Il Partito della L

30 / 8 / 2010

Signora mia, neppure gli squadristi sono più quelli di un tempo. Vogliamo mettere un maneggione alla Verdini (che idea, Squadristi della Libertà, ma dove siamo finiti), con il suo predecessore fiorentino Amerigo Dumini? Un assassino, certo, dei rossi di Rifredi e poi di Matteotti, cacciato da Sarzana a colpi di forcone, pure abbastanza traffichino e ricattatore, anzi sotto il fascismo si fece più anni al confino che mesi in galera dopo il processo-farsa di Chieti, però almeno una carriera avventurosa di criminale, con condanne a ripetizione ben poco scontate, baruffe con i nemici e con i suoi, affarucci sporchi in colonia, perfino una fucilazione per spionaggio, con 17 pallottole inglesi in corpo, resurrezione e fuga, doppio gioco fra Alleati e partigiani durante la Rsi e infine un ergastolo, commutato in 6 anni con l’amnistia Togliatti. Arduo compararlo con i raggiri verdiniani del Credito Cooperativo, le pale eoliche e le riunioni con il faccendiere Carboni e Arcibaldo non-so-chi? «Un democristiano di merda» –lo ha chiamato Bossi. La comune affiliazione massonica non copre la rovinosa discesa nella scala del male.

E che farebbero poi questi nuovi “squadristi”? Una volta strappate le elezioni anticipate a novembre (compito dei Promotori della Libertà, capitanati dall’intrepida Brambilla), essi avrebbero dovuto sorvegliare la regolarità dei voti seggio per seggio e soprattutto strillare ai brogli in caso di sconfitta o di risultati comunque insoddisfacenti, altro che «La Disperata» di infame memoria. Ma queste elezioni non ci saranno affatto, nel migliore dei casi slittano a primavera 2010, perché Berlusconi non è sicuro che siano un buon affare per lui e Bossi ha rinunciato a lucrare vantaggi subito in cambio della garanzia che Casini resta fuori (più qualche posto di ministro e di sindaco). Inoltre tutti temono che, in luogo della ripresa, in autunno ritorni una crisi nera, di cui lo sboom del ciclo edilizio americano, i rantoli di borsa e gli annunci di cassa integrazione sono segni minacciosi. Tenere le elezioni per puntiglio proprio sotto botta sarebbe un disastro e certo scatenerebbe una speculazione aggiuntiva sui titoli pubblici italiani. Inoltre, crisi o non crisi, l’orizzonte è scurissimo per la maggiore impresa, la Fiat, che sbraita per ristrutturare da capo a fondo il sistema delle relazioni industriali ma nel contempo mette i lavoratori in cassa integrazione a settembre, scontando una catastrofica caduta delle vendite in Italia e in Europa. Così che non è peregrina l’ipotesi che le prove di forza attuali mirino in fondo a giustificare lo spostamento della produzione auto dall’Italia verso altri paesi.

Los Zetas di Verdini e le belve dai tacchi a spillo possono allora darsi una calmata. E Feltri e Belpietro tornare a occuparsi di “catto-froci”, sorvolando per ora sull’arredamento monegasco-balduinese della Tulliani. Niente è risolto e tutto è rinviato. Berlusconi si affanna sul processo breve e Bersani si trastulla con l’Ulivo e il cerchio doppio.

Nell’attesa i giochi veri passano in mano a Tremonti, che prova a parare l’imminente uragano su debito e occupazione impostando un’ideologia di “austerità” e scuotendo via i lustrini berlusconiani per assuefare i cittadini al sottoconsumo e a miti pretese in fatto di diritti. L’alternativa è una delocalizzazione generale delle industrie, come ha sostenuto davanti a un branco di pii affaristi al meeting riminese di Comunione e Liberazione. «L'Europa dovrà rinunciare ai suoi standard elevati di tutela dei lavoratori perché altrimenti le imprese continueranno a delocalizzare in altri continenti...se vuoi diritti perfetti nella fabbrica ideale rischi di avere diritti perfetti ma perdi la fabbrica, che va da un'altra parte...Una certa quantità di diritti non ce la possiamo più permettere. Non è il mondo che si può adeguare all'Europa, è l'Europa che si deve adeguare al mondo». Concetto ripetuto la sera stessa del 25 agosto al Berghem Fest, funestato dall’irrispettosa contestazione dei tifosi bergamaschi, specificando euforico che fra questi diritti eccessivi ci sono «robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro), un lusso che non possiamo permetterci». Roba da augurargli una mano sotto una pressa.

