unico (in altre parole subordinati mascherati) si arriva a 3,7 milioni (16% degli occupati). Del resto il 40% di tutta la nuova occupazione creata nel decennio è di tipo precario. Oltre 2 milioni sono poi i cosiddetti Neet (Not in Employment, Education or Training) ovvero quanti non lavorano, non studiano, non stanno aggiornandosi. Solo un quarto dei giovani fra 25 e 34 anni occupati nel 2008 con contratto a tempo determinato o collaborazione aveva trovato dopo 12 mesi un contratto a tempo indeterminato o era diventato lavoratore autonomo vero, mentre oltre un quinto è transitato verso la disoccupazione o è uscito dalle forze di lavoro attive (dati di I. Visco, Bankitalia). Già sapevamo che il 26,4% dei giovani è disoccupato, 6 punti in più della media europea. Ovviamente non fanno figli e non maturano salario differito. Il loro futuro è deplorevole ma anche quello della demografia nazionale e del Pil. Meno male che ci sono gli immigrati, ma qui sorge il problema del loro trattamento, della mancata cittadinanza e di come si inseriscano sul mercato distorto del lavoro nero con i noti effetti di depressione dei salari e di contraccolpi xenofobi (aizzati dall’alto).

Balza però agli occhi che il problema non si risolve solo trasformando una quota degli impieghi precari in posti fissi, a livelli salariali bassi che frenino la dinamica complessiva garantendo però un minimo di attaccamento al lavoro e di crescita dei consumi interni. Entra in gioco tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, del reddito di cittadinanza, del superamento dei filtri discriminatori per i migranti (a proposito, e la Bossi-Fini, ex Turco-Napolitano?), dei diritti e accantonamenti dei lavoratori atipici –insomma, tutti gli elementi costitutivi del welfare del comune, che fuoriescono da un immaginario ritorno agli anni ’70, alla concertazione fra strutture fordiste e al keynesismo. L’olezzo nostalgico della Prima Repubblica è sopraffatto dai miasmi del talquale. Non sarà facile usare le masse per contenere il furore destabilizzante di Berlusconi con la prospettiva dei sacrifici per ridurre il disavanzo. Il capitale finanziario italiano, dopo aver stroncato per decenni le lotte operaie e perfino le normali relazioni sindacali, si accorge della propria emarginazione internazionale e dei tempi biblici per riprendersi dalla crisi. La monnezza napoletana e le macerie di Pompei sono il logo dell’Italia berlusconiana, ma anche di quella di Tremonti, Draghi e Marcegaglia.

Per questo una parte dei poteri forti (la Rcs del Corrierone in prima fila), pur sgomenta dell’abissale stupidità strategica di Berlusconi, si preoccupa che la crisi non manometta la Legge di stabilità e la vigente normativa elettorale con conseguente ribaltone. Ma è difficile chiedere ai partiti di centro (Pd compreso) il suicidio di andare alle urne con il Porcellum. Oltre tutto il 25 aprile e il Cln (di cui farnetica Repubblica) sono possibili solo a livello di esecutivo provvisorio di salute pubblica, non certo di alleanza elettorale per carpire il premio di maggioranza. Una volta tanto ad arrivare a fine mese senza sapere cosa fare non saranno le solite famiglie italiane ma le scombinate frazioni della grande borghesia...

P.S. Cosa avverrà adesso del nostro inconfessabile oggetto del desiderio? Riceveremo a domicilio e quando il mirabile opuscolo illustrante le realizzazioni del governo dell’amore e del fare? E soprattutto le effigi dei suoi comprimari, senza veli e in azione: Ruby, Nadia, Nicole, Bertolaso, Lele Mora, Emilio Fede? Sosteniamo il diritto alla più immonda libido per tutti i gender, almeno per i quattro principali!