Torniamo alla lectio magistralis di Rimini. Il richiamo all’austerità berlingueriana del 1977 –di plumbea memoria repressiva– è un trucchetto per rendere digeribile ai polli la solita ricetta di riduzione del deficit, licenziamenti e limitazione dei consumi. Il lamento sulla microdimensione delle nostre aziende inadatta alla competizione globale (ma non aveva sempre esaltato il Nordest, il piccolo è bello, i distretti leggeri?) e l’amara constatazione che «gran parte del Pil italiano è generato da piccole imprese sotto i 15 dipendenti, dove non c’è l’articolo 18 che impedisce il licenziamento», servono solo a suggerire lo smantellamento dei vincoli per le aziende medio-grandi, insomma un assist alle pratiche antisindacali Fiat, condito da filosofemi sulla partecipazione agli utili e la collaborazione capitale-lavoro. La trita ideologia pétainista lavoro-patria-famiglia (compreso il rimpianto che il colbertismo non abbia bloccato l’insorgere della Rivoluzione francese), stavolta però scandita in perfetto accordo con Marcegaglia e Marchionne. Il nemico è la lotta di classe, l’antagonismo in fabbrica, la conflittualità sindacale. Annuiscono i sindacati gialli, temendo di perdere consensi alla prima riduzione di manodopera.

La kermesse riminese si completa con l’omelia di Marchionne il 26. Scaltro nel leccare il culo ai fighetti ciellini –dalla difficoltà di parlare a giovani tanto seri all’evocazione delle radici abruzzesi, dalle scuse per la rude franchezza al ricordo dell’incontro con Nelson Mandela– si è buttato quasi subito su Melfi, un tema ahimé così “locale” rispetto alle sue abitudini cosmopolitiche. Non senza snocciolare una serie di citazioni approssimative da Pavese a Obama, da Hegel a Machiavelli. Peccato che il ruolo della Fiat sia apprezzato in tutto il mondo tranne che in Italia, dove non suonano le fanfare e arrivano a fischiarlo. Evidente che non ne vogliono sapere «perché ci manca la voglia o abbiamo paura di cambiare». Ecco le cause del declino, un eccesso di «abitudine di mantenere sempre le cose come stanno». Il progetto strategico Fabbrica Italia, agghindato perfino di “etica di business”, guarda invece in avanti, vuole competere a livello internazionale eliminando, nientemeno, che la «lotta tra capitale e lavoro, tra padroni e operai». Un vasto programma, come rispose De Gaulle a un tizio che gli proponeva di eliminare i cretini. Non ha mancato di farglielo notare Cesare Romiti, uno che se ne intende di normalizzazione, ma che ritiene inestinguibile e perfino produttiva la contrapposizione degli interessi. Tanto più in presenza di rinnovate tentazioni inflattive per diluire il debito pubblico americano e con una IG Metall che pretende aumenti del 6%.

L’evocazione della caotica complessità del mondo richiede per Marchionne flessibilità, cioè lavoro precario, mica “fossilizzato”, magari a livelli salariali tedeschi...Le resistenze operaie vengono tranquillamente equiparate al sabotaggio, alla prepotenza di pochi che conculca i diritti dei molti (secolare difesa del crumiro e della “libertà del lavoro” contro i picchetti degli scioperanti), né mancano hobbesiani richiami al pacta sunt servanda e la difesa della dignità dell’impresa e dell’imprenditore aggredita da giudici e stampa. Altrimenti la soluzione ottimale sarebbe Tychy o Kraguievac, non Pomigliano. Nei sogni dei dipendenti Fiat l’unica differenza con Freddy Kruger sarà il colore del maglioncino: blu per l’Ad, a strisce rosse e verdi per l’incubo assassino.

Conclusione di marchiana originalità: un nuovo patto sociale per responsabilità e sacrifici. Quanto a freschezza, meglio le repliche estive del Commissario Rex su Rai 1. Il bello è che la grande stampa tratta Tremonti e Marchionne quasi fossero Rathenau e Ford, mentre basterebbe domandarsi perché il Pil italiano risalga la china con una velocità dimezzata rispetto alla media europea e perché le auto Fiat non le compra più nessuno in Europa (negli Usa vanno forte le Chrysler, per la 500 vedremo). Comprano invece vetture tedesche, costruite da operai pagati il doppio che da noi, ah destino stravagante. Non sarà mica una micidiale combinazione fra modelli cari e scadenti e calo del potere d’acquisto? E non avrà ragione Romiti a considerare miope l’obbiettivo di dividere il sindacato, ritrovandosi contro quello più forte e radicato? Le scommesse confindustriali sul futuro assomigliano un po’ alle litanie sul governo del fare e i risultati che tutto il mondo ci invidia. Il guaio è che con chiacchiere e rappresaglie non si esce dalla L della crisi: caduta recessiva verticale seguita da piatta stagnazione. Adesso comprendiamo cosa significa l’ultima lettera della sigla PdL, visto che non alludeva né al liberismo economico né, Dio ne scampi, a qualche ispirazione libertaria...

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